il terzo film di Alejandro Jodorowsky è un altro capolavoro, da vedere e rivedere, e rivedere ancora.
è ricchissimo di immagini, temi, storie, mille registi hanno visto questo film (rubando o citando qualcosa).
come privarsi di questo enorme serbatorio di Cinema?
buona (da ripetere, come scrivono sulle ricette mediche) visione - Ismaele
… L’opera critica di Jodorwosky è sicuramente di grande fascino ed intrattenimento; il regista elabora un film che riesce a coinvolgere grandemente lo spettatore, dimostrandosi stimolante. Tuttavia la ribellione istigata appare in un primo momento debole, idealista ed altamente ingenua. La retorica Jodorowskyana si dimostra ridondante e irrealizzabile. Il viaggio alla scalata della montagna viene mostrato per tappe, fino a quella finale, il successo. Manca di spiegare come realizzare un simile viaggio, mancando solide basi e radici alla retorica filosocialista, di cui è consapevole. Ciò nonostante il genio di dell’artista cileno va oltre questa mera critica anticapitalistica. Svela la propria natura di prodotto filmico, e quindi illusoria, rivelando la prigionia della percezione e dei sensi dovuta alla falsità delle immagini e dell’arte. Il monito di Jodorowsky ora punta a liberarsi da quelle catene, svelare le illusioni e appropriarsi della propria umanità. Dimostra così una retorica più lucida e matura, che va oltre la mera e superficiale critica di un sistema mondo, ma dell’intero sistema mondo, facendone una sorta di meta-critica. Il messaggio di Jodorowsky è chiaro, non si può operare una critica o una rivoluzione nei confronti di un sistema politico-economico se prima non ci si libera dalle catene dell’oppressione dei sensi, bisogna disilludersi.
El Topo ebbe un successo underground inaspettato
e piacque così tanto a John Lennon che lui e compagna (Yoko Ono) decisero di
co-finanziare il progetto successivo di Jodorowsky, appunto La Montagna Sacra
che a conti fatti rappresenta il film manifesto del regista cileno… Il film si
può tranquillamente dividere in tre parti: una prima (stupenda) parte di puro
weird, blasfema e oltraggiosa, che fa della metafora cristologica il punto di
forza tra i soliti freaks, scelte ardite (le bambine/prostitute e l’utilizzo
degli animali per esempio) e momenti unici in cui si rimane stupefatti davanti
alla schermo… Si potrebbe (come sempre nel weird) stare a discutere di quanto
sia frutto di un lavoro serio di Jodorowsky e quanto invece sia frutto della
sua voglia di essere eccessivo, ma bisogna ammettere che alcune scene sono di
una forza visiva straordinaria…
Arriva poi l’incontro tra il protagonista e
l’alchimista (lo stesso Jodorowsky) che si consuma tra locations assurde,
animali, movimenti di macchina circolari e inquadrature strane…
C’è poi una seconda parte (la presentazione dei
personaggi) di critica sociale dove, pur non mancando un tocco weird e
dell’umorismo grottesco, si alternano cose riuscite (stupendo e anche
plausibile il condizionamento dei bambini contro il Perù) ad altre trovate poco
convincenti…
C’è infine una terza parte (il viaggio
catartico) che è quella che mi è piaciuta di meno, malgrado il solito weird a
profusione e qualche trovata eccellente (l’inutilità della ripetizione di un
miracolo di Gesù per esempio), è troppo lenta e da l’impressione di trascinarsi
a fatica…
Il finale (che potrebbe esaltare qualcuno) è
indubbiamente riuscito, peccato che una cosa del genere l’avesse già pensata
