mercoledì 23 dicembre 2015

Il ponte delle spie - Steven Spielberg

un uomo contro tutto e tutti, contro tutte le aspettative, riesce a ottenere i suoi obiettivi di liberare due uomini, come nel più classico degli western.
i tempi sono quelli della guerra fredda, i sovietici e i tedeschi dell'est sono peggio degli statiunitensi, sarà un caso, ma il film è un'americanata, ben fatta davvero, Spielberg è un grande del cinema.
poi ce n'è anche per i militari statiunitensi, dipinti come quelli di Stranamore di Kubrick, pazzi travestiti da difensori della patria, nelle loro mani sono i destini di tutti, poveri noi.
come in una partita a scacchi l'avvocato Donovan ( Tom Hanks) non sbaglia una mossa, si crea un rapporto di stima reciproca con la spia Abel, riuscirà alla fine a fare lo scambio sul ponte delle spie, vincendo la partita.
hanno collaborato alla sceneggiatura anche i fratelli Coen, certamente migliorando quella originaria.
nessuno si aspetti cose straordinarie, è solo un film di piccoli uomini in tempi difficili, che ci sono sempre, i tempi difficili di sicuro, ma anche adesso uomini straordinari appaiono (mi viene in mente Edward Snowden, per esempio, non a caso ricercato), un film classico, di quelli di una volta - Ismaele



…La sobrietà di una messa in scena che potrebbe anche correre il rischio di apparire didascalica, ma in realtà rinnova il patto tra Spielberg e il pubblico, quello di un intrattenimento mai sbilenco rispetto al registro adottato. E il registro non ha più nulla a che vedere con le ipotesi da cinema/luna park dei vari Indiana Jones e il tempio maledetto, Hook e Jurassic Park (e in misura maggiore delle sue produzioni per altri cineasti), perché il roboante incedere della Storia è centro e sfondo allo stesso tempo.
Nel cuore dell’inquadratura non c’è mai spazio per il Muro, o per i mirabolanti U-2 dell’aviazione statunitense, ma solo per l’uomo, per le sue contraddizioni, per le sue qualità e vizi. Il resto è materiale da avanspettacolo storico, del quale già si conoscono gli esiti, e che può dunque rimanere nel fuori campo. In questa chiave di lettura, oltre al senso dell’epos e alla potenza dell’immaginario, Spielberg può davvero essere considerato l’unico erede di John Ford tra i registi della New Hollywood. Lo testimonia una volta di più l’ultimo segmento de Il ponte delle spie, dalla nebbiosa alba sul ponte di Glienicke fino a quell’immagine che scorre davanti agli occhi di Donovan mentre si trova in metropolitana. L’ennesimo conflitto nel conflitto, paradosso e immagine riflessa di una Storia che non è mai finita…

Spielberg non si fa mancare un po’ di stereotipi sui demoni comunisti che torturano il pilota con la privazione del sonno (le torture psicologiche dei russi che andavano di moda nell’immaginario della Guerra Fredda), mentre da noi, in America, il russo viene rispettato (gli permettono addirittura di dipingere) ecc.
Non è proprio a senso unico, non cade del tutto nella banalità, non fa un proto-western degli anni ’50 con gli indiani cattivi che attaccano i bravi coloni americani, non si (ci) nasconde che anche quelli della CIA sono cinici, amorali, che cercano con tutti i mezzi di strumentalizzare l’avvocato lincolniano incorruttibile. Col mestiere riesce a restare sulla linea di confine, con qualche caduta nell’estremo, ma controllata. E alla fine, come non ricordare quella battuta, che oggi fa ridere, de I tre giorni del condor, quando Redford dice: “C’è del marcio nella CIA”.
Un po’ di marcio.
Va a finire, pensa lo spettatore paziente e ben disposto, che Steven Spielberg, all’età di 69 anni, ha fatto la sua personale, fiabesca, (per lui?) scoperta… dell’America.

