martedì 25 dicembre 2018

Sleuth (Gli insospettabili) – Kenneth Branagh

solo due (bravissimi) attori, Michael Caine e Jude Law e un testo di Harold Pinter, regia di Kenneth Branagh.
e una terza persona, che non vediamo, la donna di entrambi, che sta arrivando.
lei è l'oggetto del contendere dei due, e alla fine ne farebbero a meno entrambi.
dialoghi straordinari e tante sorprese.
due ore ben spese, promesso -Ismaele


Qui il film completo, in italiano



Perché un simile gioco di specchi, temi e allusioni “reggesse” senza risultare prolisso era necessaria una squadra di prim’ordine. Cosa questa che l’opera di Branagh ha decisamente avuto. Basato su una magnifica piéce di Anthony Shaffer divenuta un film diretto da Mankiewicz nel ’72 con Laurence Olivier e Michael Caine (nel ruolo che oggi è di Jude Law), lo script di Sleuth ha subito la riscrittura del Premio Nobel Harold Pinter. Con uno sceneggiatore simile è evidente che parlare di remake diventa riduttivo. Si pensi inoltre all’ottima regia di Kenneth Branagh che ha giocato di semplicità e minimalismo, nonché alle eccelenti interpretazioni dei due attori protagonisti. Se del talento di Michael Caine si è ormai detto tutto ed è conclamato, non si può fare a meno di restare colpiti invece dalla bravura di Jude Law. Con la sua interpretazione di Milo Tindle fatta di fascino sessualmente ambiguo ibridato di fragilità e arrogante opportunismo (del tutto diversa da quella di Caine nel film del ’72), il giovane attore inglese è decisamente arrivato alla sua consacrazione attoriale.

La grossa novità del suo "Sleuth - Gli insospettabili" sta nel testo teatrale riadattato per l'occasione dal Premio Nobel per la Letteratura Harold Pinter. Nell'adattamento troviamo tutto il teatro del drammaturgo inglese, visto che la storia di partenza viene sintetizzata e asciugata in un dialogo a due tutto giocato nell'abitazione di Wyke, un dialogo che è un baratro di parole ed un vortice di retorica distruttiva, di frasi assassine e di intensa e cerebrale manipolazione psicologica, un gioco a due sottile e raffinato.
Se il testo di Pinter è quanto di più teatrale ci abbia regalato il cinema degli ultimi anni, dal canto suo Kenneth Branagh regala respiro cinematografico alla storia, cercando in ogni modo di trovare una regia stimolante che sappia al contempo raccontare e stupire per le sue trovate. Non sempre il gioco di Branagh funziona, ma il suo è un lavoro fatto con grande impegno, e questo si nota: basti guardare le inquadrature dell'incipit oppure tutto il gioco metacinematografico con le telecamere di sicurezza.

Michael Caine regge con grande professionalità i ritmi forsennati della pellicola, ma Jude Law (forse penalizzato da un look decisamente ridicolo) non riesce a tenere il passo con il vecchio leone e, spesso e volentieri, pur regalandoci un'interpretazione intensa e diversa dal solito, non riesce a tenergli testa.