Mario Bava dieci anni prima ne I Tre Volti della Paura…
Naturalmente si sta parlando di un film
affascinante, metaforico ed allegorico fino all’eccesso, surrealista e
simbolista, eretico e folle, una vera e propria esperienza cinematografica, ma
naturalmente si sta anche parlando di un film adatto a pochi (e onestamente chi
ha messo uno due o tre non ho ben capito che film si aspettasse di vedere)
assolutamente sconsigliato a bacchettoni o persone estremamente religiose…
…“La montagna sacra” dimostra la forza della rappresentazione di
Jodorowsky. Le immagini
simboliche proposte sono talmente tante che risulta praticamente impossibile
comprendere tutto il film dopo una sola visione. E queste immagini sono
immagini che restano, che non se ne vanno via così facilmente. Misticismo,
alchimia, religione e una denuncia fortissima nei confronti della società
moderna: Jodorowsky nega la possibilità di una logica visiva annullando le
strutture tradizionali della narrazione. L’esperienza cinematografica si
trasforma, allora, in un viaggio onirico e inconscio. È inevitabile che si
perda il controllo, dovendo accettare l’impossibilità di ottenere una visione
chiarificatrice dell’opera. Si può tentare di decodificare ogni singolo
simbolo, ma non di comprendere la pellicola nella sua essenza più profonda; al
posto che cercare un significato, è più facile accettare una spiritualità
attraverso gli stati emotivi inconsci trasmessi dagli innumerevoli simboli e
colori. Jodorowsky ci mostra la bellezza della sua “verità”: un insieme di
numeri, lettere, figure dei tarocchi e allegorie che moltiplicano il senso di
ogni azione. Realizzando una critica sociale, politica e religiosa, il regista
parla della “violenza nell’arte”. È come se la violenza servisse ad arrivare ad
un cambiamento. Il cinema per Jodorowsky diventa, allora, una missione.
Guardare un film di Alejandro
Jodorowsky non è un’operazione semplice. Innanzitutto, significa
entrare nella mente del suo autore, scoprire la sua personale visione del mondo
e dell’uomo. In secondo luogo, significa entrare in contatto con uno stile
registico imprevedibile, surreale ed estremamente simbolico. Nel caso de La montagna sacra (1973) è necessario in tal
senso compiere un grande sforzo dal punto di vista spettatoriale per
comprenderne a fondo lo sviluppo e le ragioni, ma una volta svelato ciò che si
cela al di là della mera apparenza diventa presto evidente il perché sia
considerato il magnum opus del regista
franco-cileno.
Volendo individuare una
struttura al film, la trama può essere suddivisa nei classici tre atti, sebbene
le regole tradizionali della narrazione vengano di fatto completamente
sovvertite. Nella prima parte de La montagna sacra,
Jodorowsky ci mostra il progressivo superamento dalla propria condizione di
dissoluzione di un personaggio chiamato il ladro che assomiglia molto a Gesù
Cristo. Dopo una serie di disavventure (come nel caso di alcune figure
apparentemente religiose che lo inducono ad ubriacarsi per poi creare dei modelli
di cera del suo corpo inerme raffigurante la crocifissione), il ladro raggiunge
una torre nel quale risiede un alchimista, interpretato da Jodorowsky stesso.
Nella seconda e nella terza parte del film, l’alchimista introduce al ladro
alcune delle figure chiave che lo accompagneranno nel viaggio verso la
cosiddetta montagna sacra, un luogo che potrà garantire loro l’illuminazione
spirituale.
