lunedì 10 aprile 2017

L’altro volto della speranza – Aki Kaurismäki

dalla fredda Finlandia arriva un film che mostra una storia di esseri umani, ognuno ha un nome e una personalità.
quando uno lo conosciamo per nome è il primo passo per vederlo in faccia, non è un altro indistinto in una massa di altri, ma uno come noi.
un po' di cinema muto, come Chaplin o Tati, un po' di Vittorio De Sica e molto Kaurismaki, impastati insieme, e appare questo gran film, che tutti possono capire.
poi, per caso, la storia raccontata è una storia quotidiana, per milioni di persone e per gli europei, controlli, documenti, polizia, picchiatori e assassini europei per la purezza della razza.
e meno male che c'è Wikström, che dà prima un pugno e poi una mano, per non dire tutt'e due, a Khaled.
per non parlare del cane.
se avete capito poco di quello che c'è scritto sopra, come spero, è solo per farvi andare al cinema, ogni cosa sarà illuminata.
buona visione - Ismaele








Kaurismaki, con questa piccola favola realistica sul mondo di oggi, ci mostra che non tutto è perduto in questa Europa e nell’umanità. E il suo Khaled è un magnifico protagonista e una magnifica immagine di un mondo che non può arrendersi al capitalismo e alla violenza. Grande film da non perdere.

Con questo film, cerco di fare del mio meglio per mandare in frantumi l’atteggiamento europeo di considerare i profughi o come delle vittime che meritano compassione, o come degli arroganti immigrati clandestini a scopo economico, che invadono le nostre società con il mero intento di rubarci il lavoro, la moglie, la casa e l’automobile.
Nella storia del continente europeo, la creazione e l’applicazione di pregiudizi stereotipati contiene un eco sinistro. Ammetto serenamente che L’ALTRO VOLTO DELLA SPERANZA è per certi versi un cosiddetto film di tendenza, che tenta senza alcuno scrupolo di influenzare le visioni e le opinioni dei suoi spettatori, cercando al tempo stesso di manipolare le loro emozioni al fine di raggiungere questo scopo. Dal momento che tali sforzi falliranno immancabilmente, quello che ne resterà è, mi auguro, una storia onesta e venata di malinconia trainata dal senso dell’umorismo, ma per altri aspetti anche un film quasi realistico sui destini di certi esseri umani qui, oggi, in questo nostro mondo.
Aki Kaurismäki – Note di regia

L’altro volto della speranza è l’ultimo film di uno dei registi più generosi e simpatici che si conoscano, il laconico finlandese Aki Kaurismäki, che conferma le sue qualità e porta avanti il suo discorso, basato su una scelta radicale fatta una volta per tutte: stare dalla parte dei marginali, dei loser, di coloro che diffidano della società organizzata perché dominata dai potenti e dai loro servitori e nemica dei deboli.
La sua scelta è da sempre quella di stare dalla loro parte e di raccontare le loro disgrazie ma anche le loro grazie, la loro ostinazione nel cercare un mondo più giusto e nel tentare di costruirlo pezzetto per pezzetto, pervicacemente…
…In genere, si resta irritati o indignati di fronte ai tantissimi film e documentari che affrontano, anche in Italia, temi simili secondo le vecchie modalità paratelevisive e giornalistiche di una denuncia insincera e del ricatto sentimentale (e questo vale anche per tanta letteratura). A scrivere e a filmare non sono degli outsiders ma degli insiders preoccupati in primo luogo del loro successo e della loro carriera, e che sono membri di quella vastissima parte dell’umanità di oggi che, chi più chi meno, vive e guadagna alle spalle di chi soffre, mediatori indispensabili dentro un sistema economico aberrante, ammortizzatori del disagio, addomesticatori di possibili ribellioni.
Kaurismäki non è di questi, e non lo è anzitutto per la scelta del suo stile, per il modo in cui racconta, dettato dall’amore che porta ai suoi personaggi e dall’identificazione nelle loro pene. Non vuole commuovere, vuole capire e vuole aiutare a capire. Il finale di L’altro volto della speranza non è affatto consolatorio, non sappiamo se il protagonista sopravviverà alla coltellata del fascista. Non sappiamo cosa ne sarà delle migliaia e migliaia di persone come lui, in un’Europa decisamente frigida, decisamente egoista, con una sinistra molto ipocrita e molto di destra, e con una popolazione in cui abbondano i falsi buoni e quelli veri latitano, non agiscono.

Non rinuncia nemmeno questa volta al 35mm e con il consueto uso morbido della fotografia riesce a mettere in scena un mondo fuori dal tempo, sospeso fra le tinte olivastre degli interni e la desaturazione fredda degli esterni. Sottolineando l’impressione che i personaggi vivano in un universo costantemente in bilico fra speranza e rassegnazione. L’equilibrio simmetrico delle inquadrature e l’uso geometrico degli spazi, tende a costruire, inoltre, un estremo senso di oppressione, accentuato dalla reiterata presenza di elementi che definiscono lo spazio e incorniciano i personaggi: una porta, un oblò, un finestrino oppure lo schermo di una macchina fotografica, il bagagliaio di un camion o l’interno asettico di una cella di detenzione. Ed è forse in questo senso della misura, in questa strutturazione in levare degli elementi enunciativi, che sta la forza del cinema di Kaurismäki. Dare voce e dire la propria su un emergenza talmente abnorme che è impossibile da ignorare, ma farlo stando sempre un passo indietro, senza perdere la calma e la ragione. Laddove anche le fughe, le scazzottate e i litigi sono modulati dalla lentezza e da un agire quasi imperturbabile. Perché a volte le cose, a guardarle con freddezza, si può sperare di comprenderle meglio.

Con il suo stile inconfondibile, Kaurismäki alterna momenti drammatici a scene comiche e surreali. Il ristorante diventa spazio agito dai personaggi e isola astorica e atemporale, dove tutto può accadere. E quindi non ci appare strano che il cuoco sia trovato avvolto da ragnatele perché non sta lavorando o che pulisca un vetro che non c'è. Oppure che per rilanciarlo Wikstrom lo trasformi velocemente per un giorno in un ristorante sushi. L'inverosimile diventa parodia come in altre opere del regista finlandese (su tutte "Leningrad Cowboys Go America"). Ed è in questo contesto che Khaled non è più un diverso ma un simile. La messa in quadro essenziale - così come gli oggetti ridotti ai minimi termini - rendono la scena, più che spoglia, una visione metafisica hopperiana, dove la luce e le ombre riempiono gli spazi lasciati vuoti e i colori saturi e pastello rendono materici e tridimensionali attori e oggetti - grazie al grande lavoro di Timo Salminen, fidato direttore della fotografia del regista. E dobbiamo citare anche tutti gli inserti musicali, caratteristici di alcune opere di Kaurismäki, che rendono il film una ballata country dell'estremo nord con un utilizzo simile dell'intervento dei musicisti che si era già visto nel suo capolavoro L'uomo senza passato.
"L'altro volto della speranza", scritto e prodotto sempre da Kaurismäki, ha vinto l'Orso d'argento miglior regista al 67° Festival Internazionale del cinema di Berlino. Se proprio vogliamo trovargli un difetto, dobbiamo dire che in questo caso, più che aggiungere, assembla temi visti in precedenti opere già citate. Però lo fa con la consueta grazia e originalità di sguardo, ironia dissacratoria e umana pietas, che ci fa voler bene a questo grande e grosso artista della macchina da presa.


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