venerdì 29 aprile 2016

10 Cloverfield Lane - Dan Trachtenberg

non sapevo niente della storia, sapevo che meritava.
come in Room c'è un luogo chiuso, con tre persone dentro.
sapevo che c'era John Goodman, una certezza per i miei gusti, un tipo di peso, che sa scegliere i film in cui recitare.
e anche questa volta è andata bene, anzi benissimo.
esci dal cinema contento, un film davvero coinvolgente.
Howard (John Goodman) e Michelle sono davvero da Oscar, dimenticavo di dire che Michelle è interpretata da Mary Elizabeth Winstead, un'attrice perfetta in quella parte, un carattere deciso, ecco perché Ben si è fatto lasciare.
il film è stato scritto anche da Damien Chazelle (Whiplash), prodotto anche da Drew Goddard (regista di Quella casa nel bosco) e diretto da un regista al primo lungometraggio, è un film da non perdere, da vedere al cinema, poi mi direte - Ismaele

ps: a un certo punto Michelle dice una parola che sembra poco adatta (a me), ma poi ci sta, è Michelle contro il resto del mondo, mica una qualunque; un aiuto: la parola è un verbo.






Correva l'anno 2008 quando J.J. Abrams, con la complicità di Matt Reeves alla regia, architettava un'operazione destinata a mutare, almeno in parte, le coordinate dei disaster movies. Torna ora, con un diverso regista, a richiamare, con un accenno nel titolo, quel piccolo ma importante film. Ci si muove però sul terreno del thriller psicologico del quale Trachtenberg conosce bene tutti gli elementi strutturali. 
Perché funzionino e non diano origine a un B-movie è però necessario avere un cast all'altezza. In questa occasione la scelta è stata più che oculata perché a una Mary Elizabeth Winstead (femminile e determinata al punto giusto) viene contrapposto un John Goodman al suo meglio. Goodman è un attore che, nel corso della sua lunga carriera, ha saputo mostrarsi in grado di interpretare sia ruoli di omone benevole e friendly così come quelli di persona di cui temere le reazioni. Qui alterna i due volti con una duttilità che finisce con il costituire il fulcro della narrazione…

…È un bel gioco psicologico il film di Dan Tratchenberg, che al suo primo lungometraggio (sinora aveva realizzato solo corti) firma un’opera che mette alla prova le nostre aspettative in maniera intelligente e coinvolgente: la tensione, anzitutto psicologica, fa leva sul senso claustrofobico dell’ambientazione e sul mistero di ciò che si trova all’esterno. Di cosa si deve avere paura: del (presunto) orrore che ci aspetta fuori o di chi ci è seduto accanto? L’interrogativo rimbalza in testa sin dall’inizio, incarnato com’è nel personaggio che Goodman interpreta con la solita classe e la giusta dose di inquietante ambivalenza. Più ci si avvicina alla verità di questa realtà controversa, più il distacco dai registri del primo Cloverfield aumenta. Sono semplici i meccanismi che mantengono costante la suspense e il quadro ha una cornice squisitamente minimal, ma il bello è che giallo è così avvincente da farci smettere di cercare il riferimento al film di Reeves. Di cui, anzi, ci si dimentica presto. E infatti, quando il collegamento finalmente si manifesta, coglie un po’ di sorpresa: da una parte, l’aggancio sembra figlio di un cambio di programma in corsa, per un film che forse in origine voleva essere altro e che all’ultimo ha virato verso la continuità di un universo ben preciso…

…De lo que hay que estar muy orgulloso del filme, y por lo que merece la pena el visionado, es por las magníficas actuaciones de los dos protagonistas.
John Goodman hace una interpretación impecable del personaje Howard. Podríamos decir que Goodman realiza el papel de un “villano”, y lo borda. Es profundo, intrigante y ha sabido dar al espectador ganas de descubrir su gran trasfondo. Perfectamente podría haber sido un personaje plano, pero Goodman no lo ha permitido, sino que lo ha sabido colocar como la guinda del pastel.
A su vez, Mary Elizabeth Winstead interpreta a Michelle con garra y fuerza. Es la encargada principal de transmitir todo sentimiento al espectador, el nexo que nos une al relato, los ojos que ven lo que ocurre ante tal situación, siendo una perfecta comunicadora, punto fuerte también para la cinta. Su escena final es de las que cobran más fuerza y dan sentido a 10 Cloverfield Lane…

Calle Cloverfield 10, a pesar de ser un relato que se desarrolla, en su mayor parte, en interiores (el escenario del búnker está muy bien aprovechado) y con tan pocos personajes, logra la hazaña de ser altamente entretenida y carente de tiempos muertos innecesarios con los que engordar el metraje, evitando la incómoda sensación de estar ante un episodio alargado de The Twilight Zone. No hay lugar para el aburrimiento en medio de tanta teoría conspiratoria y, al igual que hiciera M. Night Shyamalan en Señales(2002) o (de nuevo) Spielberg en uno de los pasajes más aterradores de La guerra de los mundos (2005) —Tom Cruise y Dakota Fanning a merced de un Tim Robbins alucinado en aquel sótano—, Trachtenberg construye un ambiente de inquietud en ese acotado espacio mucho más difícil de sobrellevar que cualquier peligro que amenace en la superficie. Amenaza que no será desvelada hasta un explosivo tramo final en el que el filme muta en algo completamente diferente a lo expuesto hasta ese momento, cambiando de género de forma radical y sacando la faceta de action woman de Winstead que ya habíamos disfrutado en el remake de La cosa (Matthijs van Heijningen jr., 2011). Finalmente, no estamos ante una secuela al uso de Monstruoso—algo de lo que estábamos avisados desde que Abrams confirmase que se trataba de una “pariente de sangre” o “heredera espiritual” de aquella—, si bien es cierto que tampoco traiciona su condición de obra expansiva del universo iniciado ocho años atrás, abandonando las restricciones propias del subgénero de metraje encontrado para desvelar algunos misterios y, principalmente, dejar las puertas abiertas a futuras alternativas que, a buen seguro, sabrán cómo volver a engañarnos de nuevo. Da gusto asistir a una ópera prima tan excelentemente dirigida como esta, una pequeña sorpresa que supone un soplo de aire fresco en el thriller como lo fue, en la pasada temporada, La visita (M. Night Shyamalan, 2015).