La penna dei Coen trapela in ogni sequenza, mettendo in bocca a personaggi delineati alla perfezione dialoghi tra il filosofico e il surreale, tra l'ironia e la profondità. Certo, manca l'umorismo nero tipico di Joel ed Ethan, ma il contesto (la guerra fredda e soprattutto la sua percezione nel popolo americano) non è certo il più appropriato. Non siamo di fronte al compitino, sia chiaro: ai Coen non sfugge l'occasione per ridicolizzare il patriottismo ottuso e per sottolineare che, in un certo senso, gli americani non esistono: sono tedeschi, irlandesi, italiani; ma è l'accettazione ed il rispetto delle stesse leggi (e conseguentemente dell'individuo) a renderli un popolo. Un concetto che si potrebbe esprimere anche per tedeschi, irlandesi e italiani e che, in questi giorni, si rivela particolarmente ghiotto e privo di grassi, parabeni e discriminazioni di razza, etnia o religione.
 La sceneggiatura dei Fratelli Coen persevera nella difesa dell'individuo affiancando ad Hanks, che regge il peso dell'intera pellicola, un personaggio indimenticabile, quello della (presunta) spia sovietica Rudolf Abel, che, seppur "nemico", si rivela serafico nella sua correttezza e nella sua lealtà. Ed è Mark Rylance, più volte prestato al cinema dal teatro e già candidato ad un Globe per questo ruolo, a rendere Abel ancora più umano e rispettabile. A contrapporsi alla simpatica fermezza di Abel troviamo, ironicamente, la superficialità e l'antipatia del pilota dell'aereo spia statunitense (Austin Stowell), quasi a voler sovvertire i canoni di un certo (e stantio) tipo di cinema di parte…

Il ponte delle spie riesce meglio nelle zone grigie, quando Donovan vede Abel e Powers come patrioti che scommettono sui loro Paesi. Risplende quando Spielberg mostra il carattere del protagonista con l’azione, come quando Donovan va a Berlino dove i cospiratori quasi lo ammazzano. Durante il crescendo che porta allo scambio dei prigionieri sul ponte Glienicke, ci sono poi dei momenti dove si fatica a capire chi sia il buono e chi il cattivo, e la solita roba da spie diventa una potente provocazione.

…di una sceneggiatura monolitica che ci mostra in piena luce episodi complessi e oscuri, e che lo fa con troppe sicurezze ideologiche ed etiche, pochi dubbi, poche o zero sottigliezze capaci di rendere la lunga zona grigia tra il bianco e il nero. Se son stati poi chiamati, com’è successo, i fratelli Coen a trattare e riscrivere almeno in parte la sceneggiatura originaria ci sarà stato un motivo, probabile che lo stesso Spielberg abbia avvertito la necessità di complessificare e stratificare. Ma l’intervento dei Coen Bros. sembra limitato all’aggiunta di una qualche smagliante battuta qua e là, di una qualche invenzione stravagante e di loro tipico lunare surrealismo e però alla fin fine marginale (un critico anglofono, ahimè non ricordo quale, individua come di sicuro segno coeniano la falsa famiglia sovietica di Rudolf Abel, io azzarderei anche la sala cinematografica berlinese con in cartellone Spartacus di Stanley Kubrick e Un, due, tre di Billy Wilder, commedia di spietato cinismo sulla guerra fredda di cui i due fratelli potrebbero benissimo firmare un remake, ma che con lo spirito spielberghiano c’entra poco, anzi niente)…

sabato 19 dicembre 2015

Perfect Day - Fernando León de Aranoa

Fernando León de Aranoa ha girato nel 2002 quel capolavoro che è Los lunes al sol (I lunedì al sole), con Javier Bardem e Luis Tosar, oltre a vari altri film sempre di alto livello (quiquiqui e qui le apparizioni di Fernando León de Aranoa nel blog).
con Perfect Day fa un film strano, un film di guerra, ma la guerra non si vede, si sente, un film su chi prova a cucire qualche taglio che la guerra ha prodotto, sarti di vestiti impossibili, con militari da Comma 22 o Mash, padroni del cielo e della terra, che fanno il deserto e lo chiamano pace, fanno le guerre e le chiamano missioni di pace.
la squadra di Mambrù (Benicio del Toro, uno degli attori migliori in circolazione), come Sisifo, cerca di costruire qualcosa, aldilà delle regole, inutilmente.
a un certo punto appare anche la mamma di Nikola, il bambino col pallone (poteva essere Ferida Osmanovic).
il film è tutto spagnolo, girato in Andalusia e a Cuenca (dove è stato girato quel capolavoro che è Calle Mayor).
la colonna sonora termina con Pete Seeger e Lou Reed, che non hanno fatto proprio canzoni militariste.
un film divertente, ma non c'è niente da ridere, e però ridere è l'ultima difesa contro la barbarie - Ismaele




