martedì 31 luglio 2012

Il villaggio di cartone – Ermanno Olmi

recita Michael Lonsdale, bravissimo, già visto in “Uomini di Dio” e “Agora”.
un film di simboli e messaggi, e Olmi può permetterselo senza annoiare.
un film da vedere - Ismaele


L'uomo di Chiesa senza più una chiesa diviene più forte, più capace di interrogarsi fino a riuscire a comprendere che il Bene è più grande della Fede. È in nome di questo Bene che può opporsi alla stupidità degli uomini di legge, pronti ad obbedire a qualsiasi assurdità, ricordando loro che verrà il giorno in cui saranno giudicati per quanto fanno a questi ultimi privi di difesa. Una difesa che non può venire da un terrorismo che mette sterilmente Dio contro Dio ma solo da una pietas che muti nel profondo il corso di una Storia che, in caso contrario, provvederà autonomamente. Il cinema ha bisogno di autori come Olmi che sappiano mostrarci uno specchio in cui riflettere dubbi e certezze per scalfire pregiudizi e non smettere di interrogarci. Bentornato Maestro!

…Dopo succede molto meno: nella spoglia chiesa si insidiano un gruppo di migranti clandestini africani, figure spesso simboliche: l'uomo ferito, il bambino affamato, la donna che ha appena partorito, il ragazzo con cariche di esplosivo. Quest'ultima resta una scelta irrisolta, forse non del tutto decifrabile, comunque simbolo di una riconciliazione che resta utopica.

L'impianto è fortemente teatrale, i dialoghi sono di certo quasi sempre "giusti", circoscritti ad un messaggio chiaro e condivisibile, pur con qualche forzatura, ma al contempo fin troppo scritti, antinaturalistici.
Il film, nobilissimo, manca però di vero pathos, irrigidito da una lentezza solenne ma priva di ritmo, nell'andamento vagamente predicatorio.
L'apologo di Ermanno Olmi resta comunque un caso raro di racconto allegorico sui giorni nostri e, pur tra stonature, i conti finali non rassicurano: l'autore lascia didascalicamente un messaggio di speranza, ma al contempo, sembra dirci, l'abolizione di chiese e fedi (politiche comprese) ci rende poveri. Forse nemmeno la solidarietà può bastare.

Nella rigorosa unità di luogo di una chiesa dismessa, in un angolo non definito della provincia padana (si è però girato in Puglia tra ottobre e novembre 2010), un prete che ha ormai smarrito il senso della propria missione (Michael Lonsdale) vede reincarnarsi il messaggio cristiano nell’arrivo di alcune decine di immigrati africani rifugiatisi lì durante la notte per sfuggire alle cattura delle autorità. Inizialmente impreparato e inadeguato al compito, che del resto nessuno gli ha assegnato, spento di ogni animo vitale, il prete si inginocchia lentamente di fronte al mistero e riscopre il bene al di là della fede divenuta ormai simulacro…

… E' una denuncia, fatta attraverso scene caravaggesche e dialoghi teatrali, dell'indifferenza nei confronti delle condizioni degli immigrati. Ma alla fiction il maestro ha voluto aggiungere anche parole. «La chiesa dovrebbe essere come una casa che accoglie. Non deve domandare se una persona è credente o no. Liberiamoci dagli orpelli, apriamo le nostre case. Vorrei suggerire ai cattolici di ricordarsi spesso di essere anche cristiani», ha detto Olmi senza lesinare il biasimo verso chi si inginocchia davanti ai "simulacri di cartone" e poi non è coerente con il vangelo.
Il villaggio di cartone non è una lezione di morale, ma piuttosto un invito o forse una frustata a occhi che non vogliono vedere. Mentre protegge i suoi miseri dalle ronde e dalla legge, il prete infatti continua ad essere roso dai dubbi e dalle tentazioni. «Avere fede è quando i nostri dubbi pesano di più delle nostre convinzioni. Per essere uomini di fede bisogna avere davanti un muro di dubbi», ha spiegato poi Olmi…
"Quando la carità è un rischio, quello è il momento della carità". La religione è un tema caro ad Ermanno Olmi - impossibile dimenticare "La leggenda del santo bevitore" - ma ancora di più lo è il tentativo di una fedele ricostruzione delle situazioni, per le quali le parole sono perlopiù superflue. Quando vinse la Palma d'oro nel 1978 con "L'albero degli zoccoli" volle ricreare la vita contadina di un zona della bergamasca a fine Ottocento; con "Il villaggio di cartone" vuole denunciare la triste realtà delle leggi sull'immigrazione in Italia oggi, senza risultare eccessivamente polemico.
La vicenda ruota attorno alle sensazioni del protagonista, un anziano prete senza più una chiesa dove poter celebrare la messa domenicale, il quale si trova a contatto con un gruppo di clandestini provenienti dall'Africa sfuggiti alla polizia. La scelta di aiutare queste persone è immediata, ma il sagrestano non si trova nella stessa posizione, infatti chiede al prete "Perché lasciate entrare quella gente nella nostra Chiesa?"; il prete, poi, risponde "Perché è una Chiesa"; di nuovo il sagrestano dice "Quella è gente diversa, avere a che fare con loro è un rischio per tutti"…

Le souvenir d'un avenir (Recuerdos del Porvenir) - Chris Marker



Se incontri un gatto arancione magari è Chris Marker. Era una delle tante leggende che circondava il cineasta francese, scomparso ieri, che spesso amava rappresentarsi con l'immagine, appunto, di un gatto color arancio. Ma la sua figura enigmatica, la scelta di non comparire in pubblico alimentava l'affabulazione: si diceva che non uscisse mai di casa, invece Marker era un viaggiatore infaticabile,la Bosnia, il Kosovo, per citare dei luoghi dai lui filmati in tempi più recenti, e naturalmente il Giappone, dove era un mito, si dice che vi sia a un caffé col nome del suo film, La Jetée. Ma questo suo viaggiare, o meglio questo suo essere nel mondo, si intrecciava intimamente alla sua visione del cinema...
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lunedì 30 luglio 2012

Los Cronocrímenes - Nacho Vigalondo

sembra qualcosa di già visto, magari per chi ha visto "Primer", o per chi ha letto e visto le grandi storie di fantascienza nelle quali si viaggia nel tempo, ma il tutto è reso alla portata di chiunque (quasi).
un film che appassiona e che inquieta.
merita, merita, merita (a proposito di ripetizioni) - Ismaele