mercoledì 27 aprile 2016

Echoes of BIET HANOON - Wael Al-Sousi

Les Souvenirs - Jean-Paul Rouve

un film francese che più francese non si può.
una storia piccola, un ragazzo che dei genitori un po' così, lui sta bene con la nonna, spontanea e sincera.
invecchia, come capita a tutti, sta in un ospizio, conosce gente, ma fugge.
il resto lo vedrà chi va a vederlo.
alcune scene sono divertenti, ultima le parole che dice la ragazza di Romain, arrivata con molto ritardo a un appuntamento, ma quelle parole le ascolterà solo chi vede il film.
imperdibile la direttrice dell'ospizio (che ormai ha nomi diversi, anche da noi, ma è lo stesso), gestisce la struttura come se fosse un supermercato.
non è un capolavoro, ma si vede con piacere - Ismaele





Les souvenirs procede con calma, senza strappi, fino ad ingranare pienamente, attraversato da piccoli simpatici personaggi come solo il cinema francese sa partorire: il padrone dell’hotel che assume il protagonista perché gli ricorda il figlio, il pittore di animali “irriconoscibili”, il benzinaio che regala consigli di vita. Figure fuggevoli che sanno farsi ricordare, anch’essi come piccoli souvenir che il film consegna dal grande schermo al pubblico.
Insomma, un film leggerissimo e leggiadro, una fiaba ai tempi di oggi, anche grazie ad una ammaliante colonna sonora “neo-melodica” francese, di quelle che cullano proprio come uno storico disco di Carla Bruni. “Quelqu’un m’a dit” cantava. “Qualcuno mi ha detto” cantava. Ecco Les souvenirs è un minuscolo film che vive del “mi hanno detto che…”, del passaparola, e grazie a questo saprà farsi ricordare…

Forse in Les souvenirs manca l’intensità struggente che caratterizzava le migliori opere di Lioret come Welcome e Tutti i nostri desideri, eppure Jean-Paul Rouve sembra ricercare quel tipo di cinema medio, molto borghese in effetti, capace di raccontare con la stessa semplicità l’innamoramento adolescenziale come la perdita di una persona cara, e le generazioni di nonni e nipoti che si incontrano negli spazi della Normandia per un ultimo, affettuoso, abbraccio. Finché lavora sul fuori campo o sulle mezze tinte del quotidiano Rouve riesce a dirci qualcosa di noi e a trovare una propria sfumatura emotiva, con dettagli che restano in mente e trovate comiche sorprendenti – il cassiere/filosofo all’autogrill è una grande idea. In altri frangenti invece il regista francese, qui anche cosceneggiatore, calca la mano, ricercando una costruzione narrativa – il doppio funerale che apre e chiude il film – e una drammaticità vagamente ricattatorie. Si tratta però di appunti viziati probabilmente da una nostra fascinazione sofisticata nei confronti di un tipo di cinema a cui questo film non interessa guardare. E non dobbiamo vergognarci di sorridere o piangere perché Les souvenirs, tratto dal romanzo omonimo di David Foenkinos, non è un film nocivo, ha un cuore e una capacità di raccontare le emozioni delle persone comuni che farebbe invidia a molte cinematografie europee – e non ci riferiamo soltanto all’Italia in questo caso, ma anche ai sempre troppo sopravvalutati danesi. Que reste-t-il de nos amours?

…La prima linea poggia interamente sulle spalle del giovane protagonista: il suo smarrimento senza false depressioni, il desiderio di innamorarsi senza facili corteggiamenti, le ambizioni letterarie senza reali convinzioni. La parte nostalgica si delinea invece tutta per contrasto coi personaggi più anziani, tenendo ben salda la regola che la sensibilità salta una generazione e che nonni e nipoti devono coalizzarsi contro gli aridi padri (comunque capaci di redimersi).
Attori bravi, perfetto equilibrio fra dramma e commedia e musiche assai familiari (una cover della classica Que reste-t-il de nos amours? di Charles Trenet, già tema portante di Baci rubati di Truffaut) lo tengono saldamente dentro la fascia media d’appartenenza. Senza strizzare troppo l’occhio alla Nouvelle Vague, al mumblecore o al sentimentalismo ricattatorio, Les souvenirs infatti sceglie la leggerezza come unico registro. Anche a livello di racconto, dove le varie sequenze sembrano succedersi legate da un filo leggero, senza lasciare eccessiva traccia nelle scene successive. Come in un sogno di cui si conservano solo sensazioni impalpabili non appena risvegliati.

La simplicité apparente de l’écriture est l’une des prouesses du film tant la ligne, si fluide, ne cesse de se complexifier. Jean-Paul Rouve et David Foenkinos trouvent le bon équilibre afin de diluer les informations qu’ils nous offrent en tissant un récit qui devient la poésie de l’ordinaire. Ils nous rendent complices des protagonistes tout en nous offrant une place de spectateurs tantôt amusés, tantôt attendris. Romain qui est au centre de l’intrigue devient le lien entre plusieurs pistes narratives qui se répondent à l’instar du désarrois de son père qui part à la retraite ou de son colocataire un peu gauche – véritable soupape de respiration.
La justesse d’interprétation est indéniablement l’autre atout du film. La connivence entre les différents protagonistes est une gageure à laquelle Jean-Paul Rouve répond avec adresse. Plusieurs registres de jeu semblent toutefois coexister pour notre plus grand bonheur. Ainsi à l’émotion palpable – et plurielle – lors de l’arrivée à la maison de retraite répond une énergie explosive d’autant plus déroutante que légèrement artificielle qui est véhiculée par le personnage (secondaire) de la directrice de l’établissement – merveilleuse Audrey Lamy. Un ton décalé qui répond de la logique du trait quelque fois grossier de l’écriture permettant de souligner la finesse des situations ou des sentiments mis en scène.
L’ensemble est gentiment artifiel et quelque peu enrobé. Toutefois la réalisation, dépourvue de prétention, nous trouble malgré ses maladresses.

martedì 26 aprile 2016

Mandariinid (Tangerines) – Zaza Urushadze

durante una guerra piccola, dimenticata, non meno bastarda e assassina di quelle grandi, Ivo, buon samaritano (georgiano-estone), soccorre due feriti, che ospita nella sua casa.
i due, stesso identico umore, ma la divisa di un altro colore, si odiano, all'inizio.
si respirano le stesse atmosfere di Corn island, un altro gran film georgiano.
Mandariinid è stato candidato come miglior film in lingua straniera nella cinquina dell'Oscar nel 2015.
cercatelo, non vi deluderà - Ismaele




….È così che un film fatto di niente riesce a diventare forte, ad esprimere la potenza nascosta dei sentimenti che in certe circostanze sembrano inopportuni, persino pericolosi, e, in ogni caso, controproducenti. Tangerines è un soffio che si sforza di farsi strada in un silenzio troppo spesso violato dal fragore: un alito impercettibile che, in questo suo inutile affanno, conquista la sua sommessa ed innocente nobiltà.

