“Contrariamente a
quanto si credeva negli anni Settanta1
i primati aggrediscono non solo per difendersi, nutrirsi,
accoppiarsi, ma anche per circoscrivere il territorio,
stabilire domini di possesso su beni e risorse, mantenere
stabili le strutture sociali e le gerarchie dei gruppi.
Forse anche solo per il ‘naturale’ piacere ‘culturale’
di uccidere.”
Antonino Pennisi e Alessandra
Falzone2
Mettendo a confronto due recensioni del film «Dunkirk» di
Christopher Nolan, uscito da poco nelle sale, quella di Goffredo Fofi3 e quella di Wu Ming 4 si è sottoposti a un particolare effetto
straniante dovuto a due critiche opposte ma con un forte presupposto comune:
l’estrema preoccupazione per un mondo che sempre più va perdendo la propria
vocazione umanistica a discapito di un sempre più devastante dominio della
macchina e dell’antiumano. Se per Fofi il film ha una “visione antiumanistica (e antipacifista)” per Wu Ming 4 esso esemplifica la lotta
dell’”umanesimo contro l’antiumano”. Un giudizio talmente contrastante che
in un commento a Wu Ming viene detto di Fofi: “uno che mi sembra
aver visto un altro film rispetto a noi…”. Personalmente dopo aver letto le due
recensioni non ho saputo resistere e ho ceduto alla tentazione di andare a
vedere questo film di guerra, un nuovo war movie dopo le ubriacature del genere
durante gli anni Sessanta coi loro ultimi ponti, battaglie di giganti e epiche
storie di gente comune trasformate in guerrieri onnipotenti o cacasotto a
seconda dei casi. E in fondo non ne sono rimasto deluso. Un esaltante ritorno
ai miei amati soldatini d’infanzia, con le loro guerre e immaginifiche crudeltà
varie. L’unico problema è che in questo film, forse, si è esagerato un pochino.
Il ‘naturale’ piacere ‘culturale’ di uccidere qui rischia di pulsare nelle
nostre vene bypassando in toto quei meccanismi ‘culturali’ altrettanto
‘naturali’ che ci permettono di assistere a uno spettacolo di mattanza con
(almeno in parte) un auspicabile distacco critico. Le guerre, anche nei film
più noiosamente patriottici o esplicitamente guerrafondai di una volta non
potevano non suscitare un qualche giudizio; un pensiero su ciò che si stava
vedendo – e, in una qualche misura, una certa pietas – alla fine di tutte
quelle distruzioni e di quei morti, in un modo o nell’altro, non poteva non
trasparire. «Dunkirk» invece è un insidioso veleno, molto efficace, che non
poteva ingannare giusto una vecchia volpe come Fofi, ma evidentemente non ha
risparmiato Wu Ming 4 né gli altri che sono intervenuti nei vari commenti. Non
è in questione la collocazione del regista a destra piuttosto che a sinistra,
né quali siano state le sue intenzioni (il suo presunto voler destoricizzare)
quanto piuttosto la negazione assoluta della storia, di qualunque storia. Ci
sono uomini, molti uomini, intrappolati in un buco, un cul de sac; vanno
salvati, riportati a casa (casa o patria la questione non riesce a
entusiasmarmi) per rigettarli poi nella lotta, nella riconquista della libertà
minacciata. Come sono finiti lì, perché, a causa di chi e di cosa non ci deve
interessare, ora non è il tempo delle domande ma dell’agire, del fare la cosa
giusta, ed è qui che si vedrà chi ha le palle! È la morale clinteastwoodiana
dell’eroismo umano inscritto in alcuni DNA e non in altri, indipendentemente
dalla loro estrazione sociale, dai quarti di nobiltà o altro. Sono eroi il
soldato protagonista, il vecchio lupo di mare con suo figlio, il ragazzino che
muore, il pilota dell’Air Force. Lo sono e lo saranno sempre, eroi non certo
per caso. Gli altri fluttuano, un po’ vigliacchi, un po’ coraggiosi, comunque
umani, da difendere nelle loro debolezze anche con pietose bugie (come quella
al soldato che per la sua paura ha causato la morte del ragazzino). E poi? Poi
non c’è nessun altro. Gli altri, i nemici non compaiono mai (solo le
conseguenze delle loro azioni). “Sono del tutto invisibili e
disincarnati. Non è dei tedeschi che vuole parlarci Nolan. Né di altri nemici
particolari. Ciò che mostra è l’umanità sotto minaccia”. L’umanità, cioè noi, non gli altri!
