domenica 13 novembre 2022

Nel nostro cielo un rombo di tuono - Riccardo Milani

premetto che non potrò essere oggettivo, per questo film, che è l'agiografia meritata di un santo laico, per i sardi.

il film documentario dura tre ore, ma nessun minuto è inutile.

certo non è un film perfetto, per esempio Moratti è di troppo, ma tutto il resto è bello e necessario.

chissà se girerà nelle sale della penisola, in Sardegna c'erano e ci sono le file davanti ai cinema.

se vi capitasse vicino non perdetevelo, non ve ne pentirete.

buona (Giggirriva) visione - Ismaele


ps: speriamo solo che tutti saranno d'accordo per intitolare l'aeroporto di Cagliari-Elmas (adesso intitolato a un fascista) a Gigi Riva, come hanno fatto a Belfast, dove l'aeroporto è intitolato a George Best.

 


 

I documentari sempre più spesso hanno durate che sono già preordinate ai tempi di un passaggio televisivo. Quando le superano è da prevedere che verranno divisi in due parti. Non è dato sapere cosa accadrà a questo lavoro di Riccardo Milani. Quello che è certo fin da ora è che la durata, decisamente superiore alle due ore, non pesa sullo spettatore neanche per un secondo.

Potrà sembrare strano perché è notorio che Gigi Riva è, ed è sempre stato, un uomo riservato e di poche parole. Riccardo Milani però è riuscito a fargli raccontare quanto basta (vicende sentimentali escluse) e si è dotato di una messe imponente di testimonianze e materiale documentario.

Si percepisce sin da subito, grazie anche a raffinati e misurati inserti da docufiction, quanto Milani abbia amato e voluto questo progetto. Non sempre però la passione coltivata per un'idea produttiva si traduce in una comunicazione che possa parlare a tutti coinvolgendoli. Qui ci riesce in pieno.

A partire dal titolo che si rifà ad un'iperbole del mai dimenticato Gianni Brera riferita a Riva. Iperbole appunto perché se c'è stato un campione schivo che non faceva rumore con atteggiamenti roboanti è stato proprio Luigi detto Gigi Riva. Ma tuono era quello della potenza del tiro che dirigeva il pallone verso la porta avversaria. A partire da un'infanzia difficile con la perdita del padre, la vita in un collegio di suore molto rigide e la successiva scomparsa, a sedici anni, della madre, vengono seguite tutte le tappe, trionfali ma anche dolorose con incidenti fisici gravi, della carriera di un ragazzo 'punito' con la cessione a una squadra sarda…

da qui

 

Dal 1963 non è più andato via, ridendo poco, dormendo poco, fumando molto. Si è ritirato nel suo appartamento, ormai, ma il suo mito attraversa ogni giorno l’isola, fino a raggiungere la spiaggia del Poetto, ad ammirare l’orizzonte in impermeabile e attendere il prossimo squarcio nel cielo. Bel docufilm di Riccardo Milani che non soltanto riesce a coinvolgere ed emozionare nella ricostruzione della storia di Gigi Riva, attraverso scene recitate, immagini di repertorio, testimonianze di colleghi calciatori, di amici, conoscenti, ma ha anche la capacità di portare dinanzi alla telecamera un uomo lontano anni luce dalla ricerca della notorietà mediatica fuori da un rettangolo verde, mostrandolo con pochi gesti, parole essenziali e soprattutto nella sofferenza e nella gioia di una vita vissuta inesorabilmente a braccia aperte. Quelle braccia aperte, in esultanza dopo ogni goal, ci accolgono per incontrare l’uomo e il campione assoluti, fuori dal tempo ormai, come l’ultimo dei Mohicani, Rombo di Tuono.

da qui






La mitopoiesi di Giggirriva - Fiorenzo Caterini

Un tipico caso di mitopoiesi è quello relativo alla invenzione di un eroe eponimo sardo, verosimilmente risalente agli anni ’60 e ’70 del XX secolo, che prende il nome di Gigi Riva o di Giggirriva.