Un uomo con la moglie ha appena preso possesso di una casa in montagna. In un momento di relax scorge nel bosco antistante la recinzione una giovane donna che si spoglia. Esce e la va a cercare. Quando la trova è nuda e distesa vicino ad un masso. Ha perso i sensi, o è morta, non ho capito. Mentre s'avvicina viene aggredito con una forbice da un uomo con la testa completamente fasciata da una garza rosso-rosa. Fugge. Finisce in una casa vicino. Sfonda una vetrata ed entra. Trova apparecchiature tecnologiche il cui scopo è indefinibile ed un walkie-talkie acceso. Parla ed un uomo gli risponde. Gli consiglia di fuggire fino all'altro edificio dove lui si trova perché l'inseguitore. Hector, l'inseguito, raggiunge l'uomo, una specie di scienziato, che lo invita ad entrare in una vasca piena di un liquido bianco per nascondersi dal "garzato" che sta arrivando. E' notte, la vasca si chiude, potrebbe annegare, ma ne esce vivo solo che ora è giorno. Ma è giorno precedente, non successivo! Ha viaggiato nel tempo…

…per gran parte dell’opera l’interesse rimane alto quanto il divertimento, la suspense non viene mai a calare per merito di soluzioni visive e di montaggio semplici quanto efficaci e della padronanza dei tempi del thriller, mai interrotti da spiegazioni fantascientifiche troppo verbose.
Ne guadagnano la storia e il senso di smarrimento del protagonista che dovrà imparare da solo a coordinare gli eventi nel tempo.
Ipnotica la figura del killer bendato come una mummia, esplicito riferimento al mostro della Universal, e ottima prova di scrittura e regia la lunga sequenza della sua creazione, disvelamento passo dopo passo di una personalità che ha oltrepassato il limite e che dopo questa trasfigurazione non potrà più tornare indietro.

…Lo spunto geniale del film, forse dovuto a budget o semplicemente deciso a tavolino, è limitare il viaggio nel tempo a sole 2 ore e lo spazio a pochi km quadrati. Non ci sono altre epoche, nessun altro luogo, Hector piomba in un inferno di ripetitività concentrato in pochissime ore di cui è allo stesso momento artefice e vittima. C'è un senso di ineluttabile, di immodificabile…

domenica 29 luglio 2012

The hunted (La preda) - William Friedkin

uno di quei film che ti sembra di aver già visto, ma Tommy Lee Jones e Benicio Del Toro danno un'interpretazione sopra la media e William Friedkin ne sa.
non è un capolavoro, magari un'americanata, ma si vede bene - Ismaele



…Friedkin è innamorato della sua poetica che qui come altrove è sempre splendidamente semplice e coerente. The Hunted ha però il difetto di reggersi di più sulla poetica del regista che sulla forza della storia. E in definitiva, mentre a livello di temi e tecnica Friedkin non aggiunge nulla di nuovo rispetto al suo repertorio, e anzi sembra ripetere già tutto quello che aveva detto con Regole d’onore, la storia è tra le più trite (Rambo), e soprattutto è scritta male, non riuscendo mai a coniugare perfettamente le scene d’azione dei due protagonisti (ben dirette), con il contesto delle indagini e i personaggi secondari (male definiti). Rimane un film che ha qualcosa da dire, ma non riesce ad organizzarsi in discorso: questa volta Friedkin è troppo innamorato dei suoi temi per esprimerli con chiarezza.

"The Hunted" requires its skilled actors. Ordinary action stars would not do. The screenplay, by David Griffiths, Peter Griffiths and Art Monterastelli, has a kind of minimalist clarity, in which nobody talks too much and everything depends on tone. Notice scenes where Del Toro is interrogated by other law officials. He doesn't give us the usual hostile, aggressive cliches, but seems to be trying to explain himself from a place so deep he can't make it real to outsiders. This man doesn't kill out of rage but out of sorrow…

On retrouve aussi tout le savoir-faire de Friedkin dans une course-poursuite haletante, dans laquelle, Tommy Lee Jones suit Benicio Del Toro à la trace, tel un éclaireur indien dans les westerns d'antan. On est ici bien loin des insupportables histoires de profileur et de leurs sempiternelles théories sur les problèmes des tueurs psychopathes face à la sexualité et à la religion.
Autre aspect intéressant du film, Friedkin a évité tout discours moralisateur et est parvenu à rendre flou la frontière entre le bien et le mal grâce à des personnages attachant, éloignés des clichés habituels.
Ainsi, Benicio Del Toro qui interprète le tueur est finalement assez sympathique. L'acteur joue sobrement sans rouler des yeux ou piquer des crises de folies furieuses à tout propos…

Il est vrai alors que la violence de certain des combats du film peuvent heurter quelques-uns, mais il ne faut pas se leurrer, la volonté du réalisateur n'a pas été de faire dans la surenchère graphique mais bien de montrer tous le coté sauvage qui sommeille en chacun de nous, quelque chose qui nous pousse parfois à commettre l'irréparable si le monde extérieur nous y pousse. En résumé un bon film qui, malgré un scénario conventionnel et quelque peut évasif, parvient à distiller une tension permanente grâce à sa réalisation énergique et sèche. Les acteurs ne sont pas en reste et ajoute à cela un face à face terrifiant mais emprunt d'amertume.

Esta es una de esas peliculas con poca capacidad y ninguna pretensión de sorprender con su tématica. 
Basada en una fórmula tan usada como eficaz, su principal defecto radica en la poca habilidad que director y guionista han demostrado en exprimir dicha temática. 
La pelicula parte del manido conflicto moral del 'monstruo' que escandaliza por sus acciones a la sociedad que lo ha creado y que no se identifica con él…

La scuola è finita – Valeria Jalongo

un film dell'orrore, a tratti, e forse la realtà ci va vicino.
brava Valeria Golino, ma il film non mi ha conquistato.
se proprio uno lo vuole vedere...- Ismaele




…Dramma venato di commedia sotto l’egida di un insistito realismo, il film – scritto dal regista con Francesca Marciano, Alfredo Covelli e Daniele Luchetti (autore del molto migliore La scuola) – è il tentativo andato a vuoto di indagare sul serio lo squallore e il declino del sistema scolastico italiano. Quello che interessa a Jalongo, infatti, è raccontare in un contesto suburbano il potere salvifico della musica, la capacità che l’arte ha di redimere e raddrizzare vite bruciate e famiglie disfunzionali, dando per scontato il fallimento delle istituzioni sociali. Niente di male, se non fosse che Jalongo sembra sbagliare i mezzi, confondendo spesso la realtà col realismo e arrivando all’artificio al posto della più ostentata verità…

