siamo nel limbo prima della morte definitiva.
nell'ospedale, dove quasi tutto il film è girato, convivono i malati, compresi quelli in coma, che sono i più vicini alla morte.
le anime dei malati in coma vagano, si conoscono, addirittura provano sentimenti che confinano con l'amore.
il film è questo, anime in volo, senza peso, come i personaggi dei quadri di Chagall, in attesa di uno sviluppo, quasi sempre tragico.
non c'è molto da ridere, solo da soffrire e sperare insieme ai personaggi.
un film da non perdere, con meno copie di Biancaneve e Follemente, ma un ottantina di cinema lo programmano, per fortuna.
buona (chagalliana) visione - Ismaele
È un film su cui aleggia lo spettro della
morte, certo, la linea verticale della malattia. E soprattutto il terrore della
perdita definitiva, quello della memoria che trascolora nell’indistinzione
dell’oblio. È l’affanno del protagonista, che vuole lasciare una traccia
impossibile nel suo nuovo amore e che rivede in questa condanna alla
dimenticanza il riflesso di suo padre in riva al mare. Ed è significativo che
Mastandrea dedichi il film al padre Alberto, scomparso nel 2014, a riprova di
come questi argomenti non siano delle semplici tesi astratte. Eppure, nonostante questo, non si tratta di un film
lugubre, funerario. Tutt’altro. Sin dalla scena iniziale, in cui Mastandrea
attraversa gli spazi dell’ospedale in un movimento continuo che sembra
suggerire le traiettorie di un musical, il film è animato da uno slancio, da
un’urgenza di vita irriducibile. Quando nell’ultima scena, il medium involontario Giorgio Montanini chiede “Da dove comincio?”, Dolores Fonzi, da poco
risvegliatasi dalla sua bolla, risponde: “Conviene sempre dalla fine”.
Perché l’epilogo è fondamentale, sì, ma poi occorre risalire nella storia,
ritrovare tutto un flusso infinito di cose, di sensazioni ed emozioni, di
sentimenti accolti o fuggiti. È chiaro che in questo flusso si possono perdere
le coordinate, gli equilibri, il baricentro. Ma è così che va la vita, forse.
Va oltre la possibilità e la volontà di un controllo, oltre le difese e le
abitudini. Chiede ogni tanto, l’assunzione di un rischio, un salto in lungo che
assomiglia a un salto nel vuoto. Anche con l’affanno, con la disperazione, la
paura. Qualcosa da fare, anche se non si sa esattamente il motivo, solo per
rispondere all’imperativo di un sentimento. Ed è esattamente il rischio che si
prende Valerio Mastandrea. Il suo film può mostrare ingenuità, difetti,
impasse, giri a vuoto, ma ha il coraggio e la sensibilità di liberarsi, di
volare in alto. Di tornare a vivere a cuore aperto.
…Il "Ghost" di Valerio Mastandrea è in balia del fato, di
risvegli improvvisi ed indesiderati, di morti inaspettate e irragionevoli ma
ciò che più mi ha colpito dell'interpretazione che il film dà dei misteri
dell'esistenza è la forza con cui il sentimento irrompe nei cuori. L'amore
scardina convinzioni ed abitudini e spinge a spiccare il salto anziché fermarsi
per paura sulla linea bianca dello stacco, linea dietro alla quale il piede
dovrebbe inarcarsi lasciando esplodere, finalmente, l'energia di un balzo.
Quante volte vediamo il "Lui" di Mastrandrea provare qual gesto e poi
fermarsi di fronte alla sabbia, intimorito dalla felicità dell'abbandono?
Personalmente ho apprezzato questo film sia per la delicatezza
dell'autore sia per motivi personali. Diciamo pure che mi sono sentito in coma
per troppi anni, incapace di scrollarmi di dosso abitudini e illusorie certezze
per spiccare il salto nel vuoto. Salto che infine è arrivato, elastico ed
energico, nel momento in cui un'ospite improvvisa si è impossessata della mia
"stanza d'ospedale" mettendola a soqquadro. Sentire il proprio animo
volare in una danza di emozioni è stato un attimo ed è ancora emozionante dopo
tanti anni.