La costruzione del mito, che ricorda quello di Ercole/Eracle/Melqart in Sardegna, ripercorre un percorso tipico della mitopoiesi con importazione dall’esterno dell’elemento fondante.
Il mito vorrebbe, infatti, che questa figura di sportivo, nello specifico di calciatore, abbia contribuito alla vittoria di un titolo italiano di calcio, il cosiddetto “scudetto”, da parte di una squadra sarda, il Cagliari Calcio.
Tale vittoria, in realtà, sembra anch’essa frutto della stessa mitopoiesi e non è stata mai storicamente provata, un po’ come l’epopea della Brigata Sassari.
Si ripropone, ancora una volta, pertanto, il grande imbroglio, la grande falsificazione delle Carte d’Arborea dell’800, che dimostrano come la mitopoiesi nell’isola sia una costante storica difficile da debellare.
Questo eroe eponimo, a quanto pare, si distinse secondo la leggenda nel giuoco del calcio segnando molte reti, alcune delle quali molto spettacolari, con grandi acrobazie.
In realtà gli studi hanno messo in evidenza come i documenti riportino la presenza di un tale Luigi Riva, che ha giocato nella nazionale italiana, la seconda al mondo per titoli vinti ai mondiali di calcio, con il record di reti segnate, ben 36.
E’ chiara la trasposizione, l’assorbimento di un mito italiano nella mitologia sarda, con la rifunzionalizzazione e con una tipica sardizzazione e trasformazione da “Luigi” a “Gigi” o “Giggi”.
Tanto è vero che, a quanto pare, secondo i documenti anagrafici reperiti dagli studiosi, questo “Luigi Riva” è nato in un paesino del nord Italia.
Questa mitopoiesi, come del resto i Falsi d’Arborea, pone con forza il problema dei miti velenosi che intossicano la storia della Sardegna, rendendola schiava di invenzioni folcloristiche, prive di qualunque scientificità, che poi finiscono per allontanare l’attenzione della gente dai veri problemi attuali.
L’invenzione di “Giggirriva”, ricorda anche quella, meno conosciuta, ma comunque interessante, di un tale Zola, un altro calciatore di oscure origini ma che ormai i documenti hanno chiarito, dato il soprannome di “magic box”, chiaramente proveniente dal nord Europa e verosimilmente dall’Inghilterra. Gli annali infatti ricordano di un forte calciatore con quel nome che ha giocato nel campionato inglese, ed è molto probabile che poi l’assonanza con un tipico cognome sardo abbia prodotto l’assorbimento di questo ulteriore eroe eponimo. L’assorbimento di miti provenienti dall’Inghilterra sembra essere una costante. Ci sono infatti tracce di grandi fantini inglesi che poi sono stati sardizzati attribuendogli dei cognomi sardi, Dettori, Atzeni, eccetera, e dimostrano una chiara influenza della civiltà inglese nell’isola.
La mitopoiesi in Sardegna, dunque, è diventata una piaga che allontana la verità scientifica, con creazioni di vere e proprie invenzioni, si pensi ai Falsi d’Arborea.
Come ampiamente noto, un caso eclatante è quello delle statue di Monte Prama, le prime a tutto tondo del Mediterraneo dopo quelle egizie, che dimostrano la grande manualistica e lo spessore artistico dei fenici nel Mediterraneo occidentale.
Anche in questo caso si tratta di un processo di appropriazione di una cultura esogena, quella fenicia, alla quale la civiltà nuragica, anche se precedente, deve comunque il suo sviluppo.
Ciò dimostra le volontà, chiaramente mistificatoria, dei sardi attuali, di appropriarsi di una storia nobile per poter, in qualche modo, riscattare una condizione attuale di sottosviluppo economico e sociale, dovuto, principalmente, all’incapacità dei sardi di imitare i modelli di sviluppo vincenti.
Ma la storia dei calciatori ricorda un’altra grave mistificazione, oltre quella dei Falsi d’Arborea: quella dei shardana, popolo che indebitamente è stato accostato alla civiltà nuragica.
Anche per i shardana, è bastato un toponimo che vagamente ricorda la Sardegna, per accostarlo alla civiltà nuragica.
In realtà toponimi con quella redice, nel Mediterraneo, ce ne sono altri, specialmente in oriente.
E’ vero che il periodo della citazione, da parte degli antichi egizi, dei Shardana, coincide con il massimo splendore della civiltà nuragica, è vero che è stata rinvenuta in Sardegna, con la Stele di Nora, una citazione con quel toponimo, è vero che i bassorilievi egizi riportano figure sorprendentemente simili ai bronzetti nuragici, è vero che shardana e nuragici navigavano, erano guerrieri, e avevano tante altre similitudini, è vero che… insomma, erano tutte coincidenza e non è provato che shardana e nuragici fossero gli stessi, ci vuole ben altro per le scienze esatte.
E’ pura fantarcheologia, è archeosardismo.
Verosimilmente è quello che è accaduto col Cagliari Calcio. Infatti gli annali riportano lo scudetto di una squadra con quel nome, ma non è provato che provenga dalla città di Cagliari, perché il toponimo “Kar”, è diffuso in molte parti del Mediterraneo, in particolare in oriente.
Sarebbe ora di debellare questi miti, questa mitologia sciocca e inutile che avvelena il dibattito politico dei nostri tempi, miti tossici e velenosi che non servono a nulla.
Si pensi ai Falsi d’Arborea.