 Zaza Urushadze, regista e sceneggiatore del film, autore georgiano con già al suo attivo tre precedenti lungometraggi, dirige quest'intenso dramma pacifista dal budget risicato - 650.000 mila Euro - ma ricco di umanità nel ritrarre i personaggi, loro malgrado coinvolti nel feroce scontro fratricida, che riescono ad instaurare un rapporto che va oltre la loro appartenenza e 'diversità', che purtroppo, dopo qualche sequenza segnata dalla speranza, culminerà nella cieca violenza di un'altra sparatoria, che lascerà altri morti sul terreno.
Immerso nella solenne musica di Niaz Diasamidze, 'Mandariinid' è un piccolo grande film che coglie il segno, evitando toni predicatori, riuscendo, nonostante le brutture che mostra, nell'intento di infondere un messaggio positivo e toccante.


Humanity is the theme of this Oscar nominated drama in which an old Estonian man opens his home and heart to two rival 'children of death'- a Chechen mercenary and a Georgian soldier. Set in 1992 during the civil war, the action of Zaza Urushadze's film takes place on a tangerine orchard. The gunshots and explosions form the backdrop to the story; it is the relationships that form the action and that are of the utmost importance. It's a beautifully crafted film that depicts the futility of war and the fine line that separates barbaric and humanitarian actions. 
In the opening sequence we meet Ivo (Lembit Ulfsak) as he makes wooden crates in his modest factory in an Estonian village. The crates are for the tangerine crop growing in the orchard nearby by his friend Margus (Elmo NŸganen); they have remained behind to harvest the annual crop. It is telling that the two Chechen mercenaries who drive by ask whether he is creating crates for bombs. Soon the results of the fighting between the Georgian and Chechen forces breaks out, resulting in dead bodies and two survivors: Ahmed (Giorgi Nakashidze), a Chechen mercenary and Nika (Mikhail Meskhi), a Georgian soldier…
Filmada con una templada puesta en escena, sin atisbo de artificios y pirotecnias, al punto de tirar un camión por un barranco y alegar Ivo, tras la sobriedad del suceso y la ausencia de explosión, “el cine es un gran engaño”. Un ejemplo de la sencillez de los trazos a pesar de la tensión narrativa. Un fado lento orquestado con pulso. Es cierto, peca de previsible. Uno sabe de dónde vienen los tiros (nunca mejor dicho), hay puntos de inflexión del guion que vienen coreados por los instantes previos. Escapa de las cotas de lo sublime y sus visos de gran película están en estrecha relación con su lugar de procedencia y su contexto. También es cierto que hay elementos que rozan algo más que la canónica excelencia, como la citada banda sonora o la interpretación de Lembit Ulfsak. Todo suma. Sin duda no era la cinta más fuerte para alzarse con la estatuilla dorada. Pese a ser oro puro para la Academia, (ya saben, un anciano en medio de un conflicto bélico puede desatar más de un llanto) es posible que muchos de sus miembros no la hayan visto. Independientemente de los galardones fue un mérito en sí mismo que, casi contra pronóstico, se colase en la terna final esta declaración pacifista.


Me quedo con una de las escenas del filme, en donde Ivo, Margus y el doctor del pueblo están tirando un camión por la montaña y uno dice:
-“Pensé que explotaría”
-“Estallan en el cine… El cine es una gran mentira.”
¿El cine es una gran mentira? La guerra es una gran mentira y aún seguimos sin entender esta farsa de luchar incansablemente y desangrar a nuestros pueblos por las tierras en donde nacen nuestras frutas.

…Nel film di Urushadze la tensione non tarda a salire, dopo un breve prologo nel quale sembra di assistere alla vita di un uomo che lavora serenamente, in una casa immersa nella natura. La realtà è del tutto differente: le case e la campagna stessa sono alla mercé della follia della guerra. Per non parlare delle vite umane, la cui fragilità somiglia a quella dei mandarini del titolo, che rischiano di marcire sugli alberi. A questo proposito, si potrebbe parafrasare la celebre poesia Soldati di Ungaretti, sostituendo il termine «foglie» con «mandarini»…

…The film Tangerines has an all male cast; it has no sex and no violence. It is not even a war film. Yet, it is a film that would entertain you from start to finish thanks to the intelligent and witty script. It is perhaps best described as a film on a war of hatred among common individuals. It is not surprising that audiences love the film at all the film festivals where it gets shown…

domenica 24 aprile 2016

Exotica – Atom Egoyan

non è quello che ti aspetti, se ti aspetti qualcosa, e questo è già un punto a favore di Exotica.
una sceneggiatura a orologeria, con degli incastri che alla fine si svelano potentemente.
film sull’amore e sul dolore, sulla morte e sulla memoria.
film misterioso, al quale bisogna lasciarsi andare, farsi prendere per mano e restare stupiti.
un piccolo grande film che non ti dimentichi - Ismaele

ps: e come accade in altri film di Atom Egoyan l’ufficio delle dogane all’aeroporto c’entra qualcosa.