…Si sente pulsante la preoccupazione di Jalongo ma l'intensità si disperde in una disorientante divisione in capitoli, come didascalici libri di testo, e soprattutto in un campionario di gioventù bruciata già vista. Il già visto fagocita e fa implodere la piega più interessante del racconto: La scuola è finita poteva essere uno dei pochi film che si spostano sul punto di vista dei professori e non solo degli alunni figli e vittime del degrado periferico. Poteva essere un racconto sull' umanità di un ruolo così difficile ma fondamentale come l'insegnante, dove è facile sbagliare e esser subito condannati se si va al di la del consiglio dei docenti, delle ore pagate e degli scrutini affrettati in aule fatiscenti. Ma è una via del racconto tardiva e la scuola finisce così con piccole speranze all'ombra di un pessimismo non approfondito.

Rispetto alla surreale, inquietante idea di messa in scena che ha lasciato intravedere nella scelta dei setting e nell’ideazione delle scenografie, La scuola è finita si tramuta in un lungometraggio fin troppo schematico ed inserito in alcune determinate logiche del cinema italiano, “gabbie” economiche e narrative che diventano esse stesse una forma di autocensura preventiva rispetto all’idea di osare veramente qualcosa di nuovo, anche se sanamente sconclusionato. Jalongo ha gettato alle ortiche una curiosa opportunità, e la sensazione netta è che sia un vero peccato. 

 Resta un film profondo e sincero, se volete rozzo, che purtroppo rischia di passare inosservato, un grido forsennato di dolore che speriamo non rimanga ai più sordo. A volte succede che al posto di un professor Keating ci sia un Tallarico, che antepone la disperazione della sua vita fallita al bene degli studenti: non basta certo conoscere il Marinetti per poter fare di conoscenza virtù, serve anche il discernimento delle situazioni.

sabato 28 luglio 2012

Le silence de la mer (Il silenzio del mare) - Jean-Pierre Melville

capita a volte che l'opera prima sia già un capolavoro, e questo è il caso.
tratto da un libro difficile, è una storia di sguardi e un monologo di un ufficiale tedesco che non aveva capito il dramma e gli scopi della guerra.
poi tutti sanno tutto.
da non perdere, per ricordare cosa può essere il cinema - Ismaele

Melville infatti non indietreggia di un solo passo e gioca coraggiosamente al rialzo, promettendo a Vercors di sottoporre il film finito ad una commissione di resistenti, con la clausola che se anche uno solo dei membri si fosse opposto, il negativo sarebbe stato distrutto. Non è tutto: esponendosi personalmente (pagava i collaboratori giorno per giorno, nella consapevolezza che la lavorazione si sarebbe potuta interrompere in qualsiasi momento), Melville sceglie come location la vera casa di Vercors, il luogo in cui lo scrittore, basandosi su fatti realmente accaduti, aveva immaginato la storia. Siamo nel 1947 e si tratta di una delle prime volte che un film di finzione viene girato in ambienti naturali: la scelta è profondamente trasgressiva nei confronti dell’istituzione cinematografica francese e rappresenterà un modello produttivo fondamentale per la Nouvelle Vague. Ma l’aspetto più straordinario dell’intera operazione risiede nella motivazione dell’adattamento, nel perché Melville abbia scelto proprio quel romanzo per girare il suo primo film. La ragione è paradossale: il carattere apparentemente anticinematografico del racconto di Vercors. La quasi totale assenza di movimento e azione nel romanzo rappresenta per il giovane ma già lucidissimo creatore (Melville preferiva questa nozione a quella, impropria, di autore) una sfida estetica esaltante: trasformare uno spazio chiuso e isolato in un contenitore di tensioni psicologiche e fare del silenzio una cassa di risonanza delle passioni. Ebbene, la sfida è vinta sotto tutti i punti di vista: "Le silence de la mer" è infatti un film sublime, struggente e controllato, di un equilibrio stilistico supremo…

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Après l'armistice de 1940, un vieil homme vit retiré à la campagne avec sa nièce. Ils se voient contraints par la Kommandantur d'héberger un officier allemand. Bien décidés à ne pas parler à ce représentant des forces d'occupation, il l'accueillent dans une maison aussi froide et silencieuse qu'un tombeau. Cependant, au fil des visites de von Ebrennac – qui, chaque soir, fait un court passage dans le salon et livre ses pensées à ses hôtes – ils découvrent un homme intelligent, sensible et sincèrement amoureux de la France. Il leur raconte sa passion pour la musique et la culture en général, sa conviction profonde que de cette guerre va naître un rapprochement des peuples. L'oncle et la nièce gardent le silence mais sont troublés par cet homme qui leur parle sans attendre de retour de leur part, qui comprend et approuve leur résistance silencieuse...

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..Le Silence de la Mer does not seek to redeem Germany’s honour, a near impossible feat a mere four years after the full revelation of Hitler’s designs, but it does offer a different perspective from the bulk of war films. Reminiscent of Renoir’s masterful La grande illusion, Melville’s film does not dabble so much in class commentary but sombrely reminds us that the greatest tragedy of war is that humanity can only kill its own.

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venerdì 27 luglio 2012

The Naked Kiss (Il bacio perverso) - Samuel Fuller

una storia che ti tiene attaccato alla poltrona, sceneggiatura a orologeria, bravi attori, un film crudele, dove i sogni evaporano.
un film che merita - Ismaele


"Fuller ci mostra che i bambini possono sognare, ma non concede uguali illusioni agli adulti" (Motion Picture Guide), investiti come sono da argomenti tabu con una violenza cinematografica di cui è difficile trovare precedenti nella storia di Hollywood: un mix di sentimentalismo e rabbia fisica in dosi massiccie, senza alcuna preoccupazione della loro coerenza o digeribilità.
 Ne viene fuori un film dal moralismo radicale, striato di sequenze scioccanti (come quella iniziale in cui la Towers pesta il proprio protettore) e canzoncine caramellose dal risvolto perverso. Nella prima scena, per assaltare lo sguardo del pubblico, il regista fissò la macchina da presa sul corpo degli attori in colluttazione.