…Senza lanciarsi in discorsi troppo alti ed estranei al film, rimanendo ben ancorato a terra, alla ricerca di una banale corda o di un pallone da calcio, Aranoa parla del dramma della guerra meglio di tante immagini dal fronte, confuse e roboanti. Come nelle opere migliori, Perfect Day tratta di relazioni, e trova davvero un valore aggiunto nel cast internazionale e nel lavoro di Benicio Del Toro in primis, che tiene la nota di base, grave e mai patetica, su cui possono improvvisare quella più comica di Tim Robbins, quella maliziosa (solo in apparenza) della Kurylenko, quella più ingenua (e un poco al limite) di Mélanie Thierry. 
L'ironia della sorte, ci dice Aranoa, non è sempre quella di passare dalla padella alla brace, mentre fuori piove: a volte, come accade in questo finale, si può sorridere, con meno amarezza, del movimento contrario, dalla brace alla padella. Fuori, comunque, piove.

De Aranoa intervalla l’atmosfera surreale sapientemente architettata, facendo trapelare alcuni guizzi di realtà – anche se contornati da elementi che ne esasperano le dinamiche (davvero riuscite le sequenze con le mine antiuomo rivelate dai cadaveri di mucca) -, e in tal senso la tragica fine dei genitori di un ragazzino del luogo, la cui casa è stata distrutta, è l’unica nota drammatica che il regista immette in una partitura che suona una melodia vivace e senza interruzioni. Colpo da maestro, infine, la trovata che chiude il film, che, ridicolizzando tutta la messa in scena a cui si è precedentemente assistito, assesta un colpo durissimo alla logica della rappresentazione, attraverso l’impietosità  di uno sguardo che porta fino in fondo il processo di decostruzione avviato fin dall’inizio….

 grazie a una sceneggiatura brillante e ricca di suspense; Fernando León de Aranoa riesce a mostrarci il lato grottesco del conflitto, l’incomunicabilità, il senso di impotenza, i piccoli strazi quotidiani, le contraddizioni degli esseri umani, con intelligenza e senza lezioni di morale. Il suo è un racconto universale, senza tempo, senza luogo, che ognuno può percepire secondo la propria sensibilità. Perché A PERFECT DAY non è il film che ti aspetti, è meglio, molto meglio: è un piccolo gioiello.

Tutto suona falso, in Perfect Day, a partire dalle location: nessuna ripresa è stata davvero fatta nei Balcani, e il film è stato completamente girato nelle zone brulle e collinari della Spagna. Si segue con divertimento l’incessante battibecco che si instaura tra i personaggi – tutti, ça va sans dire, brillanti e con la battuta pronta –, e la classe del parco attori scelto per la bisogna sopperisce ad alcune evidenti mancanze del film, ma l’impressione è quella di un prodotto di laboratorio assemblato senza alcuna personalità, e tantomeno originalità.
Tra cattivo gusto involontario, buoni sentimenti d’accatto e una sana dose di qualunquismo che i meno avveduti potrebbero scambiare per animo ribelle (agevolati anche da una colonna sonora furba, per quanto a tratti ben selezionata, tra gli X e i Velvet Underground), Perfect Day si trascina fino alla fine senza sussulti, e senza alcuna impennata che ne giustifichi l’esistenza. Eppure il pubblico che ha gremito la sala del Marriott sulla Croisette per assistere alla proiezione ha riso di gusto, tenendosi la pancia per la maggior parte del tempo. E lavandosi la coscienza, con ogni probabilità, a ogni risata.

…Ambientada en los últimos meses del conflicto bélico de Bosnia, en la Guerra de los Balcanes, 1995. Un grupo de trabajadores humanitarios viven sus propios problemas para ayudar a los ciudadanos locales, lo último: un cadáver ha sido tirado dentro de un pozo para dejarles sin agua potable, retirar el cuerpo, algo aparentemente sencillo, les supondrá una misión imposible por los inconvenientes protocolos de ejecución pese ir en contra de la lógica. Los protagonistas deambulan como pollos sin cabeza por las carreteras de Bosnia sobrellevando el drama de la mejor manera que pueden.
Es una película que se centra en una parte que no suelen cobrar protagonismo en las pelis de guerra, el de la ayuda humanitaria. Esta no es una película bélica sino de sus consecuencias en un día “cualquiera” en los ciudadanos; y como la ayuda humanitaria trabaja por crear del lugar un sitio mejor.