L’obiettivo è “restare umani (…) resistere alla paura
e impedirle di trasformarci in bestie. Cioè nei nazisti di noi stessi”. Il bestiale è ricacciato negli altri che
sono tornati bestie, perché il bestiale è quel passo indietro che, per chi non
è eroe (e qui gli eroi sono da intendersi evidentemente per soggetti evoluti
biologicamente in modo definitivo) è sempre una possibilità in agguato. Gli
eroi diventano così il baluardo, il manipolo di sentinelle che ci difende dal
possibile regresso; in definitiva ci difende dalla natura. Peccato che nella
realtà evolutiva siano proprio gli animali (escludendo in parte proprio i
primati più vicini a noi) a comportarsi meno “bestialmente”. In loro agiscono
meccanismi istintivi, a salvaguardia dell’intera specie, che li inibiscono a
infierire su un conspecifico (cioè della stessa specie) che si sia arreso. Così
come possono trovarsi a doversi sacrificare, sempre per il bene della specie. È
al contrario proprio la nostra evoluzione che ci allontana da tutto questo e
mischia pericolosamente le carte, facendo sì che il nostro “umano” contenga
anche il “disumano”. Quell’ “antiumano” che noi consideriamo tale per motivi
valoriali, storicamente determinati, mai definiti una volta per tutte, e
‘naturali’ nella misura in cui siamo capaci di considerare natura e cultura
indissolubilmente legate tra loro; sempre che adottiamo una visione
materialistica e non dualistica della natura umana. Altrimenti, è ovvio, ci
addentriamo in un discorso religioso e, con tutto il rispetto, qui taccio!
Rimanendo sul ramo incerto su cui siamo seduti da alcuni secoli in qua, quello
della ragione (da non intendersi come unico possibile strumento di conoscenza
ma da cui non possiamo abdicare senza conseguenze catastrofiche) è essenziale
interrogarci, oggi più che mai, sulle insidie di una visione essenzialista su
ciò che definiamo umano piuttosto che antiumano. Barricarci su una presunta
natura umana fissa, poco importa se storicamente raggiunta o aprioristicamente
precostituita, vuol dire fare una scelta di campo, decidere chi sta di qua e
chi di là. Inevitabilmente ricadiamo sul noi e gli altri, in cui il noi si basa
sulla necessaria negazione dell’altro da noi. Ma come può succedere questo dopo
tanto lavoro critico, fatto dalle generazioni passate, sulle pretese
identitarie, sugli antropocentrismi, sulle ideologie escludenti ecc. «Dunkirk»
ce lo mostra: con la liquidazione della storia. La guerra diventa un
videogioco; le masse che vi partecipano, inermi e passive, reagiscono solo per
ripararsi dalle bombe o per esultare alla vittoria degli aerei amici con un
tifo da stadio;5 gli eroi corrono, si muovono, si salvano
attraversando spazi da realtà virtuale. Nulla che possa ricordare le nostre
esperienze reali, molto più povere ma concrete della nostra quotidianità. Alla
fine l’eroe la cacca non la fa, inutile resto di un mondo ancora troppo
concreto da cui allontanarsi in tutta fretta. “La musica
roboante e invasiva, ossessiva, di Hans Zimmer, più sound che musica” (Fofi) fa il resto. La storia, la nostra
storia, quella su cui si fonda, nel bene e nel male, la nostra civiltà
occidentale, qui diventa zavorra di cui sbarazzarsi; d’altronde come ricordava
Marc Bloch, poco prima di morire fucilato da concreti, molto reali e visibili
nemici tedeschi: “anche le civilizzazioni, senza dubbio,
possono mutare. Non è di per sé inconcepibile che un giorno la nostra si
allontani dalla storia”6.
Nota 1: Erich Fromm, Anatomia della distruttività umana, 1973.
Nota 2: A: Pennisi e A. Falzone, Il prezzo del
linguaggio. Evoluzione ed estinzione nelle scienze cognitive. Il Mulino, 2010 p. 248
Nota 5: In un film del 1964 «Week end a Zuydcoote» di Henri
Verneuil, le masse inermi dei soldati hanno una reazione più squisitamente
“umana”, e senza coro da stadio, quando vedono scendere col paracadute il
pilota tedesco che poco prima li aveva mitragliati: alzano i loro fucili e si
fanno la loro giustizia sommaria. Chi di noi al loro posto avrebbe fatto
altrimenti? Soliti eroi a parte ovviamente. Ma chi ci dice poi che quest’ultimi
siano così autenticamente umani?
Nota 6: Marc Bloch, Apologia della storia o Mestiere di
storico, Einaudi,
2009, p. 8.
Molto bene, condivido largamente ! Il film di Nolan è un buon film ma difetta di un chiaro punto di vista etico ed estetico.
RispondiEliminaSi veda in proposito, se è lecito citarsi, il mio blog cinemacinemadipaolo.blogspot.com
non credo si possa chiede a un regista di fare un documentario, sono due cose diverse.
Eliminaintanto ti ho messo nella lista dei blog (blog roll, mi sembra la chiamino)