The Naked Kiss is capital-M Melodrama. When Kelly steps off the bus into Grantville, we see her stocking-clad leg emerge from the door of the bus accompanied by a jazzy score with its sweltering horn line. Like his contemporary Nick Ray, Fuller was telling pulpy, melodramatic stories while trying get at a personal vision. Those not willing to suffer through "big" moments—outsized emotions, violent reactions—should probably stay clear of The Naked Kiss.

giovedì 26 luglio 2012

Le nevi del Kilimangiaro - Robert Guédiguian

un film col lieto fine, edificante, in senso buono, dico.
una storia di ultimi e penultimi, quando stai male scopri che qualcuno sta peggio.
Robert Guédiguian è come se facesse sempre lo stesso film, mutatis mutandis, così come Guccini sembra che faccia sempre la stessa canzone, mutatis mutandis. 
se ti piace una ti piacciono tutte.
a me Guccini e Guédiguian piacciono, e questo film mi è piaciuto - Ismaele



Ispirato dalla “Les pauvres gens” di Victor Hugo e accompagnato dalla canzone di Pascal Danel (che fornisce il titolo al film), Le nevi del Kilimangiaro è il nuovo dramma sociale di Robert Guédiguian sulla disoccupazione e la dolorosa perdita della dignità. Nondimeno è un’opera leggera come un palloncino, che racconta la vita quotidiana di una coppia aperta e accogliente alla maniera dei cortili che abita. Ancora una volta il regista marsigliese mette in scena una piccola storia che ha il sapore e la solidarietà del cinema del Fronte Popolare. Partendo da un licenziamento, quello del protagonista, il film avrebbe potuto precipitare in un dramma da socialismo reale, al contrario il clima è lieve e gioioso, si ride spesso e si rimane sedotti dalla voglia di vivere di due coniugi operai che lottando negli anni Settanta sono andati 'in paradiso'. Il loro paradiso è la casa che hanno costruito e la famiglia che hanno formato ed educato ad essere onesta e di grande cuore. Ma il cinema di Guédiguian non si è mai fermato alle mura domestiche, scendendo in strada attraverso quelle finestre e quelle porte sempre spalancate sul mondo e sulla società. Ed è proprio da quei varchi che il brutto del mondo entrerà, portandosi via ‘proprietà’ e sicurezze ma insieme offrendo una possibilità di comunione e partecipazione. Perché il ragazzo che ha occupato il loro Eden, derubandoli, è un giovane uomo di una generazione cresciuta senza testimonianze né esempi di quella che un tempo era la lotta di classe, ovvero un modo (giusto) di cambiare la vita di chi è sempre in soggezione. E a questo punto Le nevi del Kilimangiaro gioca le sue carte migliori per rigore e sensibilità, portando alla coscienza del protagonista la necessità di fare qualcosa, individuare una possibile canalizzazione del malessere giovanile in funzione di una nobiltà d’animo che risollevi il morale e la morale.
È la forza dell’etica la cifra del cinema di Guédiguian…

…La coppia protagonista, alla ricerca dell’equità sociale, in una solare Marsiglia, ingaggia una bella lotta a chi porge di più l’altra guancia: finiscono derubati picchiati umiliati.
Persino disoccupati, ma felici in nome della loro coerenza morale.
Jean-Pierre Darroussin e la sua fin troppo paziente moglie vivono sulla pelle il contrasto tra l’egoismo borghese dilagante anche nel loro microcosmo e la speranza di un mondo più giusto, sotto gli occhi disincantati di un moderno alquanto tollerante Janvier.
Il film, superato un veramente noiosissimo inizio, affastella mille problematiche e culmina con l’autocritica finale del sindacalista imborghesito super garantito rispetto alle nuove generazioni, cui decide di perdonare anche l’imperdonabile.
Si segnala che Jean-Pierre Darroussin, nei panni di un lustrascarpe, si sta contemporaneamente prodigando sugli schermi, in Miracolo a Le Havre, a far passare la Manica al piccolo Idrissa, immigrato clandestino africano.
E’ l’ora, è l’ora, i buoni son tornati!

Senza dubbio dobbiamo essere grati a Guédiguian e a Loach (spesso accostati) per le belle e appassionate descrizioni che fanno e hanno fatto negli scorsi decenni di quella parte di Europa che non sembra interessare il cinema mainstream. Ma i due autori rischiano di rimanere fermi a una lettura politica e a uno stile visivo datati. I cantori contemporanei delle gesta popolari sono invece i registi che riescono a comprendere le nuove dinamiche e a rappresentarle con lucidità e grazia, come i maestri Dardenne, il geniale Kechiche o il promettente Meadows.

mercoledì 25 luglio 2012

Svetat e golyam i spasenie debne otvsyakade (The world is big and salvation lurks around the corner) - Stephan Komandarev

un Miki Manojlovic splendido, indimenticabile, immenso, con attori bravissimi e un regista che ne sa, in un film candidato all’Oscar per il miglior film straniero del 2010 (non avrebbe sfigurato una sua vittoria).
un film commovente e alla fine ti piacerebbe imparare a giocare a backgammon (qui le regole).
cercatelo e guardatelo, nessuno se ne pentirà, promesso - Ismaele


Un film che si intitola Il mondo è grande e la salvezza si cela dietro l'angolo (questa la traduzione del titolo internazionale in inglese, quello originale bulgaro è leggermente diverso - Il mondo è grande e la salvezza si aggira per tutti i lati -), o si ama o si odia. Io, come l'amico che me l'ha segnalato, l'ho molto amato.
E' bene dire che il film è molto prevedibile: succede sempre esattamente quello che ti aspetti. Più o meno. La storia è ben congegnata, ad orologeria direi, e i personaggi, che poi alla fine sono due, ma soprattutto uno, Bai Dan, recitato alla perfezione da uno splendido Miki Manojlovic (visto in moltissimi film, dai primi di Kusturica, Papà...è in viaggio d'affari eUnderground, fino a Irina Palm, lo splendido La polveriera e molti molti altri), superlativi. Non che alcuni caratteri non protagonisti non siano azzeccati: anzi.
C'è da dire anche che quando si ha occasione di vedere film come questi, da italiani, ci si domanda perchè gli altri, chiunque altro, siano capaci di raccontare il loro passato con tocco lieve ma fermo, e al tempo stesso guardare avanti con occhi pieni di speranza: la salvezza del titolo, forse. Chissà se è per questo che, molto probabilmente, non lo vedremo mai nelle nostre sale.
Insomma, un film semplice, ma non stupido (il "viaggio della speranza" al contrario, l'allegoria col backgammon), ben recitato e ben girato, e molto, molto bello, commovente, pieno di ottimismo di quello sano, intenso.
Inutile tentare oltre di descrivere l'emozione: guardatelo.