…Egoyan, who also wrote the film, surprises us in how slowly he reveals the links and even more slowly reveals what the characters know about them. When the film ends, you sit regarding the screen, putting together what you have just learned and using it to think again about what went before…

Atom Egoyan’s sad, elegant Exotica (1994) is at once intimate and remote, concrete and abstract. It was marketed as an “erotic thriller”, yet it is not very erotic (at least not in the conventional sense), and its thrills are quiet and austere. Highly original, it lures its audience back for repeated viewings, revealing a little bit more of itself each time. Its open-endedness and reluctance to definitively determine the shape of “objective truth” are its most important qualities. The viewer is thus invited to construct out of the raw material of his/her viewing experience their own particular version of the film that is relevant, significant and private to them…

… Egoyan orchestrates the intricate spectacle using a flashback structure that reveals layers of meaning slowly, as the movie progresses. To that end, Exotica employs one of my favourite edits in all of film. About 15 minutes in, we're watching Christine from Eric's point-of-view in the dark environs of Exotica itself, as she sucks, mock-innocently, on the tip of a cocktail straw. The noisy, bass-heavy sound design characterizing the club falls away, replaced by a single, synthesized chord. Suddenly, cut, and we're looking out across a field of golden-green grass as a line of people becomes visible just over the horizon, moving purposefully towards the camera. A simple piano motif begins to play. The effect isn't so dramatic on a TV set, but on a big screen, it's unforgettable; the picture is suddenly so bright you have to squint. And who are those walkers, anyway? I always thought this image had the whiff of the afterlife about it, and it's significant that this is the visual thread that will introduce death to the world of Exotica…

It’s an eloquent film with masterful construction, sharp visuals, and flashes of intriguing symbolism (to wit, the parrots).  My only criticism is that the lead performances, with the exception of Kirshner, feel too mannered.  Koteas especially comes off more like a fictional construction than a relatable human being.  I’m not of the opinion that all actors should be naturalistic at all times (I wouldn’t be a noir fan if I was) but there was an artifice to the three male leads that seemed at odds with the humanistic themes of the film.
It’s not a major impediment, the emotional tones of the movie still get through.  People find healing and comfort and companionship in unlikely places, and emotional support can be exchanged like any other transaction.  A thoughtful piece of work.

…Exotica is an elliptical, but nonetheless, schematic film that some may not find satisfying. I like the atmosphere it creates; the suggestion that we can find what we need, at least for a time; and its linking of sex with death. These potentially dark elements of human experience carry a charge that many filmmakers have explored, but I can think of few who have done so with such sympathy, lack of judgment, and intrigue.

sabato 23 aprile 2016

La Culpa - David Victori

Le confessioni - Roberto Andò

dopo “Viva la libertà”, con Toni Servillo, film che mi è piaciuto molto (qui), Roberto Andò fa un altro film con lo stesso (grande) attore, non so niente, vado a scatola chiusa, sulla fiducia.
all’uscita il giudizio oscilla fra il mah, boh, e la cagata pazzesca.
vince senza troppi dubbi la cagata pazzesca.
andate al cinema, se avete coraggio :) - Ismaele

ps: grazie a Lorenzo Bottini, la cui recensione è una stroncatura perfetta, inarrivabile e meritata



la recensione di Lorenzo Bottini:
Ci sono dei film che riescono nella mirabile impresa di trasformarsi in bignami di tutto ciò che non funziona nel cinema italiano: è un club esclusivo, che accetta solo chi riesce attraverso indicibili fatiche a toccare tutte le idiosincrasie che da anni tempestano i cinema nostrani. A prima vista diventarne membri non sembra impresa ardua, invece quando si arriva ai timbri ne manca sempre qualcuno e tocca rifare la fila.
Così uno su mille ce la fa e Roberto Andò, con le sue Confessioni, riesce dove molti hanno fallito compiendo di fatto un piccolo miracolo. In centro minuti racchiude come in uno scrigno tutti i luoghi comuni su cui nidiate di sceneggiatori si accalcano da decenni rendendolo una specie di “messaggio in bottiglia” per le future generazioni, una capsula spaziale alla “come eravamo” sponsored by Mibact. Quando i posteri la apriranno dentro ci troveranno di tutto, dalla tirata contro il tirannico neoliberismo pronto a distruggere le nostre caste esistenze fino al potere taumaturgico della vita contemplativa, sbandierata come unica speranza per sottrarre il mondo ai sanguinosi piani economici. A quest’Armageddon contabile Salus, il monaco interpretato da Servillo, oppone un renitente silenzio, una forma di difesa che man mano si trasforma in un formidabile strumento d’offesa. Tutti i potenti davanti alla sua taciturna saggezza crollano in ginocchio e rivelano le loro tremebonde malefatte, così, tanto per ricordarci ancora una volta come tutto il cinema d’autore si regga sul senso di colpa.
Gli stessi spettatori sono chiamati a rimettere i loro peccati come il Fus li rimette ai loro debitori, in un esperienza di sala cinematografica che diventa una specie di pellegrinaggio al Divino Amore, già pronti ad inchinarsi all’ennesima metafora urlata come se fosse l’apertura del Mar Rosso. Va vissuto così questo weekend con il morto architettato da Andò, indignandosi il giusto per l’incestuoso rapporto tra politica e finanza ma in realtà senza aver ben chiaro ciò di cui si parla. Lo si fa per sentito dire o per partito preso, come quando si commenta sotto un articolo postato su Facebook senza aver avuto prima l’accortezza di leggerlo. Si è comunque in buona compagnia visto che lo stesso regista siciliano dimostra come il suo interesse verso le congiunture economiche globali si limiti al puntare il dito sul degrado morale, di cui ovviamente il G8 ne è massimo rappresentante...

… la premessa del film era lì ben più forte, con una minaccia di morte iniziale fatta all'indirizzo del prete perché esso assolvesse con la propria uccisione agli abusi compiuti da un parroco qualche anno prima. Piuttosto in Le confessioni tutto si appoggia su un’aleatorietà delle atmosfere, su una pregevole fattura estetica – spesso però si pensa all’ambientazione e al ritmo di Youth - La giovinezza – e sulla bravura di un gruppo di attori, tra i quali si arruolano lo stesso Toni Servillo, Connie Nielsen, Pierfrancesco Favino e Daniel Auteil, che pur non dicendo nulla di così unanimemente comprensibile riescono a dare tensione e ritmo drammatico a ciascuna scena. 
In conclusione, forse Le confessioni ha voluto fare troppo dimenticandosi del pubblico. O forse invece abbiamo ancora bisogno di tempo per capire un film così complesso e simbolico.

