mercoledì 2 novembre 2022

La montagna sacra - Alejandro Jodorowsky

il terzo film di Alejandro Jodorowsky è un altro capolavoro, da vedere e rivedere, e rivedere ancora.

è ricchissimo di immagini, temi, storie, mille registi hanno visto questo film (rubando o citando qualcosa).

come privarsi di questo enorme serbatorio di Cinema?

buona (da ripetere, come scrivono sulle ricette mediche) visione - Ismaele

 

 

 

L’opera critica di Jodorwosky è sicuramente di grande fascino ed intrattenimento; il regista elabora un film che riesce a coinvolgere grandemente lo spettatore, dimostrandosi stimolante. Tuttavia la ribellione istigata appare in un primo momento debole, idealista ed altamente ingenua. La retorica Jodorowskyana si dimostra ridondante e irrealizzabile. Il viaggio alla scalata della montagna viene mostrato per tappe, fino a quella finale, il successo. Manca di spiegare come realizzare un simile viaggio, mancando solide basi e radici alla retorica filosocialista, di cui è consapevole. Ciò nonostante il genio di dell’artista cileno va oltre questa mera critica anticapitalistica. Svela la propria natura di prodotto filmico, e quindi illusoria, rivelando la prigionia della percezione e dei sensi dovuta alla falsità delle immagini e dell’arte. Il monito di Jodorowsky ora punta a liberarsi da quelle catene, svelare le illusioni e appropriarsi della propria umanità. Dimostra così una retorica più lucida e matura, che va oltre la mera e superficiale critica di un sistema mondo, ma dell’intero sistema mondo, facendone una sorta di meta-critica. Il messaggio di Jodorowsky è chiaro, non si può operare una critica o una rivoluzione nei confronti di un sistema politico-economico se prima non ci si libera dalle catene dell’oppressione dei sensi, bisogna disilludersi. 

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El Topo ebbe un successo underground inaspettato e piacque così tanto a John Lennon che lui e compagna (Yoko Ono) decisero di co-finanziare il progetto successivo di Jodorowsky, appunto La Montagna Sacra che a conti fatti rappresenta il film manifesto del regista cileno… Il film si può tranquillamente dividere in tre parti: una prima (stupenda) parte di puro weird, blasfema e oltraggiosa, che fa della metafora cristologica il punto di forza tra i soliti freaks, scelte ardite (le bambine/prostitute e l’utilizzo degli animali per esempio) e momenti unici in cui si rimane stupefatti davanti alla schermo… Si potrebbe (come sempre nel weird) stare a discutere di quanto sia frutto di un lavoro serio di Jodorowsky e quanto invece sia frutto della sua voglia di essere eccessivo, ma bisogna ammettere che alcune scene sono di una forza visiva straordinaria…
Arriva poi l’incontro tra il protagonista e l’alchimista (lo stesso Jodorowsky) che si consuma tra locations assurde, animali, movimenti di macchina circolari e inquadrature strane…
C’è poi una seconda parte (la presentazione dei personaggi) di critica sociale dove, pur non mancando un tocco weird e dell’umorismo grottesco, si alternano cose riuscite (stupendo e anche plausibile il condizionamento dei bambini contro il Perù) ad altre trovate poco convincenti…
C’è infine una terza parte (il viaggio catartico) che è quella che mi è piaciuta di meno, malgrado il solito weird a profusione e qualche trovata eccellente (l’inutilità della ripetizione di un miracolo di Gesù per esempio), è troppo lenta e da l’impressione di trascinarsi a fatica…
Il finale (che potrebbe esaltare qualcuno) è indubbiamente riuscito, peccato che una cosa del genere l’avesse già pensata Mario Bava dieci anni prima ne I Tre Volti della Paura…
Naturalmente si sta parlando di un film affascinante, metaforico ed allegorico fino all’eccesso, surrealista e simbolista, eretico e folle, una vera e propria esperienza cinematografica, ma naturalmente si sta anche parlando di un film adatto a pochi (e onestamente chi ha messo uno due o tre non ho ben capito che film si aspettasse di vedere) assolutamente sconsigliato a bacchettoni o persone estremamente religiose…