I think that Bulgarian cinema is the one I'm the least familiar with; I'm not sure I've seen more than a couple of films from Bulgaria. And yet, here you have this movie practically no one knows and it's a masterpiece. Everything about it is just so breathtakingly beautiful. The characters are so frank it's unbelievable, they find themselves gradually, and at the end you hold your breath expecting to see what is going to happen.
If this were a Hollywood film, I'm pretty certain it would be awful. There are elements in this film that are clichés - but this is where powerful film-making comes into play; you can exploit a cliché in such a way so as to make it a staggeringly original statement.

And even if many times for many of us, it doesn't really seem as though the world is big salvation lurks around the corner, this movie effortlessly makes you believe it does, and that's enough of a reason to watch it.

L’originalité de l’histoire concerne davantage la relation entre le grand-père, merveilleux Miki Manojlovic (qu’on voit beaucoup dans le cinéma français), et le petit-fils, envoûtant Carlo Ljubek (qu’on a peu l’habitude de voir, malheureusement). A l’écran, ils nouent un tandem vivifiant, épanoui, une véritable relation de famille pure et intense qui dépasse même la relation père ou mère/fils. Une complicité et une amitié qui les conduisent jusqu’à la lutte dans le jeu du backgammon, autre originalité du film. Ce jeu a beau être connu de bon nombre d’entre nous, nous devons être peu à en apprécier les règles. Le final est d’ailleurs grandiose quand le petit-fils doit faire plus que douze avec deux dés pour détrôner son grand-père!...

martedì 24 luglio 2012

The Grey Zone (La zona grigia) - Tim Blake Nelson

Tim Blake Nelson deve essere un tipo speciale. Fa l’attore in quel filmone che è “Detachment” e nel 2001 ha girato “La zona grigia”.
è un film incredibile, crudo, senza pietà, nel quale dei disperati che devono morire fanno delle cose giuste, in un mondo a parte come un lager tedesco.
più dalle parti di “Kapò” che in quelle de “La vita è bella” (film che comunque mi è piaciuto molto).
Assolutamente da vedere, siamo in zona capolavoro - Ismaele


peccato il disinteresse generale per un film-documentario come questo...è vero, non è stato molto pubblicizzato, ma ne consiglio vivamente la visione!
non mi rendo nemmeno conto se sia giusto fare un commento sulle scenografie di un campo di concentramento...
cmq la prova deli attori,del regista,degli scenografi,degli sceneggiatori è stata superlativa: hanno riportato alla luce una realtà storica da non dimenticare nella sua piena crudeltà...un film oserei dire "crudo"...
da vedere...ma lo sconsiglio vivamente ai deboli di stomaco!

Il finale invece ci regala l'unico momento di poesia del film, come se solo la morte potesse liberare le anime degli uomini.
Il titolo della pellicola rimanda subito a quella zona grigia che Primo Levi descrisse più volte nei suoi romanzi e che è facilmente identificabile proprio con il campo di concentramento di Auschwitz. Su questa definizione Tim Blake Nelson fonda lo stile della sua pellicola, contraddistinta da una fotografia grigia che stilizza luoghi e persone arricchendo la forza dell'impatto drammatico...

basato sul libro Auschwitz: A Doctor's Eyewitness Account di Miklos Nyiszli, medico ebreo ungherese che effettuò gli esperimenti del nazista Josef Mengele per salvare sé stesso e la sua famiglia. Non c'è compiacimento morboso nel mettere in immagini (fotografia stilizzata di Russell Lee Fine) l'orrore di un lager di sterminio e il velo grigio della cenere umana che avvolge il campo e le coscienze degli internati. Pone più di una domanda e mette in luce la dimensione industriale della soluzione finale…

I have seen a lot of films about the Holocaust, but I have never seen one so immediate, unblinking and painful in its materials. "The Grey Zone" deals with the daily details of the work gangs--who lied to prisoners, led them into gas chambers, killed them, incinerated their bodies, and disposed of the remains. All of the steps in this process are made perfectly clear in a sequence, which begins with one victim accusing his Jewish guard of lying to them all, and ends with the desperate sound of hands banging against the inside of the steel doors…
"The Grey Zone" is pitiless, bleak and despairing. There cannot be a happy ending, except that the war eventually ended. That is no consolation for its victims. It is a film about making choices that seem to make no difference, about attempting to act with honor in a closed system where honor lies dead. One can think: If nobody else knows, at least I will know. Yes, but then you will be dead, and then who will know? And what did it get you? On the other hand, to live with the knowledge that you behaved shamefully is another kind of death--the death of the human need to regard ourselves with favor. "The Grey Zone" refers to a world where everyone is covered with the gray ash of the dead, and it has been like that for so long they do not even notice anymore.

Many Holocaust films present the ethical dilemna of trying to stay alive at the cost of allowing others to die or even sending others to their death. A few films might focus on the dreaded Kapos in the camps -- or on the elitist Jewish Council members who helped organize the transport groups -- or on the musicians/performers who entertained the Nazis -- all of whom hoped that they would be allowed to survived. But this film focuses on the Sonderkommandos -- the special workers -- who ushered Jewish victims to the gas chambers and burned the bodies. They too hoped to survive. But they must have known that they were going to be murdered eventually, if only because they had become the most dangerous witnesses to the cold Nazi horror. And the film begins by informing us that these groups of Sonderkommandos were never allowed to live longer than four months…
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L'episodio più importante (e forse più conosciuto) di resistenza dei sonderkommando avvenne il 7 ottobre 1944 quando i membri delsonderkommando di Auschwitz – nell'imminenza di una preventivata fine dovuta all'esaurirsi della deportazione degli ebrei ungheresi – si ribellarono alle SS uccidendone tre e facendo saltare un forno crematorio (Krematorium IV) con dell'esplosivo ottenuto grazie alla collaborazione di alcune donne "civili" polacche impiegate presso le fabbriche di munizioni dei dintorni.
La rivolta si risolse in un bagno di sangue, i deportati ribelli vennero sterminati e le SS intrapresero una serie di ricerche su coloro che avevano collaborato a procurare l'esplosivo e aiutato a farlo pervenire all'interno del campo. Il risultato di tali ricerche fu l'impiccagione di quattro donne polacche il 6 gennaio 1945: Ròza Robota, Ella Garner, Estera Wajcblum e Regina Safirsztajn.


