sabato 7 luglio 2012

Vinyan – Fabrice Du Welz

un viaggio senza pause, nel profondo della foresta, e non solo, senza sconti.
fa un film ogni quattro anni, Du Welz è un regista altro, puoi vedere tutto da fuori o provare ad entrare, e non è la stessa cosa.
provaci, è un'avventura diversa - Ismaele


straordinario come un'opera così asciutta e senza fronzoli abbia tanto da dire e lo dica evitando di fare ricorso a tutto quel che di "superfluo" si può vedere al cinema, partendo da una situazione base abbastanza comune in un certo tipo di pellicole e arrivando a una conclusione fieramente fuori da ogni schema o aspettativa…


 Quel che serve, per far decollare il film, il regista lo trova proprio allontanando sempre più la coppia dalle ultime vestigia della società, separandoli dai cascami dell'Occidente e immergendoli in una natura indifferente, lussureggiante e in grado di ospitare ben altro che una risibile e ovvia banda di rapitori di bambini.
Una volta innestato il turbo, Vinyan prosegue nel suo viaggio allucinante, fra lanterne nella notte, antichi edifici in rovina nella giungla e un mare di pioggia pressoché continua.
Il tutto alternato a flashback, deliri e sogni, in un progressivo frammentarsi della visione che accompagna la discesa in un Averno verde e misticheggiante che non riserva alcuna salvezza all'uomo occidentale.
La vicenda perde giustamente coesione man mano che aumenta il minutaggio e i personaggi paiono aggirarsi un limbo emotivo, distaccati da qualsiasi evento e con ben poco altro da fare se non inoltrarsi sempre di più nel cuore di una terra che non è la loro, che non li vuole e che farà tutto il necessario per annullare la loro presenza.
Chi si aspettava la facilità di lettura di un Calvaire sarà deluso da un prodotto come questo che è destinato, nella mia opinione, a lasciare insoddisfatti gli amanti dell'horror fracassone che si lasciano turbare più facilmente da quattro chili di coratella e una secchiata di vernice rossa piuttosto che dalla micidiale, morbosissima giungla di Benoît Debie.
Con Vinyan Du Welz si conferma autore lontano da ogni possibile compromesso, in possesso di una cifra artistica molto personale e in grado di proporre soluzioni e visioni ben distanti da ogni trend, anche a rischio di parziali fallimenti che non fanno che confermarne ambizioni e mire molto alte.

… La regia di Fabrice Du Welz si conferma forte ed efficace. Tanta camera a mano e tanta attenzione per i corpi e i volti (quasi sempre centrati nel quadro) dei suoi protagonisti, fino a farli divenire un tutt'uno con il paesaggio che li circonda, affinché sia questo il modo migliore di seguire la narrazione - meglio ancora il modo stesso di narrare. E la fotografia di Benoit Debie è assolutamente perfetta in tal senso, capace di catturare oniriche atmosfere notturne, in maniera del tutto naturale, e di trasformare i paesaggi in ambienti spettrali vivi che avvolgono in una misteriosa nebbia e che sprofondano in un fango angosciante e mortifero…


…Du Welz gira in stato di grazia permanente, come se ogni scenario naturale e umano fosse insieme un'apparizione e una conferma, una rivelazione e un ritrovamento. Inutile e fuorviante tirare in ballo modelli di riferimento e ispirazioni stilistiche (curiosa coincidenza: Herzog, uno degli autori amati da Du Welz, ha lasciato la Thailandia proprio all'inizio del tournage di Vinyan, dopo aver terminato le riprese di Rescue Dawn): più e meglio che in Calvaire, con una compostezza che mette i brividi, il cineasta belga fa del linguaggio filmico il luogo dello stupore impassibile, assegnando alle soggettive il compito di dischiudere l'inquieta fermezza della natura. Una pellicola lacerata tra la greve terra maschile (non a caso Thaksin Gao verrà sepolto vivo) e la rigenerante acqua femminile (si presti attenzione al finale di gocciolante solarità), ma orgogliosamente ritto sulle proprie gambe, quelle di un belga che, come un etnologo insubordinato, filma un horror fertilmente palingenetico.

 Du Weltz conferma il suo limpido disamore per la didascalia: il rapporto tra i due coniugi non è mai spiegato, dominato dal disperato senso di perdita che lo fa deteriorare lentamente; tutto il film si snoda in un continuo divenire che non si appoggia mai ad alcuna segnalazione del soggetto, ma si decreta come immersione graduale in un contesto sempre più astratto e inquietante (il parallelo con Flandres di Dumont si impone a questo punto): è soltanto un'ipotesi quella per la quale la scomparsa del figlio sia stata determinata da una negligenza paterna (vera o supposta dalla madre) e che il finale ferino e paranoide sancisca l'espiazione dell'uomo, poiché a rilevare è, più che la definizione significativa degli eventi, il loro inserimento nel quadro generale della messa in scena.
Vinyan offre motivi a palate per entusiasmarci: è denso e pieno di personalità; non è un film riducibile all'esposizione di una storia (al contrario: delega al linguaggio specifico del cinema la sua espressività, se vi par poco); è diretto e girato magnificamente; è, decisamente, l'opera di un talento vero.



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