In Bosnia i cooperanti galleggiano in un’atmosfera rarefatta. Perché sono gente che fa il Volontario non solo per vocazione , ma anche  per mestiere. Sono uomini di buona volontà che cercano di mettervi delle pezze: limitate, poco incisive; ma almeno ci provano. E vanno incontro alle difficoltà e intralci piùsvariati: alcuni oggettivi; ma altri, molti per la verità, dettati da pura e presuntuosa  stupidità cui si accoppia il più spregevole utilitarismo. Ma, ed è questa la sua più riuscita caratteristica, dando all’insieme un ritmo da commedia. La soggettività è filtrata dalle dialettiche interne al gruppo; e di come essi s’interfaccino tra loro e con la autorità di fatto cui sono sottoposti. Gli attori sono a loro agio in questa dimensione sospesa: Benicio Del Toro, il protagonista, su tutti, per intelligenza e apparente cinismo. Tim Robbins, con eleganza, spinge sul pedale dell’eccesso grottesco. La fotografia, di Alex Catalàn, ha creato una stupenda quanto inaccessibile Bosnia tra le montagne dell’Andalusia.


giovedì 17 dicembre 2015

Redemption - Identità nascoste - Steven Knight

sceneggiatore di grandi film, qui Steven Knight è alla regia, nel film prima di Locke.
Redemption è un po' lento, senza troppi colpi di scena, avvengono fatti non sorprendenti, non stupisce come Locke, è comunque un film onesto, prove tecniche per il capolavoro successivo.
di sicuro merita la visione - Ismaele




…Per questo suo esordio registico l’autore di Birmingham usa Statham come un veicolo – probabilmente anche pubblicitario – per raccontare alcune delle attività criminali della comunità cinese nella Capitale. Lo fa con occhio attento e interessato ma non incattivito, pensando forse che il male di un uomo solo sia peggiore di quello pianificato da un’organizzazione criminale. Purtroppo la sua sceneggiatura scade nella banalità quando si concentra sul personaggio della suora polacca e come regista non riesce a ottenere il necessario dalle scarse capacità attoriali di Jason Statham.
Knight dirige comunque in maniera elegante, affascinante, e a fianco di alcune brillanti soluzioni di sceneggiatura crea anche diverse sequenze davvero ottime. Il viaggio di redenzione del suo protagonista, per quanto prevedibile in molti risvolti, interessa e colpisce, e questo da solo è già un successo. Si sarebbe forse potuto rendere ancor più ossessivo il ricordo degli Hummingbird, che oltre a dare il titolo al film perseguitano il protagonista nei suoi incubi, ma visti i precedenti non sembra sbagliato pensare che Knight sia il miglior regista possibile al servizio delle sue sceneggiature.
da qui

Aperto a divagazioni action come a parentesi melodrammatiche, Redemption - Identità nascoste ragiona sugli obblighi e sulle responsabilità, sull'importanza delle proprie azioni e sulla difficoltà di mantenere un equilibrio, mettendo a confronto due personaggi ugualmente al limite: proprio come Joey, anche Cristina, suora di origine polacca dalla fede forse non saldissima e persa dietro al sogno del balletto classico, ha dentro una ferita non rimarginabile, un passato che la costringe ad un'esistenza che avrebbe voluto diversa. Incontro di due solitudini, percorso di liberazione e possibilità di vedere i propri errori nell'altro, il rapporto tra i due diventa il fulcro di una pellicola sulla difficoltà di mantenere salda la propria identità in una realtà in cui nulla sembra avere più senso, dove i fiumi servono per liberarsi dei cadaveri e i clandestini sono stivati dentro a scatole di cartone. Diretto con buon ritmo e basato su una struttura narrativa più classica di quanto appare, il film tiene desta la partecipazione dello spettatore, aumentando gradualmente la forza del dramma fino ad un pre-finale in cui il montaggio alternato chiude, contestualmente, le storie di Joey e Cristina….
da qui

 Redención está muy lejos de ser una hipnótica obra audiovisual que convierta a Steven Knight en el nuevo director de moda en los circuitos más cool de la cinefilia, pero es digno reconocerle la virtud de intentar (y conseguir) aportar algo de distinción al Universo Statham. Motivo suficiente como para darle una oportunidad a esta cinta extraña e imperfecta, pero a ratos fascinante.