The Big White - Mark Mylod

tanti bravi attori sprecati, in un film che ricorda "Fargo", ma quello dei Coen vince 10 a 1.
un po' deludente, diciamo così, e forse il confronto gli fa più male di quanto dovrebbe - Ismaele


L'amore e la malinconia sono i sentimenti attorno a cui ruota questa commedia dai toni macabri ambientata in Alaska. Ben diretto da Mark Mylod, The Big White rimanda la memoria a “Fargo”dei fratelli Coen ma il tema dell'uomo inizialmente disposto a tutto per procurasi il denaro, che si evolve nel maritino perfetto che fa tutto ciò per amore della moglie, finisce per ammantare tutta la storia di un sentimentalismo un po' fine a sé stesso, ampliato da un'interpretazione non del tutto convincente di Robin Williams.
Una menzione particolare va invece a Holly Hunter, che quasi da sola riesce a tenere alto il ritmo del film, e alla suggestiva colonna sonora, in grado di evocare per note l'immensa distesa di candida neve destinata a tingersi di un color rosso sangue.

… Ognuno è formidabile protagonista di uno show personale che non si amalgama con quello degli altri e l’unitarietà della vicenda si frammenta in tanti siparietti.
Con una trama del genere (i maldestri tentativi per incassare una assicurazione approfittando di un cadavere trovato per caso) il film dovrebbe almeno risultare leggero e far passare un paio d’ore spensierate: tutt’altro.
Da sottolineare che The Big White procede lentamente e con una certa pesantezza dando l’impressione di essere più lungo di quanto effettivamente sia.

lunedì 23 luglio 2012

Lo sguardo di Ulisse - Theodoros Angelopoulos


premiato insieme ad “Underground” a Cannes, è un viaggio verso Sarajevo, risalendo un fiume, quasi come il fiume di "Cuore di tenebra" (e di "Apocalypse Now").

Gian Maria Volontè ha interpretato il direttore della Cineteca di Sarajevo, ma alla sua morte, durante la lavorazione del film, è stato sostituito da Erland Josephson.
È un film conosciuto molto meno di quanto meriti, è pieno di scene memorabili, insomma un capolavoro - Ismaele





Questo film è un capolavoro poetico e letterario, ma non del tutto riconosciuto dalla critica e dal pubblico. Uscito nel 1995 a ridosso della spaventosa guerra nei Balcani "Lo sguardo di Ulisse" ha suscitato commozione e riconoscimenti critici importanti ma inspiegabilmente ristretti.
La pellicola si cala nelle profondità più sensibili della memoria, in quella parte dell'inconscio che racchiude sentimenti significativi della storia, antichi investimenti che imprigionano il linguaggio di un tempo.
Zone d'ombra che accompagnano con crudele fedeltà l'intercalare della vita e sono una perenne testimonianza di amori e odi velati dal pietoso potere del tempo.
E' il ritorno del ricordo, inaspettato e straniante. Qualcosa che racchiude una passione divenuta misteriosa e che proprio perciò viene reinterpretata, quasi nostro malgrado, per la necessità di dargli un senso nuovo, nel mentre ci si allontana da lei per fuggire al dolore che provoca...

In che misura la sua vicenda personale entra nei personaggi del film?
Flaubert diceva: Madame Bovary sono io. In tutto i personaggi che raccontiamo ci sono parti di noi, non solo nel protagonista. Come ho già detto, in questo film c’è molto della mia vicenda personale: ho voluto riportare in immagini episodi che mi erano veramente capitati. Il tassista che accompagna A. al confine con l’Albania è sfiduciato circa le sorti del suo paese: "La Grecia sta morendo", afferma. Ho incontrato un tassista che mi ha detto la stessa cosa e mi sono trovato d’accordo con lui: la Grecia non è più la stessa, non ci sono più valori, nè alcun desiderio di collaborare per la crescita del paese.
Il film inizia con le immagini d’epoca di un film dei fratelli Manakias. Una voce fuori campo ci parla dell’innocenza del primo sguardo. Eppure in tutto il film non vi è un solo primo piano: un film sullo sguardo in cui non si vedono mai gli occhi.
Bergman diceva che non c’è nulla di più bello della geografia di un volto per raccontare l’uomo, ma io credo invece che l’uomo inteso come anima debba essere rappresentato attraverso i suoi movimenti. Nei miei film ci sono pochissimi primi piani e incontro grandi difficoltà a realizzarli; i piani sequenza, per complicati e articolati che siano, mi riescono più facilmente…
da qui

What's left after ``Ulysses' Gaze'' is the impression of a film made by a director so impressed with the gravity and importance of his theme that he wants to weed out any moviegoers seeking interest, grace, humor or involvement. One cannot easily imagine anyone else speaking up at a dinner table where he presides.
It is an old fact about the cinema--known perhaps even to those pioneers who made the ancient footage ``A'' is seeking--that a film does not exist unless there is an audience between the projector and the screen. A director, having chosen to work in a mass medium, has a certain duty to that audience. I do not ask that he make it laugh or cry, or even that he entertain it, but he must at least not insult its good will by giving it so little to repay its patience. What arrogance and self-importance this film reveals.

Elogio degli attori


Miki Manojlovic, Ricardo Darín, Vincent Lindon, Koen De Bouw


quando vedo che fra gli attori c'è uno di questi, so già che il film sarà come minimo bello, quasi sempre anche di più:)

domenica 22 luglio 2012

Frontier Blues - Babak Jalali

un film che "fotografa" un mondo infelice, senza sorrisi, da dove si può solo fuggire.
storie che si alternano, appare in una tv un pezzo de "La Ballata di Stroszek", citazione/omaggio a Herzog.
un tuffo in un altro mondo, magari più vicino di quanto si pensi, un film che merita - Ismaele