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“La montagna sacra” dimostra la forza della rappresentazione di Jodorowsky. Le immagini simboliche proposte sono talmente tante che risulta praticamente impossibile comprendere tutto il film dopo una sola visione. E queste immagini sono immagini che restano, che non se ne vanno via così facilmente. Misticismo, alchimia, religione e una denuncia fortissima nei confronti della società moderna: Jodorowsky nega la possibilità di una logica visiva annullando le strutture tradizionali della narrazione. L’esperienza cinematografica si trasforma, allora, in un viaggio onirico e inconscio. È inevitabile che si perda il controllo, dovendo accettare l’impossibilità di ottenere una visione chiarificatrice dell’opera. Si può tentare di decodificare ogni singolo simbolo, ma non di comprendere la pellicola nella sua essenza più profonda; al posto che cercare un significato, è più facile accettare una spiritualità attraverso gli stati emotivi inconsci trasmessi dagli innumerevoli simboli e colori. Jodorowsky ci mostra la bellezza della sua “verità”: un insieme di numeri, lettere, figure dei tarocchi e allegorie che moltiplicano il senso di ogni azione. Realizzando una critica sociale, politica e religiosa, il regista parla della “violenza nell’arte”. È come se la violenza servisse ad arrivare ad un cambiamento. Il cinema per Jodorowsky diventa, allora, una missione.

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Guardare un film di Alejandro Jodorowsky non è un’operazione semplice. Innanzitutto, significa entrare nella mente del suo autore, scoprire la sua personale visione del mondo e dell’uomo. In secondo luogo, significa entrare in contatto con uno stile registico imprevedibile, surreale ed estremamente simbolico. Nel caso de La montagna sacra (1973) è necessario in tal senso compiere un grande sforzo dal punto di vista spettatoriale per comprenderne a fondo lo sviluppo e le ragioni, ma una volta svelato ciò che si cela al di là della mera apparenza diventa presto evidente il perché sia considerato il magnum opus del regista franco-cileno.

Volendo individuare una struttura al film, la trama può essere suddivisa nei classici tre atti, sebbene le regole tradizionali della narrazione vengano di fatto completamente sovvertite. Nella prima parte de La montagna sacra, Jodorowsky ci mostra il progressivo superamento dalla propria condizione di dissoluzione di un personaggio chiamato il ladro che assomiglia molto a Gesù Cristo. Dopo una serie di disavventure (come nel caso di alcune figure apparentemente religiose che lo inducono ad ubriacarsi per poi creare dei modelli di cera del suo corpo inerme raffigurante la crocifissione), il ladro raggiunge una torre nel quale risiede un alchimista, interpretato da Jodorowsky stesso. Nella seconda e nella terza parte del film, l’alchimista introduce al ladro alcune delle figure chiave che lo accompagneranno nel viaggio verso la cosiddetta montagna sacra, un luogo che potrà garantire loro l’illuminazione spirituale.

A giocare un ruolo fondamentale ne La montagna sacra sono lo strumento dei tarocchi, e nello specifico i tarocchi marsigliesi. «I tarocchi ti insegneranno a creare un’anima»: nel corso della sua preparazione, il ladro impara dall’alchimista alcune delle proprietà fondamentali di questi strumenti, che vengono di fatto presentati come simboli capaci di determinare con precisione l’essenza di ciascuna delle persone con le quali si recherà alla montagna sacra. Proprio il ladro ad esempio rappresenta la carta de Il Folle, che come spiega il regista stesso simboleggia la libertà totale, l’assenza di limiti e definizioni. La visione di Jodorowsky dell’arte dei tarocchi si allontana dalla concezione popolare e si avvicina al loro uso reale, dove il misticismo incontra l’introspezione psicologica: il tarocco come linguaggio ed espressione del presente, in grado di connettere il tutto attraverso «la danza della realtà», nella quale «il mondo danza attorno a te e ti dà ciò che cerchi»…

