mercoledì 26 ottobre 2022

El Topo - Alejandro Jodorowsky

Alejandro Jodorowsky sforna un capolavoro dopo l'altro.

El topo è una storia piena di riferimenti, citazioni, visioni, un western metafisico e concretissimo.

una gioia per gli occhi, come sempre, da vedere e rivedere.

buona (western) visione - Ismaele

 

 

El Topo non è certamente un film di facile visione e tantomeno di facile lettura. Da molti considerato un capolavoro assoluto del cinema underground, da altri additato come film pretenzioso ed insensato nel suo cripticismo, resta comunque innegabile il grandissimo lavoro e l’immensa genialità di un regista come Jodorowsky che, a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, fu uno dei personaggi più significativi ed estremi del cinema di nicchia. Sicuramente non piacerà a tutti, ma chi lo saprà apprezzare – per citare una frase dello stesso Jodorowsky – potrà vantarsi di essere un “Illuminato”.

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Punto di partenza, assolutamente, è però quello della diversità (di pensiero e rappresentazione, così come di uomini veri e propri). Cinema dei diversi, che ha origine nella deformità umana di Freaks (1932) di Tod Browning, e che prosegue nella passione del regista per il circo: evidente nel terzo Grande Maestro, in uno scenario fatto di chiromanti, leoni ed una carrozza da circo, e negli spettacoli con la nana (da giovane il regista aveva lavorato come clown proprio in un circo). Sacro, devoto ma dissacrante nella scelta di mescolare tutte le influenze religiose (l’assassinio del pistolero nella pozza d’acqua, una specie di battesimo della morte; la morte per mano della donna, che lascia stimmate sui piedi di el topo; l’esperienza mistica con la carne di scarafaggio; la messa suicida; il corpo che prende fuoco nel finale buddista), anche politico (violenze/rapporti omosessuali tra i quattro preti ed i banditi del colonnello) El topo è un insieme di metafore (il passaggio del frutto tra le due donne ed il rapporto con l’uomo) e rimandi simbolici (lo specchio della donna infranto, il mito di Narciso distrutto da el topo; l’occhio di Osiride come marchio a fuoco) che a volte hanno però il carattere di assoluto ed affascinante non sense di natura surrealista e poetica. Il deserto, metafora del percorso interiore del protagonista, è spazio senza tempo. Trattandosi di un genere abbastanza preciso, non pochi sono i riferimenti al western di Sergio Leone, dal quale trae ispirazione per i duelli, ed a quello di Monte Hellman, autore di contaminazioni crepuscolari ed esistenziali: il tema del doppio nella figura del pistolero era stato utilizzato ad esempio in La sparatoria (1966). Il regista, appassionato dello spaghetti western, si è rifatto al Django (1966) di Sergio Corbucci nella scelta degli abiti scuri del personaggio principale. Citazione anche per Ombre rosse (1939) di John Ford (la Lega delle Donne Degne che controlla la morale dei mariti ricorda quella che allontanò la prostituta dal paese nel film con John Wayne). Molto bella la fotografia di Rafael Corkidi, assoluta l’uscita del colonnello dalla torre a cono, seguito da decine di maiali. Le musiche sono state composte dallo stesso regista-attore, assieme alla direzione di Nacho Mendez; interessante l’uso dei suoni off ed il frequente scambio di voci tra i due sessi. La scena sul ponte fu girata senza ausilio di lacci o funi, ad oltre novecento metri d’altezza (commento scritto contenuto negli extra inseriti nella versione edita dalla RaroVideo). Il villaggio utilizzato nel film, una specie di Sodoma e Gomorra del regista, è il set che Glen Ford utilizzò per la pellicola The law of Tombstone (Massimo Monteleone, autore del libro “La talpa e la fenice. Il cinema di Alejandro Jodorowsky”). El topo è, come afferma lo stesso regista, un santo senza Dio, un santo laico come il miglior rivoluzionario possibile, il messia del west (Massimo Monteleone, autore del libro “La talpa e la fenice. Il cinema di Alejandro Jodorowsky”).

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…Shot on a fairly large budget in Mexico, It began its American existence as an underground cult object, playing midnight shows in New York for six months. It surfaced to a normal run last November amid loud controversy. Its director, author and star, Alejandro Jodorowsky, was attacked in some quarters for using the symbols to make the violence digestible, and in other quarters for using the blood to sell the symbols. I don’t think you can take the movie apart that way; “El Topo” is all of a piece, and you’ve got to take the concrete with the fantasy, the spirit with the flesh.

Jodorowsky lifts his symbols and mythologies from everywhere: Christianity, Zen, discount-store black magic, you name it. He makes not the slightest attempt to use them so they sort out into a single logical significance. Instead, they’re employed in a shifting, prismatic way, casting their light on each other instead of on the film’s conclusion. The effect resembles Eliot’s “The Waste Land,” and especially Eliot’s notion of shoring up fragments of mythology against the ruins of the post-Christian era…

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“El Topo” es una película de muchísimo interés a todos los niveles. De gran calidad artística y de un enorme impacto visual, su atmósfera está muy bien lograda. También es muy efectiva la música que acompaña al film, que incluye guturales cantos mántricos tibetanos durante los duelos. La banda sonora resalta el carácter irreal y onírico de la historia. Sería interesante saber si Dalí, Buñuel o Sergio Leone llegaron a ver la película y qué opinión tenían de ella.

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En El Topo (1970) ya se nota el flamante interés de Jodorowsky en la filosofía zen, el tarot, lo esotérico, el cristianismo paradójico de barricada y la cosmología más freak, todos elementos que a su vez se mezclan con el ideario de la contracultura de la década del 60, una parodia implícita al derechoso y caduco western clásico hollywoodense y un ejercicio en el novedoso terreno del acid western, subgénero que había sido patentado años atrás por Monte Hellman en las recordadas El Tiroteo (The Shooting, 1966) y A Través del Huracán (Ride in the Whirlwind, 1966), ambas protagonizadas por el monumental Jack Nicholson. Echando mano a elevadísimas dosis de gore, toques de comedia negra y delirante y una genial banda sonora cortesía del propio cineasta, la película es una de las cumbres del cine experimental internacional y una de las obras más complejas que hayan llegado al ojo semi masivo, en este caso sobre todo gracias al impulso y el cariño inconmensurable de John Lennon, todo un fanático del film y artífice central en su distribución a escala global y en el financiamiento del siguiente proyecto del maestro chileno, La Montaña Sagrada (The Holy Mountain, 1973)…

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