sabato 12 dicembre 2015

La isla mínima - Alberto Rodríguez

c'è chi dice che questo film sia una mezza copiatura di True Detectives, è una bugia, visto che il film precedente di Alberto Rodríguez, Grupo 7, ha come protagonisti una coppia di detectives, anche lì, come ne La isla mínima, abbastanza selvaggi.
in più, vantaggio di La isla mínima su True Detectives, dura 105 minuti intensissimi, senza un minuto inutile, non si rifiata mai.
se vi piacciono i film pallosi, che non costringono a dubitare, a interrogarsi, che non arrivano al dunque, che non siano l'affresco di un'epoca, che siano politicamente corretti, dove il bianco e il nero non si mischiano mai, che evitano le sorprese, ecco, questo non è un film per voi.
se così non fosse, alla fine del film non smetterete di ringraziare il momento in cui avete preso la decisione di andare al cinema.
vogliatevi bene, andate a vedere questo film, non vi deluderà - Ismaele





La isla minima è un film che funziona egregiamente sia come thriller, cupo e teso come pochi, sia come affresco storico , estremamente credibile.
Visione altamente consigliata.

…La pellicola colpisce sin dalle prime immagini per la perfezione delle sue linee, per quell’orizzonte che s’impone, per le inquadrature che sono scatti in grado di vivere di vita propria, per quella forza graffiante, la luce accecante e il calore che riusciamo a percepire. Siamo anche noi in quei campi e immersi in quel fango. La Isla Minima e la sua trama ci trascinano, inquietano e ispirano. Ciò che stupisce non è l’intreccio né la sceneggiatura (alquanto classica) ma la profondità dei personaggi e la tridimensionalità dei luoghi. Con poche parole azzeccate, i gesti giusti e attenti movimenti di macchina, Rodriguez rende tangibili protagonisti immaginari (interpretati da Raúl Arévalo e Javier Gutiérrez) e per un paio di ore fa rivivere, con disarmante ed efficace lucidità, un’epoca impressa nella memoria di molti.
Dotato di una confezione che nulla ha da invidiare alle migliori produzioni a stelle e strisce, riuscendo a superare opere simili, come Le Paludi della morte, questo film è un piccolo gioiello di equilibrio: sempre in bilico tra suspense e dramma, tra giusto e sbagliato, tra il bene e il male, senza mai impartire lezioni ci regala momenti di ottimo  cinema.

Stilisticamente, il regista spagnolo fin dall'incipit c'introduce in questo spazio. Nei titoli di testa, con inquadrature aeree e plongée, la macchina da presa mostra il terreno composto da linee complesse, una sorta di sistema nervoso, uno scenario labirintico; la stessa inquadratura l'abbiamo del cimitero alla fine della sepoltura delle due ragazze, con linee rette e geometriche; e una terza sul fiume che inquadra la barca dei due poliziotti a bordo navigare verso la veggente rivelatrice di notizie funeste per Juan. Insomma, l'iterazione delle tre inquadrature sono una raffigurazione della morte compenetrante lo spazio, il terreno, il cielo, l'intero ambiente dove si muovono i personaggi e in cui lo spettatore è immerso fin da subito da Rodríguez, dove il senso metafisico di finis terrae combacia anche con il termine di un tempo storico (quello della Spagna) e personale (quello dei personaggi: Juan, il killer, le ragazze assassinate).
Alberto Rodríguez rielabora stilemi di genere in modo originale e personale, mettendo in scena la fine di un'epoca con un equilibrio tra forma cinematografica, struttura narrativa e contenuti, rendendo "La Isla Minima" una visione da non perdere.

Visualmente, La isla mínima es un sobresaliente ejercicio de estilo en donde los escenarios naturales, exaltados por una monumental fotografía de Álex Catalán –espectaculares planos cenitales del paisaje, casi pinturas en movimiento– funcionan como un personaje más de la trama. Mucho se ha comparado a la película con la popular serie True Detective y lo cierto es que los dos agentes interpretados por Javier Gutiérrez y Raúl Arévalo tienen mucho de la psicología de los encarnados por Woody Harrelson y Matthew McConaughey en el thriller de HBO, del mismo modo que el río Guadalquivir de La isla mínima se presenta tan tenebrosa como los pantanos de Luisiana. Rodríguez le imprime un ritmo pausado a la narración que, sin embargo, agarra al espectador desde los llamativos títulos de crédito iniciales para no soltarlo hasta su ambiguo y, por una vez, perfecto desenlace, que se atreve a dejar la puerta abierta a diferentes y espeluznantes interpretaciones. Un guión redondo, que cuida al milímetro cada pequeño detalle y dosifica con sabiduría las pistas a lo largo del metraje, sin descuidar las escenas de acción –hay un par de ellas impecablemente rodadas: una persecución a pie entre los arrozales y otra en coche a través de las nocturnas marismas–, solo necesitaba de los actores adecuados para hacer que el milagro tomara forma y La isla mínimase convirtiera en una gran obra para el recuerdo. Sin duda, el reto ha sido solventado con matrícula de honor…

