lunedì 11 dicembre 2017

L'insulto - Ziad Doueiri

l'aula di un tribunale come luogo di un duello fra due persone che hanno difficoltà a piegare la testa e a chiedere scusa.
entrambi pensano di avere ragione, nessuno arretra.
il meccanismo di odio è quello che funziona quasi sempre, nella realtà, se non ci sono giudici e/o avvocati e/o politici con dubbi e umanità e saggezza che spengono i fuochi (appare anche un politico nazionalista che assomiglia a Salvini, ma dev'essere una coincidenza; in Libano, per loro fortuna, non lo conosce nessuno).
la storia è come quella di un legal thriller, quello schema narrativo permette colpi di scena, argomentazioni e punti come in un'avvincente partita di tennis.
la consapevolezza che tutti hanno un po' di ragione e un po' di torto si trasforma nel compromesso per spegnere l'incendio che stava iniziando.
bravissimi tutti gli attori, pedine di una sceneggiatura che non lascia scampo.
ed è strano che si rischi la galera per fare film così, buon segno, vuol dire che è un film che vale.
nei titoli di coda (per non eccedere nel politicamente corretto) mancano le immagini nelle quali Tony diventerà il meccanico di fiducia di Yasser, loro sanno che i tedeschi fanno le cose molto meglio dei cinesi (mentre nelle vernici fanno un ottimo lavoro gli italiani, veniamo a sapere, e anche che qualcuno si appella al boicottaggio di questo film).
non lasciatevi sfuggire questo film, addirittura in 60 sale (con uno dei migliori incassi per sala della settimana) - Ismaele








…Douieri e Joelle Touma, sua compagna e cosceneggiatrice, sono partiti da un'occasione reale, un'uscita verbale infelice del regista in un momento di nervosismo, per andare all'origine del sentimento che sta sotto certe frasi, che non vengono mai pronunciate per caso
Un'opera di immersione in profondità, dunque, tra lapsus e impulso, raccontata però in verticale, perché il conflitto, come la rabbia, come l'umiliazione, è qualcosa che monta. Raccontata in maniera diritta, appunto, attraverso tappe che si potrebbero dire prevedibili, eppure, non solo l'avverarsi del prevedibile è parte integrante del discorso, ma soprattutto è sfumato, colorato, drammatizzato da un ottimo copione, che si muove abilmente tra la sfera pubblica (e il film processuale) e il momento privato (dunque il dramma psicologico). Con il colpo di genio di fare dei due avvocati rivali un padre e una figlia, che non possono non portarsi in aula dell'altro: qualcosa che va al di là degli "atti", esattamente come il confronto tra Toni e Yasser va al di là dell'insulto pronunciato sul momento e affonda in una sofferenza, privata e collettiva, che ancora tormenta e fomenta…

Il regista, che aveva esordito nel 1998 a Cannes con West Beyrouth e che qui è al quarto lungometraggio, tornato da Venezia con il premio è stato arrestato, processato e prosciolto da un tribunale militare, accusato di collaborazionismo con il nemico israeliano. Un chiaro segno che L’insulto tocca un nervo scoperto, anche se il film non è manicheo e non traccia della politica un ritratto totalmente negativo. Uno dei messaggi è anzi quello dei cambiamenti che devono partire dal basso, da una volontà comune della popolazione di venirsi incontro, anche nel rapportarsi nel quotidiano, nelle cose più banali, e che non tutto dipende dalla sola politica…
 una lezione di memoria e di storia che si profila gradualmente, sugli eccidi noti e quelli dimenticati, che lasciamo scoprire allo spettatore, poiché questi sono il momentum del film.
Il quale esce qui dallo psicodramma cinematografico per assurgere con potenza e semplicità al dramma umano della storia. Non ci può essere perdono e quindi riconciliazione senza assunzione di responsabilità reciproca – perché tutti hanno colpe e giustificazioni – e senza conoscenza storica e comprensione piena del dolore immenso che fa covare questa rabbia insensata e perenne dell’orgoglio, della frustrazione.
Alla fine della guerra, l’amnistia diventò amnesia, dice il regista, e qui sta il nodo da affrontare e sciogliere per uscire dall’eterna e perenne grande faida, dal grande campo di prigionia interiore del passato, per una nuova alba dei rapporti interrazziali, religiosi, politici e più semplicemente umani. Non un insulto ma un messaggio di pace.