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Se podría decir que La Montaña Sagrada (The Holy Mountain, 1973), la película de naturaleza más episódica de la trilogía inicial de largometrajes surrealistas de Jodorowsky, por un lado constituye una profundización muy importante de su costado místico/ budista más estrafalario y semi fellinesco/ a lo Ken Russell, y por otro lado sintetiza su temple de “hombre orquesta” porque aquí llega al punto de desempañarse como director, guionista, productor, cocompositor de la banda sonora, diseñador de producción y vestuario, coeditor y actor, una multitud de tareas que para colmo se duplican porque hablamos de su película más cara a la fecha y con mayoría de capitales estadounidenses en lo que atañe al presupuesto. La trama sigue el periplo de un vagabundo conocido como El Ladrón (Horacio Salinas) que se hace amigo de un hombre sin piernas ni manos (Basilio González) que encuentra en la calle, lo que lleva a que ambos presencien un desfile militar con cuerpos de cabras crucificadas, burgueses arrodillados, fusilamientos varios, turistas deseosos de retratar todo con sus cámaras, algo de sexo en público y una representación de la conquista de México con camaleones como los indígenas y sapos como los europeos. Como su aspecto es similar al de Jesucristo, el protagonista termina siendo emborrachado por unos gordos vestidos de soldados romanos en pleno festín culinario para generar un molde con yeso de su cuerpo en una posición símil crucifixión y vender los Cristos resultantes, despertando la furia del muchacho y sus ganas de destrozar todo. El Ladrón eventualmente termina separándose del tullido cuando ve que de un obelisco anaranjado desciende una bolsita con oro que las personas parecen haber intercambiado por comida y de esta forma decide explorar el interior de la elevada construcción, donde encuentra a El Alquimista (el propio Alejandro), un especialista en el tarot y maestro espiritual, y su asistente morena (Zamira Saunders), en esencia un dúo que le enseña cómo el excremento se puede transformar en oro -símbolo de las mismas personas, por cierto- y lo termina aceptando como discípulo implícito y presentándole a siete hombres y mujeres muy poderosos que se corresponden con distintos planetas de nuestro Sistema Solar; así nos topamos con Fon (Juan Ferrara), un Venus que se dedica a la elaboración de productos cosméticos, Isla (Adriana Page), un Marte que fabrica y vende armas, Klen (Burt Kleiner), un Júpiter que comercializa arte para el jet set social, Sel (Valerie Jodorowsky, nada menos que la esposa del señor por entonces), un Saturno que fabrica juguetes bélicos, Berg (Nicky Nichols), un Urano que asesora a políticos en términos económicos y financieros, Axon (Richard Rutowski), un Neptuno jefe de un departamento de policía, y finalmente Lut (Luis Lomelí), un Plutón arquitecto vinculado -al igual que todos los anteriores- al capitalismo más hambreador, pusilánime, represivo, narcisista, maquiavélico y salvaje. Con El Ladrón representando a la Luna y El Alquimista y su ayudante al Sol y Mercurio respectivamente, los diez individuos incineran todo su dinero y dan inicio a una misión en pos de convertirse en un único ser colectivo para descubrir el secreto de la inmortalidad que aparentemente guarda un grupo de nueve maestros semi divinos en la Montaña Sagrada, ubicada en la Isla del Loto, desde donde dirigen nuestro mundo y a quienes se pretende “asaltar” para que revelen el secreto de la perennidad o la derrota de la muerte. Luego de atravesar diversos rituales y ceremonias de elevación sensorial y psicológica, el contingente llega a la isla y esquiva la trivialidad del Bar Panteón, fundamentalmente una fiesta en un cementerio organizada por quienes abandonaron la búsqueda de la Montaña Sagrada y ahora se dedican a la vanagloria egoísta, y de este modo El Alquimista insta a El Ladrón a aceptar el amor de una joven prostituta (Ana De Sade), que lo ha estado siguiendo junto a un chimpancé desde