La regia di Andò è nitida e squadrata, racconta un mondo inerte persino nell'emergenza, muove le sue pedine in un tempo sospeso che diventa immateriale non perché "variabile dell'anima" ma perché non rivendicabile nemmeno da chi mette a punto gli orologi che segnano il ritmo di vita del resto del mondo. Salus, che si è congedato dall'universo materiale e dalla sua (presunta) codificazione matematica, diventa con la morte di Roché la "lettera d'addio" del capo degli dèi: una lettera da non aprire, impedendo a quel "grido dell'anima" che è ogni confessione il suo sfogo. Da un punto di vista cinematografico, l'immobilismo che Andò racconta rallenta la narrazione luminosa e poetica: chissà se lo spettatore medio saprà sincronizzare il proprio tempo interiore a quello dilatato della storia narrata.
Il cast di Le confessioni asseconda la visione metafisica e stupefatta del suo regista: Toni Servillo è un catalizzatore morale passivo e sibillino, Pierfrancesco Favino un ministro agìto dal suo ruolo e condannato ad essere estraneo a se stesso. Nessuno scambio verbale è spontaneo perché ogni frase è un testamento, ovvero una confessione. Ma per questi dèi condannati a governare il caos non c'è assoluzione, solo la possibilità di compiere una presa d'atto della propria intrinseca manchevolezza.

Se le premesse sono interessanti, gli equilibri del film traballano dalla seconda metà.
E così l’esperimento di ricerca, quasi una sottotrama, tra cinema e letteratura, che gioca con il realismo, con l’intuizione e con il disincanto, si annebbia e non riesce a sprigionare totalmente quel senso di sfida. Il film è retto dalla bravura di Servillo che arricchisce il film di eleganza e profondità.



giovedì 21 aprile 2016

99 homes – Ramin Bahrani

Due grandi attori per un dramma dei nostri giorni, un pezzo di storia economica recente al cinema (come La grande scommessa).
alla sceneggiatura ha collaborato il grande regista Amir Naderi.
Andrew Garfield (Dennis Nash) e Michael Shannon (Rick Carver), e una bravissima attrice, Laura Dern, vittime e carnefici in un gioco terribile.
Andrew veste i panni dell’usuraio-ladrone, ma dopo qualche tempo la coscienza, impossibile sopirla completamente, riemerge.
Michael Shannon è un (povero?) diavolo che cerca collaboratori, compra anime come compra le case.
un bel film, di quelli di una volta, lo capisce anche un bambino (è un complimento!) - Ismaele



…Una storia semplice e potente, insomma, raccontata in maniera altrettanto semplice e potente, attraverso un film drammatico che ha la forza trascinante, il ritmo e la tensione di un thriller.
Ramin Bahrani, sceneggiatore e regista, accusa un sogno americano che funziona alla grande, ma solo se si appoggia sulle disgrazie altrui e mostra un protagonista che, se messo di fronte all'opportunità di conquistarsi facilmente una vita agiata, sposta parecchio in alto la soglia di tolleranza per le disgrazie che fanno la propria fortuna. Il messaggio non viene comunicato in maniera particolarmente sottile, ma 99 Homes funziona forse anche per questo e per il taglio da film di genere, che alimenta una tensione torcibudella grazie alla notevole colonna sonora e al ritmo incalzante…

…Interessante è però l’idea di accompagnare la mala educazione del protagonista a un percorso dickensiano, per cui il povero Nash, oramai passato dalla parte del nemico, si trova poi a sfrattare di casa proprio chi gli aveva mostrato appoggio e solidarietà. Come un novello Oliver Twist, Nash, per imboccare il suo percorso di redenzione, dovrà affrontare l’umiliazione, perché senza di essa non è possibile alcun perdono.
Gli elementi narrativi “classici” vengono poi scelti e posizionati con notevole acume: in questa wilderness post-post-capitalista dove la legge non ha più (e ancora una volta) alcun potere, la resa dei conti non può che essere in perfetto stile western e il povero colono residenziale dovrà difendere la sua “fattoria” con il fucile. Solo che fuori non ci sono i “selvaggi pellerossa”, bensì gli agenti di polizia.
Forse la sua simbologia potrà apparire a tratti troppo semplice o persino didattica, ma 99 Homes con il suo studio sociologico sull’America immobiliare contemporanea, non intende tralasciare nulla, compreso ciò che dovrebbe essere universalmente noto. E non è casuale poi, a ben pensare, nemmeno la location in cui il film si svolge, quella Orlando, Florida in cui ha sede la mitologica Disneyworld, più volte citata nel film quale luogo-non luogo paradisiaco che – come ben ci ricordava il finale di Arizona Junior dei Fratelli Cohen – incarna una promessa di felicità ontologicamente beffarda.

En ella podremos observar a quienes siempre llevan la cabeza alta, miran a los ojos y pueden vivir consigo mismos, y a los que no son capaces de acostumbrarse al dolor ajeno, a ser los portadores de las noticias que destrozan la vida a cientos de personas, gente que no es capaz de hablar a la cara porque el peso de la conciencia les impide levantar la barbilla. Al final, todo se reduce a la primigenia ley de la selva y a la del cazador o la presa. Supervivencia urbanística.

Côté mise en scène, Ramin Bahrani nous embarque dans un drame plutôt poignant. Le traitement de ses différents personnages est très intéressant. Entre un promoteur immobilier plutôt scrupuleux et un homme quasiment au fond du gouffre, les remises en question seront au centre du récit. On y découvrira un engrenage sans fin sur fond de corruption. L’évolution des personnages sera constante ce qui nous maintiendra en haleine jusqu’au dénouement final.
Avec ce nouveau film, Ramin Bahrani nous emmène dans un cercle vicieux avec des personnages forts. Le casting est parfait, le duo  Garfield/Shannon est bluffant. 99 Homes nous mettra à rude épreuve dans un milieu où le plus fort fait sa lo.