A giocare un ruolo
fondamentale ne La montagna sacra sono lo
strumento dei tarocchi, e nello specifico i tarocchi marsigliesi. «I tarocchi
ti insegneranno a creare un’anima»: nel corso della sua preparazione, il ladro
impara dall’alchimista alcune delle proprietà fondamentali di questi strumenti,
che vengono di fatto presentati come simboli capaci di determinare con precisione
l’essenza di ciascuna delle persone con le quali si recherà alla montagna
sacra. Proprio il ladro ad esempio rappresenta la carta de Il Folle, che come spiega il regista
stesso simboleggia la libertà totale,
l’assenza di limiti e definizioni. La visione di Jodorowsky dell’arte dei
tarocchi si allontana dalla concezione popolare e si avvicina al loro uso
reale, dove il misticismo incontra l’introspezione psicologica: il tarocco come
linguaggio ed espressione del presente, in grado di connettere il tutto
attraverso «la danza della realtà», nella quale «il mondo danza attorno a te e
ti dà ciò che cerchi»…
Se
podría decir que La Montaña Sagrada (The Holy Mountain,
1973), la película de naturaleza más episódica de la trilogía inicial de
largometrajes surrealistas de Jodorowsky, por un lado constituye una
profundización muy importante de su costado místico/ budista más estrafalario y
semi fellinesco/ a lo Ken Russell, y por otro lado sintetiza su temple de
“hombre orquesta” porque aquí llega al punto de desempañarse como director,
guionista, productor, cocompositor de la banda sonora, diseñador de producción
y vestuario, coeditor y actor, una multitud de tareas que para colmo se
duplican porque hablamos de su película más cara a la fecha y con mayoría de
capitales estadounidenses en lo que atañe al presupuesto. La trama sigue el
periplo de un vagabundo conocido como El Ladrón (Horacio Salinas) que se hace
amigo de un hombre sin piernas ni manos (Basilio González) que encuentra en la
calle, lo que lleva a que ambos presencien un desfile militar con cuerpos de
cabras crucificadas, burgueses arrodillados, fusilamientos varios, turistas
deseosos de retratar todo con sus cámaras, algo de sexo en público y una
representación de la conquista de México con camaleones como los indígenas y
sapos como los europeos. Como su aspecto es similar al de Jesucristo, el
protagonista termina siendo emborrachado por unos gordos vestidos de soldados
romanos en pleno festín culinario para generar un molde con yeso de su cuerpo
en una posición símil crucifixión y vender los Cristos resultantes, despertando
la furia del muchacho y sus ganas de destrozar todo. El Ladrón eventualmente
termina separándose del tullido cuando ve que de un obelisco anaranjado
desciende una bolsita con oro que las personas parecen haber intercambiado por
comida y de esta forma decide explorar el interior de la elevada construcción,
donde encuentra a El Alquimista (el propio Alejandro), un especialista en el
tarot y maestro espiritual, y su asistente morena (Zamira Saunders), en esencia
un dúo que le enseña cómo el excremento se puede transformar en oro -símbolo de
las mismas personas, por cierto- y lo termina aceptando como discípulo
implícito y presentándole a siete hombres y mujeres muy poderosos que se
corresponden con distintos planetas de nuestro Sistema Solar; así nos topamos
con Fon (Juan Ferrara), un Venus que se dedica a la elaboración de productos
cosméticos, Isla (Adriana Page), un Marte que fabrica y vende armas, Klen (Burt
Kleiner), un Júpiter que comercializa arte para el jet set social, Sel (Valerie
Jodorowsky, nada menos que la esposa del señor por entonces), un Saturno que
fabrica juguetes bélicos, Berg (Nicky Nichols), un Urano que asesora a
políticos en términos económicos y financieros, Axon (Richard Rutowski), un
Neptuno jefe de un departamento de policía, y finalmente Lut (Luis Lomelí), un
Plutón arquitecto vinculado -al igual que todos los anteriores- al capitalismo
más hambreador, pusilánime, represivo, narcisista, maquiavélico y salvaje. Con
El Ladrón representando a la Luna y El Alquimista y su ayudante al Sol y
Mercurio respectivamente, los diez individuos incineran todo su dinero y dan
inicio a una misión en pos de convertirse en un único ser colectivo para
descubrir el secreto de la inmortalidad que aparentemente guarda un grupo de
nueve maestros semi divinos en la Montaña Sagrada, ubicada en la Isla del Loto,
desde donde dirigen nuestro mundo y a quienes se pretende “asaltar” para que
revelen el secreto de la perennidad o la derrota de la muerte. Luego de