…A Gorgan – città di nascita del regista – capitale della provincia di Golestan (nel nord dell’Iran e a poche centinaia di chilometri da Teheran), una regione dai molti contrasti che presenta pianure aride ma si affaccia sul Mar Caspio, il tempo pare sospeso: Hassan vive con lo zio, proprietario di un negozio di vestiti dai pochi clienti e dall’ancor meno merce da esporre, dopo che la madre lo ha abbandonato per cercare il marito emigrato. Trascorre le sue giornate con un asino suonando a ripetizione con un registratore Tous les garçonset les filles di Françoise Hardy. Il giovane Alam, proveniente dal vicino Turkmenistan, tenta di imparare l’inglese  convinto che sia la lingua che tutti parlano a Baku, in Azerbaigian, dove medita di scappare con Ana, la donna che ama. Infine, un castastorie di mezza età, ossessionato dal rapimento di sua moglie, avvenuto trent’anni prima, ad opera di un pastore con una Mercedes verde, diventa protagonista di un libro di fotografie…

La zona dell’Iran del Nord al confine con il Turkmenistan è stata a lungo trascurata dal cinema iraniano.
Si tratta di un’area molto diversificata, con aride pianure, montagne e il Mar Caspio. La popolazione locale si compone di persiani, kazaki e turkmeni.
E’ anche dove sono nato.
Ho sempre trovato che abbia mantenuto la sua specificità. E’ abbastanza diverso rispetto a qualsiasi altro luogo in Iran. E’ sempre stato che le persone si sentissero dimenticate e tagliate fuori dal resto del Paese.
Trovo che sia ancora cosi adesso. Stando lì, pensi che le opportunità siano tantissime. Per la sua posizione di confine e la vicinanza al mare, è stato visto come un potenziale passaggio per l’Europa a Ovest e il resto dell’Asia, a Est.
Ma non è mai stato cosi.
Con Frontier Blues, voglio mostrare questa atmosfera cosi unica e diversa.
Il film mostra frammenti di vita quotidiana delle persone che abitano in questa regione.
I personaggi del mio film sono persone che si trovano in situazioni un po’ assurde. Sia che si tratti del menestrello che è circondato da quattro giovani ragazzi che lo ammirano molto. O Kazem che possiede un negozio di abbigliamento, ma, purtroppo, sembra impossibile trovare un capo di abbigliamento che vada bene ai suoi clienti. Oppure Alam, che è innamorato di una ragazza alla quale non ha mai parlato e lavora in un allevamento di polli dove non c’è davvero molto da fare. O Hassan la cui unica compagnia sono il suo asino e il suo mangianastri.
È stato scritto sulla base di quello che ho visto, quello che ho sentito e ho fatto.
È la frontiera iraniana del Nord.
E’ la storia di desideri, attese, ricordi di uomini disperati e donne assenti.
Il film riguarda l’impossibilità di trovare una soluzione. Ovunque essa sia…
(Babak Jalali)

…First we encounter Hassan, an avid collector of registration plates from old and abandoned cars. He is awkward, unsociable and always accompanied by his donkey. His mother and father both left him at a young age, sending him to live with his uncle Kazem, the owner of a local clothes shop. Thin on wares, he makes do with very little, bartering for the odd fashionable item to add to his modest stock - which is often oversized and ill-fitting for his infrequent customers.
Alam's story is one of desire: to learn English, to marry the daughter of a local Persian family and to leave the steppe for Baku in Azerbaijan. He is an idealist in his hopes and dreams to break free and follow his ambition.
The third is the Minstrel and his entourage. Accompanied by four boys he is driven around the rural areas by a photographer from Tehran who is doing a study of the Turkmen people. During one shoot, the Minstrel recounts his story of lost love. One day a young shepherd with a green car stole his love and drove away, never to be seen again. Some say that they are lost forever in the steppe. Although a romantic, the Minstrel is ultimately a realist and proclaims the impossibility of getting lost in the steppes: "You tell me who gets lost in these steppes for 30 years, in these steppes with that car?"
Jalali has a keen eye for long and still shots of the barren north Iranian landscape and other everyday scenes. We are shown the steppe, the coastline punctuated by old ruins, long and dusty roads, and colourful, ramshackle buildings which all inspire a sense of stillness, creating a beautiful, and at times humorous, portrait of the Turkmen people and Golestan.
da qui

sabato 21 luglio 2012

De indringer - Frank van Mechelen

protagonista è Koen De Bouw, commissario in "The Memory of a Killer".
anche qui è bravissimo, in una storia che non molla un attimo, bambine scomparse, una comunità semimafiosa,  lui è l'intruso del titolo.
sarà una bellissima sorpresa, un film da leccarsi i baffi, da non perdere, promesso - Ismaele



A sus 40 años, Tom Vansant es médico de urgencias en un hospital de Bruselas. Él es divorciado y vive con Louise, su hija de 14 años. Su mundo se derrumba cuando Louise desaparece. Dieciocho meses más tarde, encontramos a Tom buscando desesperadamente rastros de su hija. Una noche encuentra, en un bar, a Charlotte, que, al parecer, se había escapado de su casa en momentos en que su hija desapareció. Tom cree que Charlotte sabe lo que le pasó a su hija. Pero Charlotte no quiere hablar de su pasado. En su búsqueda por averiguar por qué no quiere hacerlo, termina en un pequeño pueblo de Ardennes, donde se encuentra con un entorno hostil y nadie quiere ayudar a descubrir los acontecimientos ocurridos. Sin embargo, Tom va realizando descubrimientos sorprendentes que, uno tras otro, le ayudan a revelar el misterio. 

I've seen this movie in World Avant Premiere two days ago and it was great!! What else did you expect, with some of the best Belgian actors in it?! The story is built up slowly, but going on you will do some surprising discoveries - nothing is what it seems. In a little village in the Ardennen there are 4 clans/families and they don't like 'intruders' (='indringers') and when Tom (Koen De Bouw) arrives to find out where his daughter is, they're all watching him - the eyes are everywhere. What happened to his daughter? What does Charlotte know about her? How did they meet? All urgent questions that will find an answer eventually, after a hunt in the woods.

The Intruder is a strong Belgian drama. It has an air of mystery, a search for a missing girl – and the case opens up corruption and deceit, cover-up in a small Belgian community in the countryside.

The central character is a doctor who is devoted to his fourteen-year-old daughter whom he is bringing up by himself. She disappears and his world falls apart. Skilful at the hospital, he begins to make mistakes, act violently and spend his time, after being dismissed, searching the railway stations and other centres for his daughter.