Laddove invece il film fa centro è nel realismo del contesto e nell’espressione della sua concretezza: i personaggi di contorno hanno volti e parole apprezzabili e coerenti, che restituiscono dignità al progetto nel suo insieme. Sarebbe facile parlare delle doti di un Michael Shannon mefistofelico e tridimensionale come valore aggiunto, ma la verità è che 99 Homes è un film dignitoso che si piazza poco al di sopra della media, nobilitato principalmente da un’ottima scrittura dei dialoghi meno ricattatori e da tematiche su cui, in fondo, era abbastanza difficile sbagliare. Lo spettacolo offerto non è in sostanza privo di una sua forza, ma lascia l’impressione che Bahrani abbia di nuovo sprecato un’occasione per uscire da paletti molto comuni, imputabili in parte anche alla produzione.

…Bahrani firma un thriller social cuya principal baza es no dejar al espectador sin opinión acerca de los acontecimientos que se suceden a buen ritmo, al adentrarnos en la mafia inmobiliaria y conocer aspectos que seguramente intuíamos, pero no sabíamos confirmar…

…99 Homes continues Bahrani's curious late run as the unaccomplished middlebrow answer to Nicholas Ray. It stays afloat where his last sank, though, largely thanks to some inspired scenery-gorging by the perpetually-vaping Michael Shannon, playing slick Rick Carver, a side-armed real estate broker who makes his bones seizing other Floridians' foreclosed houses and flipping them to the banks that probably shouldn't have given them a loan in the first place. Enter Andrew Garfield as working-class angel and struggling single-dad Dennis, who cedes his keys to the devil in the tan jacket only to go to work for him for a shot at getting his family home back. What are the odds he'll keep his house and, more importantly, his soul?...


Veloce come il vento - Matteo Rovere



uno di quei film che ti dà più di quanto ti aspetti, con una sceneggiatura che evita le trappole e i vicoli ciechi e che ti tiene incollato allo schermo.

bravissimi gli attori, straordinari Matilda De Angelis (Giulia), al suo primo film per il cinema, e Stefano Accorsi (Loris), che ritorna a una straordinaria interpretazione, ai livelli di quella del bellissimo “Capitani d’aprile”.

tante cose meritano di essere ricordate, in questo film, che prende quota col passare dei minuti.

bellissimo il rapporto fra Loris, una specie di figliol prodigo, anzi, di fratel prodigo, e Nico (Allegria), come anche quello fra Loris e Giulia, tutti insegnano qualcosa e imparano molto.

non perdetevelo - Ismaele



…Matilda De Angelis, al suo esodio cinematografico, è perfetta nei panni di una 17enne che ha il motore nel dna ma anche responsabilità adulte e piedi ben piantati per terra. Il suo sguardo sotto il casco mescola terrore e adrenalina, il suo corpo acerbo comunica fragilità e determinazione. La sua recitazione sobria e autentica, che ben si sposa con quella di Grazioli e del piccolo Giulio Pugnaghi nei panni di Nico, fa da contraltare e da contenitore a quella sopra le righe di Stefano Accorsi, che sulle prime pare gigioneria e invece conquista gradualmente dignità e carisma, per diventare la brillante caratterizzazione di un uomo in equilibrio su un crinale scosceso, un perdente glorioso degno di quell'universo epico e spaccone che è il mondo delle corse, siano esse su circuito di Formula Uno o su strada sterrata. Passato il mezzo del cammin della sua vita Accorsi sciacqua saggiamente i panni nel Po e non solo rispolvera il suo accento (pre Maxibon) ma acquisisce anche una postura da contadino della Bassa, e attinge alla fame di vita del Vasco prima maniera e alla poesia anarchica del Liga (Antonio, più che Luciano). Le riprese di gara sono convincenti e si lasciano seguire anche da chi non le conosce né le apprezza, e non privilegiano mai l'abilità tecnologica rispetto alla dimensione umanistica del racconto. In questo senso Veloce come il vento è più analogico che digitale, e gli effetti speciali sono vintage come il codice d'onore di Loris De Martino…

Incredibile. Un film italiano che ce la fa a essere popolare, e perfino in linea con i gusti di certo pubblico giovane-giovane e testosteronico, senza essere becero. Che flirta con certi generi oggi internazionalmente vincenti e però trova una via autoctona, originale, in cui quei modelli stranieri di riferimento vengono sì usati, ma rimodulati e riconfigurati secondo una sensibilità e un’antropologia tutte nostre. Ci si aspettava all’anteprima stampa il solito film italiano, e in quel solito c’è la disillusione maturata dopo infinite cose mediocri o orrende, ed è stata invece una bella sorpresa. Un film action-adrenalico di corse d’auto tiratissime con gran stridor di freni e gomme qui, da noi, nel nostro cinema? Ebbene sì, e non è un triste Fast & Furious de’ noantri malamente copiato con pochi mezzi e ancor meno idee, è qualcosa di dignitosissimo e originale che affonda nella passione tutta nazionale per i motori rombanti
…L’esordiente Matilda De Angelis è una rivelazione. Ma il film se lo prende Stefano Accorsi, che il suo tossico Loris se lo incorpora in un’operazione impressionante di mimesi, anche fisiognomica, che davvero ricorda quella di Christian Bale in The Fighter. Magro, uno spettro ambulante, i denti marci, il capello lungo e unto, sembra uscito dai peggiori incubi eroinici degli anni Settanta-primi Ottanta. Un’interpretazione che convincerà anche quelli che Accorsi-non-sa-recitare. Se il film ha il sapore di verità che ha, e si tiene lontano dalla tremenda estetica del carino che ammorba tanto cinema italiano, il merito è anche suo, della sua performance così corporale e sporca…

…Era da un pezzo che non mi capitava d'imbattermi in un'opera italiana così forte d'impatto, così ben raccontata, così popolata di intimo dolore, così accuratamente recitata e prodotta. Lo so che forse sto esagerando ma per me questo film è già un cult. E quel che mi si è stampato nell'anima è proprio dato dai volti meravigliosi dei fratelli Loris e Giulia De Martino, splendidamente interpretati da uno Stefano Accorsi in stato di grazia (e aggiungerei sorprendentemente, visto che le sue quotazioni erano piuttosto in ribasso) e soprattutto quella che è la rivelazione (acclamata e conclamata del film), la meravigliosa debuttante (al cinema, in tv aveva già fatto qualcosina) Matilda De Angelis (per inciso, ci tengo a dirlo, oltre che ottima attrice è anche la front girl della band "patchanka" dei Rumba De Bodas, dunque artista eclettica, pur giovanissima). Insomma un film che mi ha preso bene e che credo mi resterà a lungo nel cuore….

