giovedì 20 marzo 2025

La città proibita - Gabriele Mainetti

torna Gabriele Mainetti al cinema, con un film diverso dagli altri, lasciando dubbiosi molti, al cinema l'hanno visto in pochi, finora.

il film è ricco di azione, non fa annoiare mai, ed è anche un film d'amore, di amicizie, di vendette, di padri e figli, di tradimenti, di tradizioni, di passato e futuro.

il protagonista si chiama Marcello (come Mastroianni), lavora in cucina tutti i giorni nella trattoria romana di famiglia, e si trova implicato in una storia inattesa, più grande di lui.

la ragazza cinese che appare da un giorno all'altro (si chiama Mei) lo costringe a scegliere da che parte stare, e Marcello piano piano capirà tutto, come noi.

La città proibita merita molto, è un film a rilascio lento (se si può dire), lo si capisce dopo qualche giorno.

da non perdere, nessuno se ne pentirà.

buona (avventurosa) visione - Ismaele


 

 

…il regista si è ulteriormente raffinato ed evoluto nello stile, cosa che non credevo possibile. Basta solo vedere la prima scena in cui Mei, adulta, va in cerca della sorella, e l'intelligenza con la quale viene mantenuta l'illusione che il personaggio non sia mai uscito dalla Cina, indispensabile veicolo del sorprendente shock culturale quando la porta del ristorante cinese si spalanca su una via dell'Esquilino. Non c'è una sola sequenza raffazzonata in La città proibita, ogni scena è costruita amalgamando alla perfezione luci, ombre, colori, scenografie e minuscoli dettagli, il montaggio confeziona scene di combattimento fluide e chiarissime e la musica, utilizzata con quell'adorabile originalità tipica del regista, è la ciliegina sulla torta. Potrei sproloquiare ancora per una decina di paragrafi su tutti i motivi per cui La città proibita mi sia piaciuto così tanto, ma farei degli spoiler fastidiosi e mi dispiacerebbe, perché ritengo sia un film da godersi con tutto l'ignorante entusiasmo del caso. Andate al cinema a vederlo, vi prego, alzateli quei culi pigri. Non fidatevi di chi, per cieco pregiudizio o antipatia nei confronti di un regista giovane, ambizioso e capace, lo ha stroncato senza appello prima ancora che uscisse, non urlate erroneamente alla "stronzata" solo perché si parla di kung-fu in Italia. C'è tanta di quella passione e competenza, in La città proibita, da poterci rendere orgogliosi di un regista come Mainetti. Andate, e spargete la voce!

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…nei 138 minuti che compongono La città proibita è ovvio quello che interessa a Mainetti, ed è quello per cui ha provinato chissà quanti esperti di arti marziali per trovare gli attori giusti in Yaxi Liu e Chunyu Shanshan, chiamando poi l'esperto Liang Yang (dopo che il team di Jackie Chan è stato accantonato per la mancanza di un inglese comune) e affidandosi al cameraman Matteo Carlesimo in modo da rendere vere, reali, esagerate e spassose le scene di combattimento, che non dovevano scimmiottare quelle orientali, non dovevano nemmeno essere occidentalizzate, ma dovevano essere originali e adattarsi a un contesto che prevede un mercato coperto, un ristorante affollato e una stazione di servizio dei treni…

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La Città Proibita riesce a mettere insieme una classica struttura di sacrosante furia vendicatrice (L’Urlo di Chen, insomma) e la piccolissima vicenda di quotidiana criminalità romana, con il miserabile strozzino interpretato da Marco Giallini, la trattoria a Piazza Vittorio gestita da Sabrina Ferilli e dal figlio Marcello (Enrico Borello) e la paura atavica che tutto questo venga inglobato e digerito da un mondo che ti si sta trasformando intorno e farà di te una reliquia, un dinosauro di un’epoca tramontata. 
La Roma messa in scena da Mainetti è una città in corso di metamorfosi, bellissima e vitale proprio per questo motivo. Una città che racchiude nel suo ventre l’intera umanità con tutte le sue facce.
Ora, è vero che Roma al cinema avrebbe anche rotto un po’ le palle (e lo dico da romana innamorata persa della propria città), ma è anche vero che non è la Roma raccontata da Mainetti quella di cui siamo stufi, perché una Roma così l’abbiamo vista davvero di rado…

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È una difficile integrazione spiegata al nostro Paese, che passa anche attraverso la cucina e i piatti che Marcello prepara, l’amatriciana amata dal padre insieme al ramen servito ad Annibale nel finale. Su questo palcoscenico il regista evidenzia due punti di vista diversi e li connota senza timore: da un lato Marcello e sua madre, che lavorano e convivono serenamente inseriti nella comunità, dall’altro Annibale che, da delinquente qual’è, sfrutta per pochi spicci gli immigrati e li disprezza, riconoscendo in loro un nemico da allontanare e da combattere. Paradossalmente, nonostante questa convinzione razzista, i tre protagonisti sono tra i pochi italiani visibili nel quartiere. 

È proprio in questa sostanza del film che risiede la coerenza di tutta la storia perché, insieme alla malavita cinese e alle sequenze di combattimento, tutto è sorretto dalla sincerità del messaggio e dall’esigenza che il regista sente nel trasmetterlo…

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La fotografia di Paolo Carnera contribuisce a plasmare un’estetica forte e coerente, in grado di distinguere a livello visivo tra gli ambienti cinesi e quelli romani, con forti accelerate nelle sequenze di combattimento, tra le migliori viste nel cinema italiano. E se La città proibita si accende improvvisamente nelle scene di azione, è nell’inseguire in modo ostinato le dinamiche e le atmosfere del mélo che perde di intensità, soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra Giallini e Sabrina Ferilli e un flashback tutt’altro che necessario. Un aspetto che non si era mai fatto notare nel cinema di Mainetti, probabilmente da rintracciare nel cambio in fase di sceneggiatura, da Guaglianone alla coppia di impostazione televisiva Bises-Serino. Restano le ottime interpretazioni dei due giovani Liu e Borello, un’attenta mappatura cartografica della città e soprattutto la visione sempre sorprendente dell’autore, capace di sperimentare con generi e registri come nessun altro in Italia.

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