da qui

 

“Io, emigrato a Torino, e quello scudetto che non dimenticherò mai

 

di Francesco Utzeri (dal sito di Vito Biolchini)

 

Quella del 12 aprile è una data magica per noi tifosi del Cagliari: perché uno scudetto è per sempre e la gioia per quel successo, come per miracolo, non svanisce con il passare del tempo. Molti anni fa a Gigi Riva e a quell’impresa sportiva ho dedicato uno spettacolo (“Rombo di Tuono: scudetto e petrolio 25 anni fa”) e un documentario (“W Riva). Poi sono seguiti tanti bei libri, tutti molto interessanti (tra i più recenti, ho apprezzato molto “Eravamo giovani nel 1967” di Antonello Deidda).
Un lettore del blog, Francesco Utzeri, mi ha inviato questo suo ricordo personale, carico di vita e di emozioni. “Sentivamo, in quelle vittorie del Cagliari, una sorta di rivalsa verso il destino che ci aveva portato lontani da casa in cerca di lavoro”, scrive. Parole che spesso ricorrono quando si parla di quello scudetto. Che noi festeggiamo ancora, anche per onorare i tanti giovani di allora che lasciarono l’isola in cerca di fortuna. Grazie a Francesco Utzeri per i suoi ricordi che ha voluto condividere con noi.

***

Egregio Biolchini,
qualche giorno fa, il 12 arile, ricorreva l’anniversario della conquista dello storico scudetto del mitico Cagliari di Gigi Riva e in questa occasione mi permetto di scriverle per inviarle il mio ricordo di giovane emigrato, in quei (oramai) anni lontani.

Era giugno 1969. Finiti gli esami il 22, mentre tutti gli amici andavano già da un pezzo al mare, chi a Giorgino (o meglio la Scafa, visto che era raggiungibile a piedi), chi al Poetto (per chi poteva permettersi il lusso del biglietto del tram), io già sapevo di dover partire perché mio fratello Paolo, che già stava li da tempo, mi aveva procurato una prova di lavoro in quel di Torino.

La nave Canguro Rosso salpò da Cagliari alle 17 e, dopo una lunghissima ed estenuante navigazione di diciannove ore raggiunse Genova a mezzogiorno del giorno dopo. Non era la prima volta che viaggiavo, ma in ogni caso la prima volta da solo. Il viaggio sulla nave, pur se lunghissimo, fu piacevole perché nell’occasione ebbi modo di conoscere alcuni ragazzi (e ragazze) che si recavano in continente per la mia stessa ragione.

Fu subito simpatia e cameratismo, anche perché loro provenendo dall’interno dell’isola, se non ricordo male Irgoli, e non essendo mai stati neppure a Cagliari, volevano sapere tantissime cose sulla città. Alcuni di loro avrebbero continuato il viaggio verso la Germania e quindi non li ho mai più incontrati; altri, che erano diretti a Torino o comunque nel nord Italia, li ho rincontrati, talvolta, nei viaggi successivi.

L’avvicinamento alla meta finale del viaggio non terminò allo sbarco dalla nave, ma proseguì con un faticoso trasferimento a piedi verso la stazione ferroviaria di Porta Principe, poi un treno sgangherato fino ad Alessandria e poi, finalmente, Porta Nuova, la stazione ferroviaria di Torino.

Mio fratello Paolo mi attendeva alla stazione e subito mi accompagnò alla pensione, nei pressi di via Madama Cristina. Chiamare “pensione” quel posto era un complimento: alcune camere con quattro letti ciascuna, che davano tutte sul ballatoio al quarto piano senza ascensore, all’interno di un palazzo fatiscente, con un unico gabinetto per dodici persone. Il resto dei servizi era al piano terra, nel cortile interno.

L’impatto con la nuova città non fu esaltante, ed il malessere verso Torino l’ho portato dentro fino agli anni recenti, quando sono tornato in quella città, scoprendola anche bella.

La prova andò bene e quindi, il giorno 1° luglio 1969, entrai ufficialmente a far parte del mondo del lavoro.

Pian piano mi inserii in quella nuova realtà e, grazie alle possibilità economiche date dal salario mio e di mio fratello, cambiammo finalmente casa. Basta con la pensione fatiscente, basta con la fila per il gabinetto e con tutti gli altri disagi.

Mio fratello, che frequentava da tempo una associazione di lavoratori sardi, mi invito a partecipare alle iniziative del circolo, ma io preferii allargare le conoscenze, frequentando altri ragazzi della città e del resto d’Italia. Torino, in quegli anni, era popolata di giovani provenienti da tutte le parti ed era quindi facile fare nuove amicizie.