The plot is complicated when he meets a young girl at the railway station who reacts to the photo of his daughter. He takes her home and wants her help – but is then arrested for taking home a minor. However, he has a friend in the police force who supports him. When he follows the girl to the village, with the friend of an old pensioner in a caravan, and the love of a teacher with whom he has a relationship, he begins to probe the deceits in the town, behaviour of parents, disappearances of children, sexual abuse – and official cover-up. During the hunting season, the doctor’s life is threatened by the local authorities and he uncovers a conspiracy.

The film is continually interesting, taking the audience into an enclosed community and exploring the universal values and fears and violence when such community turns in on itself…

venerdì 20 luglio 2012

Skupljaci perja (Ho incontrato anche zingari felici) - Aleksandar Petrovic

interpretato da Bekim Fehmiu, che un anno dopo sarà Ulisse nel bellissimo film per la tv, diretto dal grande Franco Rossi, e da Olivera Katarina, una bravissima cantante.
"Ho incontrato anche zingari felici" è un film estremo, per i nostri giorni, esagerato, e però ha un grande fascino, come hanno deciso a Cannes, dandogli il Premio speciale della giuria nel 1967.
un gran film, provare per credere - Ismaele



I saw this film when I was in college in the 1970s. It has vanished completely since then. I think it inspired me to become an "underground filmmaker." I like the style, the scenery, the story, the humor, the depiction of life behind the Iron Curtain--particularly for the Gypsies. I still remember the scene where the one character is throwing feathers off the back of a truck, and the fight scene underneath the feathers. And the "wedding" scene where the "monk" says "Any fish in that river, Tisa?" And where the heroine runs away to the big city and attempts to live by singing on the street. (Is this where she is hitchhiking and gets seduced by a puppet-wielding truck-driver?) Also the use of non-actors--local people--in the film. I don't know if the world presented in this movie is realistic or romanticised, but it was a very good film and it deserves to be seen again today.

…It's a film that takes the viewer who is not a gypsy into a foreign world that is ugly, dangerous, and ignorant, but also shows there's a real community among the gypsies and it's a traditional world where they do not easily let outsiders in. Therefore the value of the film is mostly because it shows us an alien culture rarely seen, keeps things authentic and spicy (even if not nice), and flashes on occasion a wicked black humor. It should be noted the production values are not good and neither is the stiff acting, but that didn't stop me from enjoying such an odd spectacle.
da qui


Rendez-vous à Bray - André Delvaux

film misterioso, due amici, uno,  Eschenbach  (Morte a Venezia?)  riceve un telegramma dall'altro e va a trovarlo, ma a casa non lo trova, e lo aspetta, fra ricordi e la "compagnia" di una donna, fino al giorno dopo. 
immagini che spesso sembrano quadri, non adatto a chi piacciono i film tutti velocità e azione.
per chi ha pazienza merita - Ismaele





Nel 1917 il pianista lussemburghese Julien, bloccato a Parigi dalla guerra, è invitato con un telegramma dall'amico Jacques, aviatore al fronte in permesso, nella sua villa a Bray, dove è accolto da una giovane silenziosa. Jacques non c'è. L'enigmatica donna gli dice di raggiungerla nella sua camera. Il mattino dopo va alla stazione, ma lascia partire il treno senza salirvi. Nel frattempo ha rievocato Jacques e la sua amica Odile. Nel 4° film di Delvaux i silenzi pesano più delle parole. Conta l'atmosfera ambigua, impregnata di sogno e di erotismo. Nella cornice drammatica della guerra affiora l'identità di Julien e la sua "neutralità" che gli preclude un vero contatto con la vita e con il prossimo. È giovane e bello, intelligente e colto, neutrale e vile. Sceneggiato da Delvaux da un romanzo di Julien Gracq. Fotografia: G. Cloquet. Musiche: Brahms, Frank, Devresse.

Delvaux was one of those directors who kept on working in his own creative world, seemingly oblivious to the pressures of the commercial world. He got his start by playing the piano for screenings of silent films in Brussels in 1950, just as the hero does here. Then he did TV documentaries before making his first feature, The Man Who Had his Hair Cut Short. Like Un Soir, Un train that preceded it, Rendez-vous a Bray is very lovely to look at (cinematography by the great Ghislain Cloquet) but it unfolds in a sort of glacial calm that leaves me cold…

An appealing foray into ambiguity that uses ellipsis as a kind of erotic invitation, Rendezvous at Bray largely wins one over because its more modest ambitions are so gracefully realized. Derived from a short story by Julien Gracq -– a writer whose rather specialized terrain seems midway between the Gothic novel and Surrealism -– its boundaries are clearly marked by its cozy range of cultural references and its attractive period atmosphere, both of which allow for fireside reveries more nourishing to the imagination than to any prolonged analysis. This is not to say that the plot isn’t well worked out on its own terms: the story can be read without difficulty as a conventional moral tale both in and between its explanatory absences, with its hero’s professional “purity” and aloofness from commitments steadily undermined, or at least questioned, by the allure of the accoutrements of Jacques’ world –- Anna Karina, Bulle Ogier, and the comfortable furnishings of La Fougeraie implying, no less than the professional and military involvements, a stronger foothold in the world outside…

Le réalisme magique, initié par la littérature sud-américaine (Jorge Luis Borges, Gabriel Garcia Marquez entre autres) et qui connut une importante descendance belge, tant dans la peinture (Aubin Pasque, Paul Delvaux, René Magritte), la littérature (Johan Daisne, Xavier Hanotte) que le cinéma (André Delvaux, donc) ne répond pas à une définition stricte de genre en soi. Mais son simple nom dessine assez bien ses contours : l’irruption du fantastique et de l’étrange dans la réalité, ou encore ce que Gérard de Nerval définissait comme "l’épanchement du songe dans la vie réelle" (Aurélia). Quelle meilleure interprétation de Rendez-vous à Bray, dont la narration cotonneuse balance constamment entre rêve et réalité. Qui est cette femme étrange, presque spectrale, qui accueille le héros à La Fougeraie ? Une servante ? Une amante ? Julien, comme assommé par l’imposante demeure familiale (il est souvent surpris en train de dormir ou de rêvasser), partagé entre quotidien et souvenirs, fait-il encore la part entre songe, fantasmes et réel ? Liberté est laissée au spectateur : Delvaux lui ouvre les yeux dès le premier plan (avec une ouverture à l’iris) pour ensuite mieux le laisser vagabonder au fil des rêves de Julien. Le montage, souvent virtuose dans ses raccords, est ainsi une invitation à la déambulation mélancolique, mélange de nostalgie et de songes entremêlés…