Il "Ghost" di Valerio Mastandrea ha la sua Whoopi Goldberg,
un medium che lavora in ospedale e mette il mondo dei vivi in comunicazione con
quello dei "non vivi". Il suo compito è fondamentale nel racconto,
fondamentale come l'innamoramento, che altrettanto irrazionale ed inspiegabile
congiunge gli amanti in un solo essere, senza logiche apparenti, senza
spiegazioni plausibili, senza perché rasserenanti. L'amore obbliga a giocare a
carte scoperte e ribaltare le regole della ragione. "Nonostante" ci
prova con il linguaggio simbolico dell'uomo che muore all'apatia per
risvegliarsi, si spera, all'interno della dimensione intima ed accogliente di
una storia d'amore. La speranza c'è ed è per tutti.
…A partire da una
trama non troppo originale, il film racchiude tutta la brillantezza nel modo
fantasioso di rappresentare la morte. Quando gli alter ego attivi dei personaggi
in coma si avvicinano a qualcuno che sta rischiando di morire vengono travolti
da una bufera di vento. A quel punto devono ancorarsi
saldamente a qualcosa o qualcuno, ovvero tenersi forte alla vita.
Il ricorrere delle
folate di vento assomiglia agli estratti di musica classica che, in Figli,
venivano fatte risuonare quando i neonati iniziavano a piangere disperatamente.
La trama realistica, con questa trovata, si fa fantastica – a
tratti onirica. Come direbbe Dino Buzzati, attraverso la fantasia “si
intensifica il concetto” della morte e della vita. Una versione della
copertina del film, non a caso, vede Mastandrea tenere salda Fonzi che fluttua
in aria, imitando il quadro La passeggiata di Marc Chagall.
È un’immagine vincente perché esprime la commistione tra concretezza reale e
fantasia impossibile che dà la cifra più brillante e vincente a Nonostante. Un
approccio poetico alla narrazione della morte, che fa sorridere
anche quando sta accadendo qualcosa di propriamente triste…
…Il registro espressivo si apre così a una serie di
libertà che altrimenti sarebbe stato più arduo maneggiare, anche se sotto il
punto di vista strettamente narrativo Mastandrea e il suo co-sceneggiatore
Enrico Audenino (già al lavoro su Ride) scelgono
di non allontanarsi mai dalla prassi, e soprattutto dalle regole. Ed è questo
uno degli elementi che contribuiscono ad appesantire la visione di Nonostante: se la scelta della classicità permette
una pulizia del racconto esemplare, spingendo lo
spettatore verso un canovaccio che già conosce, e può dunque affrontare
semplicemente, la pressoché totale mancanza di scarti rendono il film
prevedibile, senza che la verve di un gruppo di attori affiatato sia in grado
di ravvivare l’interesse per vicende che si sa già dove andranno a parare, in
un modo o nell’altro. Anche l’irruzione in scena di un personaggio femminile
che fa breccia nel cuore di Mastandrea, costringendolo per la prima volta a
riflettere con serietà sul suo ruolo “inanimato”, appare meccanico, come se
fosse indispensabile oliare gli ingranaggi di quando in quando. Lo certifica
anche la necessità di ricorrere a una figura pienamente viva, un uomo (Giorgio
Montanini) che chissà perché e per come riesce a percepire la presenza di
queste anime in attesa, e a parlarci: deus ex machina fin troppo esibito,
nonostante un ingresso in scena roboante – canta al microfono Non voglio mica la luna, portata al successo da
Fiordaliso – si tramuta a sua volta in un personaggio ovvio, cui verrà
riservato il compito che è poi l’interrogativo dell’intero film: cosa lasciano
dietro di sé le persone che non sono ancora morte ma non possono relazionarsi
con i viventi? In questa riflessione sulla morte, sulla sua (non) accettazione,
e su cosa significhi “sentirsi vivi” Mastandrea non riesce a infondere la vita,
se non dovendo ricorrere alle sue arcinote qualità attoriali. Si percepisce
l’apprezzabile volontà di ricercare una leggiadria in aperta opposizione
all’ambientazione ospedaliera, e se si fosse osato di più attraverso il
grottesco forse alcuni dei passaggi a vuoto del racconto sarebbero stati
compensati. Si ha l’impressione che Mastandrea possegga un proprio sguardo, o
sia almeno agitato da sussulti e ossessioni non necessariamente conformi alla
prassi, ma deve ancora trovare la quadra del proprio discorso espressivo, tra
uno svolazzo poetico e una battuta sapida.
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