mercoledì 9 dicembre 2015

ricordo di Dalton Trumbo

«Non ho più niente, sono solo un pezzo di carne che continua a vivere».

«E Johnny prese il fucile» è un romanzo straordinario – ma purtroppo poco visibile, scomodo in tempi di militarismo – dello statunitense Dalton Trumbo. Fu scritto nel 1938: lodatissimo negli Usa finché prevalse l’idea che non bisognava entrare nella guerra (considerata imminente) contro il nazismo ma subito “cancellato” quando si decise di combattere… per salvare “la democrazia”.
Ed ecco un dialogo, dove si spiega cos’è questa strana parola, buona per ogni uso.
Joe: Cos’è la democrazia?
Padre di Joe: Mah, con precisione non lo so nemmeno io. È come una specie di governo. Riguarda però i giovani che si uccidono tra di loro se non sbaglio.
Joe: I vecchi non si uccidono tra di loro?
Padre di Joe: I vecchi mantengono accesi i focolari nelle case.
Joe: Perché, non lo potrebbero fare anche i giovani?
Padre di Joe: Sì, ma vedi i giovani non hanno una loro casa, ecco perché debbono andare ad ammazzarsi tra di loro.
Joe: Quando verrà il mio turno tu vorrai che ci vada?
Padre di Joe: Per la democrazia ogni uomo deve dare anche l’unico figlio che ha.
Dalton Trumbo, famoso sceneggiatore, riprese il suo romanzo e ne trasse il film – l’unico che realizzò – omonimo nel 1971, quando aveva 65 anni. Così riassume la trama «Il Morandini, dizionario dei film» (il volume viene ri-pubblicato ogni anno da Zanichelli con le nuove uscite e altri aggiornamenti). «Colpito da una cannonata nell’ultimo giorno della guerra 1914-18, Joe Bonham perde gambe, braccia e parte del viso, cioè vista, olfatto, udito e parola, diventando un troncone di carne pensante. Atroce requisitoria contro la guerra, grido di pietà e indignazione, attacco alla scienza e all’esercito, interrogazione sull’esistenza di Dio».
Se andate su Wikipedia sul romanzo potete anche leggere: «Trumbo scrive questo straziante apologo contro ogni tipo di guerra nel 1938, ispirandosi ad un fatto realmente accaduto. Il libro uscì nel 1939 … ma dopo Pearl Harbour fu ritirato dalle librerie e occultato ai più. Dal 1945 ricomparve nelle librerie ed andò a ruba ogni volta che l’America entrava in guerra con qualcuno: Corea, Vietnam, ogni volta rientrava in circolazione come un manifesto/monito sulla carneficina folle a cui lo “Zio Sam” andava avvicinandosi per esserne investito e destabilizzato. Lo scrittore Dalton Trumbo ne fece il progetto della sua vita, tanto che dopo essere stato messo in prigione durante il maccartismo (Trumbo era iscritto al Partito Comunista degli Stati Uniti d’America) insieme ad altri nove sceneggiatori e registi di Hollywood, dopo aver continuato a fare lo sceneggiatore segretamente ad Hollywood sotto pseudonimo o senza essere accreditato nei titoli, e, nonostante neanche una piena riabilitazione gli eviti di ricevere 17 porte in faccia da produttori e registi, nel 1971 riesce a far uscire nelle sale il film E Johnny prese il fucile con il quale esordì alla regia. Già nel 1941, Trumbo ne aveva realizzato un adattamento per la radio, con la voce narrante di James Cagney». Nel suo impossibile tentativo di essere “oggettivo” Wikipedia aggiunge questa nota: «La neutralità di questa voce o sezione sull’argomento opere letterarie è stata messa in dubbio». Sulle guerre e i massacri in effetti bisogna essere neutrali: perché parlarne male? Perbacco, diamo la parola anche agli imperialisti, ai poveri generali e ai mercanti d’armi.
Di recente anche in Italia si è riparlato – sinora poco e male – di Dalton Trumbo per l’uscita di un film di Jay Roach: forse vedremo «Trumbo» ovvero «L’ultima parola – La vera storia di Dalton Trumbo» anche in qualche sala italiana. Nell’attesa… da quel che ho letto sembra un film ben fatto ma certo da solo non può dare un’idea completa della vita di Trumbo e tanto meno di cosa fu il maccartismo. Chi vuole saperne di più non faticherà a trovare alcuni libri che ne raccontano: fra quelli che conosco io il migliore mi è parso «Lista nera a Hollywood» – cioè «La caccia alle streghe negli anni ’50»- di Giuliana Muscio, uscito (da Feltrinelli) nel 1979. Ma si finisce sempre per ricordare solo quel che accade a Hollywood e agli intellettuali dimenticando che la repressione colpì in ogni piega della società statunitense.
Ed è pensando a quel clima da Inquisizione che lo scienziato e scrittore Leo Szilard scrisse, in un racconto, una frase che a distanza di molti anni continua a inquietarmi: «Il quesito era: gli americani erano liberi di dire tutto quello che pensavano, visto che non pensavano quello che non erano liberi di dire?». Una micidiale, tragica, sovversiva ironia.
Per 2 volte in “bottega” Ismaele ha parlato di Trumbo: qui due film antimilitaristi, e non solo e qui Strike – 9 (con il significativo sottotitolo: «Paura dei comunisti al cinema (molto più facile trovare film sullo schiavismo che sulla lotta di classe)».
Dalton Trumbo era nato il 9 dicembre 1905, da cui questa «scor-data», ed è morto il 10 settembre 1976.

