ma se sei, o vorresti essere, uno dei Felici Pochi, non perderti questo film.
gli anni giovanili di Marx, il suo incontro con Engels, la polizia sempre dietro l'angolo, gli incontri, le discussioni, i congressi, tenuti in birrerie, le compagne di vita di quei due (affianco, o dietro un grande uomo c'è una grande donna, vero come non mai), le notti passate a discutere e a scrivere, le fughe, gli esilii, quei tempi in cui le rivoluzioni erano cose vere, rischiose, pericolose, dopo che i filosofi avevano interpretato il mondo, era ora di cambiarlo (non erano un like su facebook o un parteciperò all'evento), tutto questo si vede e si respira nel film.
il regista è Raoul Peck (è un grandissimo, cercate la biografia e filmografia, per avere un'idea), uno che fa film davvero importanti e belli, come Lumumba e I'm not your negro, su James Baldwin.
alla fine del film Marx dice che vorrebbe scrivere qualcosa d'importante (Il capitale), ormai aveva quasi trent'anni.
in sala l'età media si avvicinava ai 60 anni.
voglio pensare che altri come Marx ed Engels stiano crescendo, in giro per il mondo, in India, in Val di Susa, fra i migranti, in Chiapas, o dove ancora non sappiamo, con un foglio di via in tasca.
il film è, per ora, in pochi cinema, ma ha il terzo migliore incasso per sala del fine settimana, buon segno.
buona visione - Ismaele
… Quella raccontata ne Il Giovane Karl Marx è
un'epoca in cui fare politica non è una carriera, ma un percorso fatto di
slancio e passione, ricerca di risposte a domande urgenti, elaborazione di
ideali necessari. E chi ci si lancia anima e corpo, rischiando la vita e la
galera, la povertà o la solitudine, sono ragazzi di poco più di vent'anni
(quando La Lega dei Giusti diventa, grazie all'apporto di Marx ed Engels, la
Lega dei Comunisti, Marx ha solo 29 anni). È una politica che è davvero
discorso della polis, della comunità, e Peck ce lo dice mettendo in scena ogni
volta che può filosofi e lavoratori schiacciati l'uno contro l'altro in sale
piene di fumo e di sudore, tutti rigorosamente in piedi, a fare la conta delle mani
per prendere le decisioni. Una politica in cui a contare sono sì le idee - solo
le più forti si propagano per davvero - ma anche le persone che di quelle idee
sanno farsi ambasciatrici, portandole fisicamente oltre le frontiere, tessendo
reti, scambiando libri, stampando clandestinamente pubblicazioni proibite.
Pedagogico il giusto, certo non rivoluzionario, Il Giovane Karl Marx evita la trappola del film-bignami raccontando, con relativa leggerezza, un'epoca in cui i lavoratori di tutto il mondo si univano senza per forza condividersi. E non erano i like ad accendere le rivoluzioni, ma uomini in carne e ossa. Con i loro appetiti e le loro passioni.
Pedagogico il giusto, certo non rivoluzionario, Il Giovane Karl Marx evita la trappola del film-bignami raccontando, con relativa leggerezza, un'epoca in cui i lavoratori di tutto il mondo si univano senza per forza condividersi. E non erano i like ad accendere le rivoluzioni, ma uomini in carne e ossa. Con i loro appetiti e le loro passioni.
… Il fotografo e giornalista Peck organizza un biopic
avvincente, che prende l’abbrivio dal massacro impunito degli ultimi tra gli
ultimi per la sola colpa di aver raccolto – e quindi “rubato”, nell’accezione
giuridica sempre dalla parte del padronato – rami secchi caduti dagli alberi e
arriva fino agli albori di una rivoluzione destinata a fallire ma germe per
future infinite rivoluzioni, perché come sentenzia il film sulle scritte
finale, in riferimento a Il Capitale, si
tratta di “un’opera aperta, incommensurabile, incompleta perché l’oggetto
stesso della sua critica è in continuo movimento. Lì, su quel finale che lascia
eternamente giovani Karl Marx e Friedrich Engels, Peck si permette una fuga in
avanti nel tempo, donando alle trame sonore di Bob Dylan e di Like a Rolling Stone il resoconto di un
secolo e mezzo di lotte contro l’oppressione del capitalismo, e di disfacimenti
della società. Per ricordare che nulla muore, e finché lo stato delle cose sarà
quello esistente non si potrà fare a meno della filosofia marxiana. Lo spettro
si aggira ancora per l’Europa, e per il mondo. Anche se si fa di tutto per non
vederlo.