atravesar diversos rituales y ceremonias de elevación sensorial y psicológica,
el contingente llega a la isla y esquiva la trivialidad del Bar Panteón,
fundamentalmente una fiesta en un cementerio organizada por quienes abandonaron
la búsqueda de la Montaña Sagrada y ahora se dedican a la vanagloria egoísta, y
de este modo El Alquimista insta a El Ladrón a aceptar el amor de una joven
prostituta (Ana De Sade), que lo ha estado siguiendo junto a un chimpancé desde
antes de siquiera ingresar al obelisco, y le explica al resto de su troupe que
no existen los adalides de la inmortalidad, que están dentro de una película y
que deben abandonar las ilusiones porque los espera la vida más allá de las
tristes limitaciones comunales/ anímicas/ culturales impuestas. Si por un lado
es indudable que el film funciona como un viaje espiritual alucinado e
irreductible a cualquier interpretación literal porque de por sí es producto de
un cúmulo de influencias artísticas, religiosas y mitológicas a nivel macro,
igual de innegable es el hecho de que durante gran parte del metraje
-prácticamente todo hasta la media hora final- Jodorowsky se despacha con una
mega parodia que abarca una infinidad de tópicos candentes como por ejemplo el
cristianismo, los turistas más bobos, la oligarquía capitalista, el genocidio/
conquista de América, el comercio y la banalización de la fe, la estupidización
masiva, la apatía, la obsesión con el sexo, la cultura bélica, el clero como
institución demacrada, el individualismo acérrimo y ciego, el nepotismo, el
culto a la riqueza, la esclavitud moderna tácita, la artificialidad patética y
bien falaz, el feminismo de derecha, el armamentismo, la alta y pequeña
burguesía, la mercantilización de la infancia, el esteticismo más vacuo, el
arte estandarizado y también el de elite, la hipocresía social, el condicionamiento
político desde el mercado, la tecnocracia y la economía neoliberal, el aparato
represivo, los profesionales y burócratas al servicio de la intelligentsia, los
preceptos regresivos, desquiciados y siniestros de los susodichos, las drogas alucinógenas
e incluso las promesas de sanación de gurúes y “mártires” que auguran el
nirvana a los ingenuos e incautos que caen en la trampa y acceden a sus planes.
Más allá del excelente trabajo en fotografía y música y la vuelta de los
tullidos de siempre, los estigmas católicos y la crueldad al paso, la obra
despliega todo el conocimiento místico/ oriental/ sufista/ cosmológico/
psicodélico del cineasta, ese que en comparación apenas si estaba sugerido en
opus previos, y coloca en primer plano a ritos y ademanes de toda índole, basta
recordar la extraordinaria secuencia del comienzo con el propio Jodorowsky
reproduciendo una ceremonia japonesa del té ahora aunada a la presencia de dos
señoritas rubias impasibles (las abstraídas por completo Leticia Robles y
Connie De la Mora) que son peladas al ras delante de cámara, planteo que
asimismo trae a colación intereses históricos del chileno como los
doppelgängers más conceptuales que materiales, las escenografías y fondos
circulares, la desacralización de la belleza occidental tradicional y la lógica
de los extremos que se tocan, o más bien colisionan (hablamos de hermosura y
fealdad, vida y muerte, control y libertad, delirio y razón, amor y odio,
etc.). A la vez que denuncia la pretensión de los grandes políticos y
empresarios de eternizarse y la avaricia de base que se oculta en el corazón de
todos los seres humanos, Jodorowsky crea una fábula enigmática sobre una
iluminación freak, enrevesada y antidemagógica que ofrece detalles exquisitos
como la irreverencia de fondo de convertir a una encarnación prosaica de
Jesucristo en un discípulo/ apóstol de Buda -o más bien, en un asceta
apesadumbrado multidisciplinario- o como esa sátira durísima en torno a la
policía, aquí conformada por unos eunucos de impronta robotizada, incapaces de
pensar por su cuenta y adeptos a la brutalidad más morbosa. La Montaña
Sagrada es sin duda uno de los ejercicios autoindulgentes más
enriquecedores y majestuosos de la historia del cine, una alegoría coherente y
sensata en pos de renunciar al yo para abrazar en cambio una idiosincrasia
colectiva, alejada de las miserias individuales y los pesos muertos, y para
desarticular las prisiones culturales y desbloquear la fantasía de lo
imposible, con vistas a aprovechar al máximo la vida concreta que se nos
presenta día a día.
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