Fate o fatevi un regalo: leggete o donate il libro (lo trovate nelle edizioni Bompiani) e/o il film «E Johnny prese il fucile»: a me sembra una piccola, buona, necessaria terapia contro la pazzia militarista che torna a crescere qui in Occidente-Uccidente.

lunedì 7 dicembre 2015

Syriana - Stephen Gaghan

nella recensione al film sul Guardian del 5 marzo 2006 si legge che “Syriana, apparentemente, è una parola usata dagli esperti di politica estera nei think-tanks a Washington per descrivere possibili cambiamenti, sperimentando giochi di potere e nuovi scenari nel Medio Oriente”.
avevo visto il film al cinema (42° nella classifica degli incassi nella stagione 2005-2006)) ormai nove anni fa, film grandissimo, per i miei gusti, visti i tempi ho pensato di rivederlo.
è tratto da un libro di Robert Baer, ufficiale della CIA per 20 anni, possiamo dire che è uno informato dei fatti, no? (qui una trasmissione che racconta di lui in Iraq).
interpreti grandissimi, uno fra tutti George Clooney, uno che fa film mediamente di cassetta, ma, a differenza di tanti che verranno dimenticati senza nessuno sforzo, spende i non pochi soldi che incassa per dirigere e/o produrre film di serie A, come questo.
Syriana racconta il mondo come raramente capita al cinema (e neanche in molti libri), e siamo tutti coinvolti.
qui non si capisce chi sono i buoni e i cattivi, le cose non sono bianche o nere, quasi sempre sono grigie, e chi vuole fare ordine, il suo ordine, spesso aumenta di molto il disordine, l’entropia del mondo.
chissà se dopo un decennio è possibile rintracciare questo film, provateci, di sicuro non ve ne pentirete - Ismaele



Film impegnato se ce n’è uno, Syriana è un’opera che necessita di spettatori particolarmente attenti e ben predisposti alla visione, perché tutto è tranne che una pellicola i cui input giungono immediati al pubblico, antitetica com’è rispetto non solo agli entertainment-movie, ma anche al prodotto cinematografico medio attuale…

Il punto di partenza è “Syriana”, termine coniato dai pezzi grossi di Washington per ridisegnare i confini del Medio Oriente secondo gli “appetiti” occidentali. L’ipotesi del regista: un paese produttore di petrolio che rescinda il contratto di fornitura a una mega società americana. Quello che succede da questo momento in poi è plausibile e agghiacciante, una volta entrati nella storia…
Come in un gigantesco puzzle ogni tassello si incastra a perfezione con il successivo, Wasim diventa l’emblema del desiderio di riscatto del popolo arabo, di migliaia di giovani derelitti che sono carne da macello nelle mani dei fanatici. Le immagini sono rigorose, quasi scarne, efficaci come i dialoghi, grazie anche al direttore della fotografia Robert Elswit che ha girato tutto il film con due macchine a spalla. Il messaggio è forte e chiaro: il sistema è marcio e destinato all’autodistruzione. Il film una bomba: nel gran finale Gaghan tira in ballo affaristi di ogni genere, servizi segreti che progettano stragi a tavolino, Bush. Sono cose che si sanno, ma vedersele spiattellate in faccia fa un altro effetto.