Per tutti loro io ero “il sardegnolo”, e non trovavo nulla di malizioso in questa definizione anzi, talvolta mi pareva anche simpatico sentirlo pronunciare dalle ragazze del gruppo.

Arrivò l’autunno e con il freddo pungente iniziò il campionato di calcio. Mio fratello, che come tutti gli immigrati faceva il tifo per la Juve, cercò di convincermi ad andare allo stadio ma a me del calcio non interessava nulla. Preferivo i dancing e le balere, dove si potevano fare nuove conoscenze e piacevoli amicizie.

Poi venne il giorno che a Torino arrivò il Cagliari di Gigi Riva.

I miei nuovi amici, soprattutto le ragazze, cominciarono a chiedermi notizie della squadra, dei calciatori, della città. Insomma, il fatto che il Cagliari fosse protagonista del campionato, mi aveva portato al centro dell’attenzione: quindi quella domenica, tutti allo stadio Comunale.

Era la prima volta che vedevo una partita di calcio di Serie A e fui affascinato e meravigliato. Affascinato da tutta quella gente che faceva il tifo per la Juve e meravigliato perché, pur essendoci i posti a sedere, tutti guardavano la partita in piedi. La partita terminò con un pareggio rocambolesco e questo contribuì a sollevare la mia popolarità fra i ragazzi del gruppo, ma anche la stima dei colleghi di lavoro.

L’inverno di Torino fu lunghissimo ma la nuova passione nata per il calcio contribuì a rendere meno difficile la permanenza in quella fredda città. La lontananza da casa e dalla famiglia, nonostante l’indipendenza economica e le opportunità di divertimento offerta dalla città, si facevano sentire. Attendevamo la domenica per seguire le notizie relative al Cagliari ed anche mio fratello, pur se juventino, ascoltava e gioiva delle vittorie dei rossoblù.

Sentivamo, in quelle vittorie, una sorta di rivalsa verso il destino che ci aveva portato lontani da casa in cerca di lavoro.

E poi giunse l’aprile 1970. Ogni domenica sera, dopo le partite del campionato, avevamo un appuntamento telefonico con la famiglia, a casa di amici poiché noi non lo avevamo, ma quella domenica del 12 aprile non riuscimmo a telefonare.

Il risultato della partita tra il Cagliari e il Bari fu determinante per la conquista dello scudetto. Il Cagliari era Campione d’Italia. Tutti si complimentavano, quasi che lo avessimo vinto noi quel campionato. In fondo era vero: quello scudetto era nostro, nessuno ce lo avrebbe mai più potuto togliere.

La bellissima memoria di quella memorabile giornata, vissuta lontano dalla Sardegna, è una gioia che ancora oggi mi commuove e ogni qualvolta incontro quel distinto signore, taciturno e serio, che passeggia solitario per le vie del centro di Cagliari, non posso che ringraziarlo per questa grande gioia e commozione che ci ha regalato.

Oggi come allora.

da qui

 

l'opinione di Gigi Riva

Gigi Riva è sardo per scelta, per indole, per natura insulare e per storia. Non è importante che sia nato nel Varesotto. É sardo e basta: è arrivato nell’isola nell’aprile del ’62 vivendo la cosa come una punizione e non se n’è più andato. “Ho capito che sarei rimasto – ha detto una volta – quando andavamo in trasferta a Milano e ci chiamavano pecorai. O banditi”.

Gigi Riva è sardo perché è il santo laico dell’isola, l’immaginetta che la gente appende accanto alla Madonna, perché il suo Cagliari, alla Sardegna, ha regalato nome e orgoglio quando ancora non l’aveva. È sardo e parla da sardo di questa estate in cui i nodi del falso sviluppo stanno venendo al pettine: dalle fabbriche alle miniere fino alla campagna. Quando lo chiamiamo, dice subito: “Non voglio fare interviste”. Poi capisce quale sarà l’argomento e parte da solo perché anche con 67 primavere addosso è ancora “Rombo di Tuono”, il soprannome che gli diede il simpatetico Gianni Brera: “Sono in Sardegna da cinquant’anni e una situazione di questo genere non l’ho mai vissuta. Basta farsi un giro per strada a Cagliari per capire: vedi i negozi che non lavorano e nelle vetrine solo i cartelli affittasi. Qui vivono anche i miei due figli e tre nipoti e le dico che la situazione non ha vie d’uscita”.

Non le sembra di essere troppo pessimista?
Questa situazione non ha una via d’uscita: troppe famiglie sono senza lavoro, senza mangiare. Oggi se ne accorgono anche in regione e dicono di voler intervenire, ma la verità è che non hanno i mezzi. È una marea che monta: le fabbriche e i negozi che chiudono, è troppo tardi…

continua qui





Nessun commento:

Posta un commento