martedì 12 aprile 2016

$9.99 - Tatia Rosenthal

un film sul senso della vita, un angelo con le ali, un padre con due figli, uno disoccupato, l'altro pignoratore, un bambino che impara a crescere, un maiale di poche parole, un'attrice di pubblicità, un vecchietto senza niente da fare, vivono sotto lo stesso tetto, in un condominio, quasi non si parlano, fanno la vita di tutti, tutti i giorni, nessuno si senta escluso, sperano in un domani migliore.
la cosa straordinario è che è un film con pupazzi, certo non per bambini, un film pieno, non ti
annoi un attimo, promesso - Ismaele






Sebbene i protagonisti di $9.99 siano pupazzi, la storia ideata da Etgar Keret (co-sceneggiatore insieme a Tatia Rosenthal) è talmente coinvolgente da far dimenticare la loro natura gommosa trascinando lo spettatore in una dimensione sospesa tra immaginario e dramma esistenziale…

Por si no se ha percatado, $9.99 no es una película para niños, ni es una comedia; como los escritos de Etgar Keret su corazón está en encontrar paisajes familiares en medio del absurdo. El mundo que crea Rosenthal es fuertemente estilizado y al tiempo familiar, es metafórico y honesto. Si bien el diseño de personajes ayuda a dar soporte al absurdo de las situaciones también es lo suficientemente orgánico como para hacer sentir algunos momentos dolorosamente humanos…

Animation is the cinematic tool of creativity and invention, used where live action is simply not enough. In this digital FX age, of course, the animator has to have something even more special than ever before, to out-imagine the technology. And what this is, is on display in $9.99, a stop motion animation that delivers unnervingly real characters - made of silicon. But this is achieved not by perfect physical representation, which in fact is the last thing you can say about the figures. It's the team's ability to capture the essence of each character and their human attributes in a much deeper, more subtle fashion, often by the smallest gesture. A clever and sophisticated technique used for making the eyelids flexible also helps; surprising how important these are in conveying complexity or subtlety of emotion in a close up…

The “$9.99” comes from the price of a catalog of books, one of which touts to hold The Meaning of Life which Dave buys. Unfortunately, the characters here seem to be caught up in living their own lives and falling victim to respective challenges life presents itself, and so every effort that Dave wants to share gets spurned, and we the audience, unfortunately, don't get to hear if there are any insights to that. But of course we all know that there's no silver bullet, and the characters here, though the course of this emotionally moving film, learn of that meaning as it applies in their own, with the old man determined to take a more proactive approach, to a connection between a father and a son, to love found and running parallel to that, a love broken because of sacrifices that one has to make, or the lack thereof, and the maturing of a young child…

La Tv fa male ai bambini? - Alberto Taraglio

lunedì 11 aprile 2016

Eccomi - Alessandro Valori

Chocolat (Mister Chocolat) - Roschdy Zem

Rafael Padilla è figlio di schiavi, in tutto il film Chocolat non lo dimentica mai.
e quando diventa famoso sarà sempre uno schiavo, figlio di schiavi, le sirene del successo lo coccolano, ma gliela fanno pagare.
è un sans papier, in fondo, solo che qualcuno lo protegge.
Chocolat non si risparmia, le donne lo amano, come i bambini, l'alcool lo cattura, il gioco d'azzardo lo tiene prigioniero, noi, come Foottit, gli vogliamo bene.
ottimi gli attori, cito Omar Sy, James Thierrée (nipote di Charlie Chaplin, e si vede), Olivier Gourmet, Alex Descas.
bellissima l'amicizia fra Chocolat e Foottit, non sono solo compagni di lavoro.
quando assaggia la galera, Chocolat conosce Victor (Alex Descas), e ascolta cose che non conosceva, la dignità e la negritudine (Victor è di Haiti, e ci ritorna, inseguendo il sogno della rivoluzione, vogliamo pensare).
poteva essere un altro film, dicono molti critici, ma questo è, ed è un film da non perdere.
buona visione - Ismaele



QUI la storia di Chocolat




…Prodotto interessante, ben scritto, ben interpretato e con un importante tema universale, ma decisamente sopravvalutato. Cosa che, però, capita fin troppo spesso. In Italia come all’estero.
Piccola perla del lungometraggio: il riferimento alle origini del cinema, mediante la presenza dei fratelli Lumière che si accingono a filmare la coppia di clown. Il filmato originale ci verrà riproposto, in seguito, appena prima dei titoli di coda. E, si sa, scelte del genere non possono che deliziare lo spettatore particolarmente cinefilo.

Una sceneggiatura solida – affidata a Cyril Gély – un duo di protagonisti molto ben assortito e affiatato, un cast azzeccato (un nome su tutti è quello di Clotilde Hesme) e una cura attenta dei costumi e degli spettacoli clowneschi d’epoca rendono Mister Chocolat un film efficace e capace di mescolare diversi elementi e registri, evitando di soffermarsi eccessivamente sul tema della discriminazione razziale per raccontare piuttosto una storia dimenticata di un artista e di un uomo che vive la sua parabola di gloria e inevitabile caduta. E fra le tante riflessioni che suscita questo film, spicca proprio quella relativa al successo che si dimostra tanto luminoso quanto effimero.
da qui



…Omar Sy coglie e trasmette con sentimento e umiltà la triste storia di Rafael. Il talento carismatico di James Thierrée (nipote di Charlie Chaplin, figlio di Victoria Chaplin e di Jean Baptiste Thiérrée fondatori del Circo Immaginario) dà il volto e il corpo a un meraviglioso Footit.
Abdellatif Kechiche aveva narrato una storia simile con il suo Venere Nera, ambientato circa 70 anni prima, ma i toni erano decisamente diversi.
Roschdy Zem, regista dall’interessante carriera, è riuscito nel compito di ricreare l’atmosfera di fine XIX e inizio XX secolo, e così facendo attira e fa appassionare il pubblico alla storia, mantenendo un necessario distacco emotivo nel dirigere questo film.