antes de siquiera ingresar al obelisco, y le explica al resto de su troupe que no existen los adalides de la inmortalidad, que están dentro de una película y que deben abandonar las ilusiones porque los espera la vida más allá de las tristes limitaciones comunales/ anímicas/ culturales impuestas. Si por un lado es indudable que el film funciona como un viaje espiritual alucinado e irreductible a cualquier interpretación literal porque de por sí es producto de un cúmulo de influencias artísticas, religiosas y mitológicas a nivel macro, igual de innegable es el hecho de que durante gran parte del metraje -prácticamente todo hasta la media hora final- Jodorowsky se despacha con una mega parodia que abarca una infinidad de tópicos candentes como por ejemplo el cristianismo, los turistas más bobos, la oligarquía capitalista, el genocidio/ conquista de América, el comercio y la banalización de la fe, la estupidización masiva, la apatía, la obsesión con el sexo, la cultura bélica, el clero como institución demacrada, el individualismo acérrimo y ciego, el nepotismo, el culto a la riqueza, la esclavitud moderna tácita, la artificialidad patética y bien falaz, el feminismo de derecha, el armamentismo, la alta y pequeña burguesía, la mercantilización de la infancia, el esteticismo más vacuo, el arte estandarizado y también el de elite, la hipocresía social, el condicionamiento político desde el mercado, la tecnocracia y la economía neoliberal, el aparato represivo, los profesionales y burócratas al servicio de la intelligentsia, los preceptos regresivos, desquiciados y siniestros de los susodichos, las drogas alucinógenas e incluso las promesas de sanación de gurúes y “mártires” que auguran el nirvana a los ingenuos e incautos que caen en la trampa y acceden a sus planes. Más allá del excelente trabajo en fotografía y música y la vuelta de los tullidos de siempre, los estigmas católicos y la crueldad al paso, la obra despliega todo el conocimiento místico/ oriental/ sufista/ cosmológico/ psicodélico del cineasta, ese que en comparación apenas si estaba sugerido en opus previos, y coloca en primer plano a ritos y ademanes de toda índole, basta recordar la extraordinaria secuencia del comienzo con el propio Jodorowsky reproduciendo una ceremonia japonesa del té ahora aunada a la presencia de dos señoritas rubias impasibles (las abstraídas por completo Leticia Robles y Connie De la Mora) que son peladas al ras delante de cámara, planteo que asimismo trae a colación intereses históricos del chileno como los doppelgängers más conceptuales que materiales, las escenografías y fondos circulares, la desacralización de la belleza occidental tradicional y la lógica de los extremos que se tocan, o más bien colisionan (hablamos de hermosura y fealdad, vida y muerte, control y libertad, delirio y razón, amor y odio, etc.). A la vez que denuncia la pretensión de los grandes políticos y empresarios de eternizarse y la avaricia de base que se oculta en el corazón de todos los seres humanos, Jodorowsky crea una fábula enigmática sobre una iluminación freak, enrevesada y antidemagógica que ofrece detalles exquisitos como la irreverencia de fondo de convertir a una encarnación prosaica de Jesucristo en un discípulo/ apóstol de Buda -o más bien, en un asceta apesadumbrado multidisciplinario- o como esa sátira durísima en torno a la policía, aquí conformada por unos eunucos de impronta robotizada, incapaces de pensar por su cuenta y adeptos a la brutalidad más morbosa. La Montaña Sagrada es sin duda uno de los ejercicios autoindulgentes más enriquecedores y majestuosos de la historia del cine, una alegoría coherente y sensata en pos de renunciar al yo para abrazar en cambio una idiosincrasia colectiva, alejada de las miserias individuales y los pesos muertos, y para desarticular las prisiones culturales y desbloquear la fantasía de lo imposible, con vistas a aprovechar al máximo la vida concreta que se nos presenta día a día.

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