E' un film a due, un palcoscenico per le istrioniche prove di Caine e Law. Sir Michael è come sempre sublime, e gareggia abilmente nel confronto a distanza con Laurence Olivier, decretando un sostanziale pareggio, per quanto lo stile dei due personaggi sia radicalmente cambiato: più sormione e apparentemente divertito l'originale, più silente e macchiavellico quello di Caine. Le smorfie di Andrew, o anche solo i penetranti sguardi nei momenti di silenzio, sono un vero piacere per lo spettatore. La più grande scommessa di tutto il progetto era forse la presenza di Jude Law, attore fino ad oggi interprete di prove incostanti. Pienamente vinta, visto che, pur dimostrandosi a tratti fin troppo eccessivo e sopra le righe, il buon Jude propone una prova potente, donando al suo personaggio i giusti aliti di schizzata follia, dimostrando come fino ad oggi le sue qualità d'attore non siano state pienamente sfruttate. Il tutto si trasforma in una lotta titanica e primordiale tra due uomini per il possesso e l'amore di una donna, ma non basata sulla mera violenza fisica o la classica scazzottata di paese, bensì sul puro intelletto, in un gioco perverso e matematico di cervelli che deve a tutti i costi avere un vincitore. Come dice Milo a un certo punto "Tu hai vinto il primo set 6 a 0, ora tocca a me". Una sfida mortale senza esclusione di colpi, corporei o emotivi. E' un film che manipola lo spettatore, gli fa credere A, quanto la realtà poi si traduce in Z. E le sorprese non mancheranno, poichè si susseguono incalzanti una dietro l'altra senza nemmeno un minimo calare di tensione. Ottanta minuti (a dispetto dei 130 dell'originale, ed è un peccato molte scene cult dell'originale siano state tagliate) da vivere mozzafiato, senza esclusione di colpi. A chi lamenta una certa mancanza d'azione, se non in pochi disparati istanti, va fatto notare che la vera tensione è tutta nei dialoghi e nei volti dei due protagonisti, capaci di inquietare e spaventare più di qualsiasi violenza. Un gioco al massacro perpetrato tutto all'interno (e per breve tempo anche all'esterno) della tecnologica villa di Andrew, che diventa la terza protagonista del film, con i suoi ambienti cupi tendenti al blu, e scarni nel mobilio come si fosse in un deserto di corpi e anime. Per questo grande merito alla fotografia, capace di incutere quel giusto senso di oppressione che una storia del genere meritava. Lo stesso si può dire per la colonna sonora, ottenebrante e mefistofelica, capace di donare una forte inquietudine tra gli accesi scontri verbali dei due uomini. La regia di Branagh, e non è una novità, è sobria ed elegante, con grande attenzione ai dettagli e alle inquadrature, che si ripetono a tratti per far scorgere indizi sulla trama, e di grande impatto scenico, dal sapore tipicamente teatrale ma che ben si adatta al grande schermo. Rispetto alla pellicola di Mankiewicz vi sono molti più silenzi, a discapito di dialoghi sparatissimi al fulmicotone, e il finale con riferimenti a una presunta omosessualità dei due contendenti forse stona un po', ma, pur trovando svariate differenze, il senso dell'originale è rimasto intatto. Non era facile aggiornare e reinterpretare un classico del cinema, e pur non raggiungendone i livelli, questo remake del nuovo millennio ne esce in maniera più che degna, e forse permetterà a nuovi spettatore di riscoprire anche la pellicola del '72. Perchè i remake, se fatti bene, servono anche a questo.

non è il finale che conta, è lo script di Pinter che importa perché è di rara bellezza, di sofisticato acume e velenosa ironia. Il sarcasmo che i due gentiluomini si scaricano addosso con la fredda gentilezza delle persone perbene è di magistrale efficacia drammatica, dialoghi secchi come mazzate, umorismo di grande raffinatezza e sottigliezza. Tenuti a distanza dall’overacting, Caine e Law si rendono quasi consci della macchina da presa di Branagh, traslata dalla realtà alla finzione dalle decine di telecamere che costantemente riprendono la scena, registrandola, diventando così occhio partecipe e fredde testimoni degli eventi che si svolgono nel teatro del massacro della lotta di classe, nel costante vilipendio delle reciproche virilità, esondando nell’omosessualità (ab)usata anch’essa come arma nei confronti del rivale, sfora nell’umiliazione sado-masochistica che prende la mano e muta il tutto in una commedia nera del grottesco, storia frammentata nei suoi stilemi e reimpastata follemente come sono reinventate continuamente le identità dei due prim’attori. 
Una sorpresa, forse il film dell’anno, tecnicamente e formalmente ineccepibile, asciutto e dotato di uno stile di grande impatto, si esce divertiti e sorpresi e di questi tempi non è affatto poco.

La storia: il ricco e maturo scrittore di gialli Andrew Wyke (Michael Caine) chiama nella sua villa settecentesca, ma con interni che sembrano uno showroom di design e arte contemporanea, il giovane attore Milo (Jude Law), l’amante di sua moglie, colui che gliel’ha portata via per sempre. Milo gli chiede di divorziare, Andrew contrattacca con una proposta: ruba i gioielli di mia moglie, io potrò intascare i soldi dell’assicurazione e tu, rivendendoli, potrai ricavare quanto serve a te e a lei per vivere da ricchi. Non è che la prima mossa di una complicata partita a due di inganni e controinganni, con continui rovesciamenti e colpi di scena, con identità che si mascherano e si rivelano a sorpresa. Chiaro che è un gioco al massacro, ma chi lo conduce? E chi è il carnefice e chi la vittima? Il testo, già tesissimo in origine, viene reso ancora più inquietante da Pinter. Michael Caine, che nel film di Mankiewicz era il giovane amante, qui si cala nell’altro ruolo, in un ulteriore ribaltamento e slittamento. Film presentato a Venezia e snobbato dai critici e accolto malamente anche dal pubblico. Peccato. Merita di più, molto di più.

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