..Non hai l’impressione che il successo del film nasca dal fatto che il mondo si sia… “libanesizzato”?
L’accoglienza all’estero, in Occidente, è stata sorprendente. Abbiamo vinto quattro premi del pubblico in vari festival: al quarto mi sono chiesto,perché in tanti, non arabi né tantomeno libanesi, si identificano? Perché il mondo sta vivendo cambiamenti complessi e forti che noi forse abbiamo vissuto prima di altri. Quella rabbia, quel dolore è arrivato in tutto il mondo, temo. Penso all’ultima rassegna in cui sono stato, al San Francisco Film Festival. C’era un odio nei confronti di Trump, una rabbia così grande e divisiva verso l’attuale governo e chi l’ha eletto che mi ha fatto paura. Eravamo davanti a un caffè e mi dicevano tutti quanto si identificassero con il mio film, quanto si sentissero in un paese diviso. Io volevo solo raccontare una storia, in parte la mia storia. Solo dopo ho scoperto che era universale, e non lo immaginavo. Non con questa forza…

L’insulto è il classico caso in cui la forma cinema non si presenta particolarmente sofisticata: qui di innovazioni linguistiche e narrative non si vede traccia, ed è probabilmente il motivo per cui a Venezia non è piaciuto alla critica più oltranzista e cinefila. Ma stavolta, signori, sono i contenuti a dominare schiacciando tutto il resto, e cosa mai volete che sia se confezione e modello narrativo sono dei più convenzionali (e però nient’affatto disprezzabili, pure con gloriosi precedenti: The Insult è un perfetto courtrooom movie, genere illustrissimo, tant’è che il regista Ziad Doueri ha dichiarato in conferenza stampa al Lido la sua ammirazione per Il verdetto di Sidney Lumet). Stavolta mi schiero dalla parte dei biechi contenutisti. La materia trattata è talmente esplosiva da far passare il resto in secondo piano. E fa niente se c’è qualche furbata che a un festival suona maleducata, un attentato al bon ton autoriale (vedi il colpo di scena che ci fa scoprire come l’avvocatessa della difesa sia la figlia dell’avvocato della controparte). Il film ha struttura robusta, un andamento serrato e avvincente. Dosa benissimo le sue rivelazioni alternando pause e climax. Ed e probabile che diventi un successo arthouse internazionale se solo trova il vento giusto…

…Desde un punto de vista visual, aunque gran parte de la película tiene lugar en los tribunales, el director adopta un estilo dinámico y visualmente muy elaborado, con un uso intensivo de steadicams.  El ritmo de la narración es ágil, dinámico y constante, gracias a los numerosos giros y vueltas de guion durante el metraje que consiguen mantener vivo el interés del espectador.

il punto forte del film, in fondo solido ma classico dramma processuale (non a caso uno dei riferimenti di Doueiri è stato Il verdetto di Sidney Lumet), quanto il contenuto. Cinema che può non piacere, perché smaccatamente desideroso di mandare un messaggio e quindi a rischio didascalia, invece apprezzabile proprio per il tentativo di sviscerare la complessità rendendola comprensibile anche per un pubblico poco avvezzo con le questioni medio orientali. Un’opera quindi importante proprio per quello che dice, in cui il cinema viene utilizzato come strumento comunicativo per fare chiarezza mantenendo la giusta distanza. In un equilibrio così precario, colpisce che al Festival di Venezia, dove è stato presentato in Concorso, la Giuria abbia deciso di sbilanciarsi a favore di uno dei due protagonisti premiando Kamel El Basha, interprete della parte palestinese del conflitto.

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