martedì 18 aprile 2017

A cavallo della tigre - Luigi Comencini

un poveraccio per una volta vuole fare il furbo, ma lo beccano subito, qualche anno di galera.
deve sopravvivere in quel mondo di umanità varia e di regole diverse dal quelle di fuori.
ma quello che sembrava un film come tanti poi comincia a volare, e diventa cattivissimo, senza sconti, e c'è poco da ridere.
attori bravissimi, Nino Manfredi e Mario Adorf sopratutto, ma anche Gian Maria Volontè non scherza.
e i sacrifici che si fanno per la famiglia sono inenarrabili, ci si accorgerà alla fine di cosa vuol dire, e anche di cosa significa a cavallo della tigre.
non privatevene, buona visione - Ismaele









Tra le commedie italiane "più avanti" degli anni '60. Comencini (che lo produsse in cooperativa con sceneggiatori e Alfredo Bini) sfrutta l'aggressivo script di Age e Scarpelli non in direzione grottesca (come accadrà poi a Scola), ma nel senso di un apologo malinconicamente (sur)realistico su un umanità sottoproletaria, che il boom non lo vede e semmai ne paga il fio. Manfredi è un infame burino Candide, impossibilitato antropologicamente a trar partito da ogni lezione. Adorf batte Volontè in verità e gigioneria. Brutto sporco e commoventemente cattivo.

Tra le perle perdute della commedia all'italiana, A cavallo della tigre è frutto di una cooperazione tra il regista, Luigi Comencini, gli sceneggiatori, Age, Scarpelli e Monicelli, e il produttore, Alfredo Bini. Pellicola d'ambiente carcerario in cui si mescolano amarezza e ironia, ha una forte valenza metaforica nella descrizione di un manipolo di disgraziati incapaci di comprendere com'è cambiato il Paese in seguito allo scoppio del boom economico. Una volta fuori dalle sbarre, questi sfortunati antieroi non pensano neanche di camuffarsi o di mescolarsi alla folla, ma camminano nel traffico, intanto aumentato a dismisura, con gli abiti lerci, riconoscibili ad occhio nella loro mancanza di integrazione. Siamo dalle parti di una commedia dello sradicamento e dell'inganno in cui persiste uno sbilanciamento irrecuperabile tra soggetto e traguardo, per cui tutto va nel verso sbagliato: gli sviluppi quantomai spietati della sceneggiatura beffano dall'inizio il personaggio di Nino Manfredi, le cui mosse portano al peggiore dei rovesci di fortuna fino alla paradossale accusa di aver architettato un piano di cui, in realtà, è la prima vittima. A differenza di assimilabili titoli in cui la vocazione al raggiro e alla truffa si ritorce, nel finale, contro il protagonista, A cavallo della tigre si sviluppa intorno al ritratto di un uomo naturalmente candido e senza nessuna possibilità di influire sugli eventi. Lo scriverà lui stesso all'avvocato nell'irresistibile memoria che funge da raccordo per tutta la storia: «Come dicono i cinesi? Ormai stavo a cavallo della tigre: cioè è pericoloso starci, ma molto più pericoloso scendere perché la tigre ti si mangia!».
Raccontato con accanita sicurezza, ignizioni grottesche e umorismo acre, è un film che preferisce il distacco critico alla partecipazione emotiva, lasciando lo spettatore libero di entrare in empatia con i vari personaggi. Oltre a Manfredi, in una delle sue interpretazioni più notevoli, ci sono anche un animalesco Mario Adorf, d'ora in poi habitué del cinema italiano, e un tagliente Gian Maria Volonté. Sfortunata commercialmente, è un'opera da riscoprire e da studiare a fondo…

Un capolavoro, c'è poco da dire. Straordinaria prova d'attori (film della vita per Adorf, indimenticabile Tagliabue) ma sopratutto sceneggiatura tra le migliori della commedia all'italiana, con pochissime concessioni alle aspettative dello spettatore. Da vedere e far conoscere.

Di episodio in episodio, prima dentro il carcere e poi in un paesaggio che ha cominciato a perdere d’identità, girovagando intorno a Civitavecchia, i quattro evasi si lasciano e si ritrovano dentro un altro tipo di carcere, da cui davvero non possono evadere. La loro indefinitezza e inadattabilità morale e sociale li porta al peggio e al meglio. E Giacinto, saputo della taglia che sta sulla loro testa di evasi, si fa denunciare dalla moglie ritrovata e dal suo nuovo uomo, per aiutarli nella sopravvivenza loro e dei suoi figli. Probabilmente è stata questa ambiguità ad aver determinato l’insuccesso del film, in un anno in cui l’economia andava forte e il progresso si scatenava. Era un’ambiguità troppo grande rispetto a quella dei Gassman del Sorpasso, dei Sordi di Una vita difficile, “cattivi” simpatici ma che il film giudica e punisce o “buoni” riscattati dai loro cedimenti e viltà da una nuova verginità sociale, “di sinistra”.
Piccola epopea sottoproletaria, e infine, a vederla oggi, quasi una fiaba senza tempo, A cavallo della tigre è un piccolo capolavoro che merita visioni e discussioni. La casa di produzione dei quattro grandi della commedia all’italiana avrebbe dovuto produrre, dopo A cavallo della tigre, L’armata Brancaleone, che potrà vedere la luce solo cinque anni dopo, e che avrà un successo clamoroso. Sia detto infine per inciso: i quattro autori venivano tutti e quattro, a quanto ricordo, da una tradizione socialista un po’ ottocentesca e non si muovevano in area comunista.

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