…"Syriana" is an endlessly fascinating movie about oil and money, America and China, traders and spies, the Gulf States and Texas, reform and revenge, bribery and betrayal. Its interlocking stories come down to one thing: There is less oil than the world requires, and that will make some people rich and others dead. The movie seems to take sides, but take a step back and look again. It finds all of the players in the oil game corrupt and compromised, and even provides a brilliant speech in defense of corruption, by a Texas oilman (Tim Blake Nelson). This isn't about Left and Right but about Have and Have Not…
…I think "Syriana" is a great film. I am unable to make my reasons clear without resorting to meaningless generalizations. Individual scenes have fierce focus and power, but the film's overall drift stands apart from them. It seems to imply that these sorts of scenes occur, and always have and always will. The movie explains the politics of oil by telling us to stop seeking an explanation. Just look at the behavior. In the short run, you can see who wants oil and how they're trying to get it. In the long run, we're out of oil.
First the title. Syriana, apparently, is a term used by foreign affairs experts in Washington think-tanks to describe a possible realignment of the Middle East while playing power games and experimenting with new scenarios. Stephen Gaghan, the writer-director of the film, intends it to work more ironically, as a commentary on 'the fallacious dream that you can successfully remake nation-states in your own image'. His movie is a complex thriller about the secret working of politics of a kind established in the 1960s by John Frankenheimer in America and Francesco Rosi in Italy. In particular it recalls Rosi's The Mattei Affair, an inquiry into the mysterious death in a 1962 plane crash of Enrico Mattei, the left-wing boss of Italy's state-run oil corporation who trod on the toes of the Mafia and international business cartels. Rosi chose to use a complicated series of flashbacks so that the film's elliptical style reflected the complexity and ambiguity of its subject…

First the title. Syriana, apparently, is a term used by foreign affairs experts in Washington think-tanks to describe a possible realignment of the Middle East while playing power games and experimenting with new scenarios. Stephen Gaghan, the writer-director of the film, intends it to work more ironically, as a commentary on 'the fallacious dream that you can successfully remake nation-states in your own image'. His movie is a complex thriller about the secret working of politics of a kind established in the 1960s by John Frankenheimer in America and Francesco Rosi in Italy. In particular it recalls Rosi's The Mattei Affair, an inquiry into the mysterious death in a 1962 plane crash of Enrico Mattei, the left-wing boss of Italy's state-run oil corporation who trod on the toes of the Mafia and international business cartels. Rosi chose to use a complicated series of flashbacks so that the film's elliptical style reflected the complexity and ambiguity of its subject…

Le film qui en résulte, reste tout de même assez compliqué, et par moments difficile à suivre, tant les destins de nombreux personnages sont en jeux, chacun jouant souvent un double jeu. Cependant, grâce à un casting impeccable, Stephen Gaghan réussit son pari : donner une idée de la perversion d'un système où « la corruption est la raison pour laquelle on gagne », et où le meurtre n'est qu'un outil vers un objectif à atteindre. Saluons pour finir la prestation de Matt Damon, et surtout celle de George Clooney, déjà récompensé d'un Golden Globe du meilleur second rôle masculin, qui a pris de nombreux kilos pour interpréter cet agent retors qui subit pressions et tortures, et qui pourrait bien finir « aux urgences » avant la fin du film. Mais à vous de le découvrir.

…Ciertamente no es una película "fácil" en ningún sentido, pero debemos reconocer que, no siendo la "dificultad" aparente de algunas películas más que una muestra de la fatuidad de sus directores, tampoco porque una película no sea fácil, es decir, requiera una participación mental activa del espectador, ello tampoco puede, en modo alguno, tacharse como defecto reprobable en la valoración del conjunto.
En resumen, abreviando, altamente recomendable.