…Un altro pregio da parte del regista è di aver saputo far tesoro del bagaglio di competenze ed emozioni dei suoi interpreti, a partire dal divo comico Omar Sy, a sua volta da sempre protagonista di una battaglia per imporre la dignità del suo percorso attoriale, ancorché condotto a partire da uno status di autodidatta, che rappresenta un segnale di speranza per tanti artisti afrodiscendenti, in Francia e altrove. 
Di grande rilevanza anche l’apporto offerto da James Thierrée, che oltre a interpretare con nervosa e plastica energia Footit, ha coreografato tutte le scene di clownerie, mentre Alex Descas dà a Victor il carisma e la credibilità che gli riconosciamo in molti altri ruoli costruiti negli anni, in un cinema di ricerca e senza compromessi.
Se un limite dobbiamo trovare nel film di Zem sta nell’impalpabilità di uno sguardo registico che non diventa mai cornice, ma rimane sempre finestra, limitandosi a registrare, con efficacia, un lavoro d’insieme condotto pure con rigore ma anche notevole capacità di reinterpretazione. La presenza-assenza di questo sguardo non marcato non toglie però nulla alla forza politica e umana di Mister Chocolat, anche se probabilmente impedisce al discorso filmico di fissarsi con forza nella memoria dello spettatore cinefilo tipo.

… Certo, resta l’accorata interpretazione di Omar Sy (seconda generazione francese di origini senegalesi e mauritane, ben distante dall’origine caraibica di Padilla; dettaglio secondario, ma che rafforza l’impressione di un prodotto studiato a tavolino e non troppo interessato alla pur sbandierata verità), sempre più rivolto a una riedizione d’Oltralpe di ciò che Eddie Murphy rappresentò negli anni Ottanta per Hollywood, ma non incide sulle sorti di un progetto prevedibile, fin troppo misurato, conservatore nella forma e forse anche nella sostanza. Cinema per platee socialdemocratiche, pronte a commuoversi e indignarsi, lavandosi la coscienza prima di tornare alla vita di tutti i giorni.
Nel ragionare su Padilla/Chocolat e su tutti i figli delle colonie considerati pari solo sulla carta, ben altra lucidità e coraggio mostrò nel 1916 Giuseppe Ungaretti con In memoria, poesia composta dal fronte e dedicata all’amico Moammed Sceab, maghrebino trapiantato in Francia e morto suicida con il nome di Marcel. Per comprendere cosa comportano termini come ricordo e verità basta rileggerla…
Si chiamava
Moammed Sceab
Discendente
di emiri di nomadi
suicida
perché non aveva più
Patria
Amò la Francia
e mutò nome
Fu Marcel
ma non era Francese
e non sapeva più
vivere
nella tenda dei suoi
dove si ascolta la cantilena
del Corano
gustando un caffè.
E non sapeva
sciogliere
il canto
del suo abbandono
L’ho accompagnato
insieme alla padrona dell’albergo
dove abitavamo
a Parigi
dal numero 5 della rue des Carmes
appassito vicolo in discesa.
Riposa
nel camposanto d’Ivry
sobborgo che pare
sempre
in una giornata
di una
decomposta fiera
E forse io solo
so ancora
che visse.


Roshdy Zem s’est fort heureusement entouré d’une très belle équipe technique. On aura peu à redire sur la reconstitution des décors et des costumes, tout étant plus vrai que nature. En s’adjoignant les talents de James Thierrée (le petit-fils de Charlie Chaplin et artiste complet) dans le rôle du clown blanc, Zem bénéficie d’un virtuose de la scène qui réussit à créer d’authentiques numéros de cirque et à donner vie à des spectacles drôles et vivants. S’il est aisé pour Thierrée d’enfiler le costume du clown, soulignons qu’Omar Sy, moins habitué à l’exercice, s’en tire avec les honneurs. Il faut dire que Roshdy Zem capitalise merveilleusement sur les atouts de l’acteur césarisé pour "Intouchables" : son sourire, son charme et son rire communicatif ! Omar Sy séduit autant en clown adulé qu’en homme parfois surpassé par ses démons (le jeu et l’alcool, sur lesquels le scénario aurait pu être plus incisif). Quant à James Thierrée, il est plus subtil encore dans la peau d’un personnage très ambigu hors de la scène (son attirance pour les hommes est malheureusement à peine effleurée)…

Côté mise en scène, ce biopic retrace la vie de ce célèbre clown en prenant quelques libertés notamment sur sa rencontre avec Footit. En dehors de ces petites libertés, le film n’en est pas moins intéressant. La rencontre entre ces deux artistes nous montrera un parcours glorieux grâce à leur succès, mais nous révèle également l’envers du décor. Bien souvent les biopics nous montrent les bons côtés, ici Roschdy Zem prend le parti prix d’en faire un film plutôt sombre. On remarque assez rapidement la complexité des personnages et que leur vie privée est loin d’être joyeuse. Bien que les faits se soient déroulés durant la Belle Epoque, les thèmes abordés comme le racisme, l’addiction à l’alcool ou au jeu sans oublier l’amitié sont encore d’actualité et universel. Outre les tensions qui règnent en coulisses, les différents numéros présents sont réglés au millimètre. Les différents numéros seront nous surprendre et nous faire rire…

Le récit aurait pu être captivant. Le destin du « Clown Chocolat » permet une immersion singulière dans la réalité de la Belle Epoque où le racisme est loi tandis que l’argent est plus ravageur que l’opium. Toutefois l’angle d’approche pour lequel opte Roschdy Zem est à ce point superficiel que CHOCOLAT transparaît comme une vulgaire litanie. Platement narratif, le scénario sert de terreau à une démonstration sans saveur – épinglons les flash-backs ridicules qui ont pour fonction d’exacerber l’émoi du protagoniste. L’évolution est grossière tant elle se veut distanciée.
La mise en scène pique souvent aux yeux. Artificielle au point de nous donner l’impression d’être confrontés à un bal costumé, elle est risiblement audacieuse lorsque le réalisateur tente des effets de travelling qui n’ont rien de vertigineux. L’humour du duo « Chocolat-Footit » est daté – au point de nous mettre franchement mal à l’aise. CHOCOLAT aussi…