…io a questo filmone di due ore mi sono appassionato
trovandolo a tratti meraviglioso e perfino, si potrà dire a proposito di Marx
& Engels?, incantevole. Preferisco i riformisti, ma diciamola tutta, al
cinema i rivoluzionari vengono meglio e appassionano di più. Son come i
titanici e magari negativi caratteri shakespeariani, stai incatenato a quelli,
mica agli smorti esempi di virtù. Nonostante che a Berlino i commenti non siano
stati entusiasti (“un polpettone!”), in my opinion questo è un bellissimo film,
pur nelle sue apparenze di cinema d’altri tempi, iperclassico, senza azzardi
formali e strutturali. Nelle sue apparenze. Perché il regista Raoul Peck (un
signore che immagino simpatizzante di Marx e delle sue idee, già ministro della
cultura nella Haiti post Baby Doc, sfiora ma evita l’effetti antico sceneggiato
storico della Rai era Bernabei, cose come I Giacobini, grazie
a una limpida, precissima, per niente pedante nonostante tutte le spieghe
fornite allo spettatore, sceneggiatura di Pascale Bonitzer, magnifico scrittore
di cinema (e anche regista). E grazie al suo tocco (di Raoul Peck) di metteur
en scène. Peck compone il suo affresco come una rappresentazione in un teatro
di famiglia, con scenografie e costumi esatti ma non pomposi, abolendo i toni
stentorei e raccogliendo spesso i suoi personaggi dai nomi altisonanti in
ambienti domestici, intimi, assai privati…
… Non è
facile raccontare in poco meno di due ore Karl Marx. Quindi bisogna riconoscere
a Raoul Peck di aver fatto la scelta giusta nel
focalizzare la propria attenzione su un periodo così breve, eppur fondamentale,
per la vita del filosofo tedesco e per la Storia. Soprattutto a Peck bisogna
riconoscere il merito di aver affrontato un personaggio considerato quasi un
tabù dalla cinematografia. Sono pochissimi e semi-sconosciuti i tentativi di
portare sul grande schermo Marx, quasi ci fosse un timore reverenziale nell’affrontarlo
o si considerasse la sua vita poco appassionante e impossibile da rendere al
cinema. Invece Il giovane Karl Marx è un film
godibile, anche se girato in maniera molto tradizionale. La sceneggiatura,
fedele alle biografie dei personaggi, riesce a rendere l’idea delle profonde
diseguaglianze sociali dell’epoca, oltre a fornire un’idea chiara
dell’evoluzione del pensiero dei due teorici tedeschi…
…Peck
non si concede alibi né scorciatoie, lungo un processo di preparazione
complesso e la cui genesi è stata ripercorsa e commentata dallo stesso regista
con attenzione nel dossier che in Francia ha accompagnato
la distribuzione del film. La drammaturgia di Peck impasta fatti e aneddoti
storici con straordinario rigore. Ammirevole è la capacità con cui riesce a
sintetizzare in poche situazioni chiave un dibattito teorico condotto per anni
con asprezza e intransigenza da Marx ed Engels, contro le altre figure che
monopolizzavano il dibattito critico in Germania e il movimento operaio in
Inghilterra e in Francia. Proprio dal contraddittorio e dallo scambio fruttuoso
tra i due, rigenerato dalla vicinanza di Jenny e della compagna irlandese di
Engels, Mary Burns (Hannah Steele), prende forma l’idea, inizialmente vista con
sospetto da Marx, di un testo divulgativo da mettere a disposizione degli
operai, quello che sarebbe stato appunto il Manifesto. Ma questa
straordinaria avventura dello spirito viene ripercorsa con una altrettanto
straordinaria sensibilità materialistica nei confronti del dato fenomenologico,
le concrete condizioni di esistenza nell’Europa degli anni Quaranta
dell’Ottocento: tutto, dall’abbigliamento agli arredi, dalle posture ai
dialoghi, dai pasti all’uso della luce, è intriso di un grado di realismo
documentale prodigioso, che finisce per contagiare gli stessi interpreti,
diretti con notevole sicurezza, a partire da una retorica filmica moderna,
asciutta ed essenziale…
…Ne Il
Giovane Karl Marx le idee hanno un’origine intrinsecamente
sociale. Marx, infatti, non è il genio isolato, che elabora le sue complesse
teorie alla luce di una candela in uno studio buio: scrive, discute, legge,
alimentando e alimentandosi del contesto in cui è inserito. Peck, sceneggiatore
oltre che regista, getta una luce sull’uomo dietro l’idea, e sull’origine
dell’idea stessa, sottolineando brillantemente il condizionamento subito da Marx
da parte di altri pensatori dell’epoca ed esplicitando chiaramente la coralità
della nascita del pensiero, presentando la teoria marxista come il centro di
una ragnatela di idee, influssi e studi. Dalla filosofia hegeliana agli
economisti ottocenteschi, dagli studi sociologici di Engels alle discussioni
pubbliche dei socialisti francesi. Un prodotto ammirabile sia dai più incalliti
marxisti che dai loro acerrimi nemici. Sullo sfondo dei simboli della fabbrica,
di cui il film è intessuto, nella stanza buia di una povera casa ottocentesca,
lo spettatore assiste alla stesura dell’incipit di uno dei testi più temuti e
amati della storia politica dall’ottocento ai giorni nostri, ma questo film non
è adatto per chi cerca il dogma, e l’esaltazione di questo stesso, quanto
piuttosto per chi è ammaliato dall’idea.
…Le jeune Karl Marx è
un film filosofico e letterario, perché mette in primo piano la produzione
teorica dei due padri fondatori del comunismo. Altri sono i testi non
semplicemente citati, ma la cui stesura diventa parte integrante del plot: per
esempio Le tesi su Feuerbach (scritto nel 1845), che Marx e
Engels avrebbero buttato giù per sancire la loro nuova amicizia al termine di
una notte di eccessi alcolici; o Miseria della filosofia (1947),
cui Jenny Marx avrebbe dato un titolo molto più ironico e sibillino. Proprio la
scelta dello scritto iniziale e di quello finale, tuttavia, mostrano che la
strategia di Peck non è semplicemente storica, ma piuttosto sistematica. Il
primo riferimento pone l’accento sulla tematica della cosiddetta accumulazione
primitiva, formulata ancora acerbamente negli anni ’40, facendone una chiave di
lettura per l’intero pensiero marxiano. Peck sembra qui raccogliere la tesi di
quei critici marxisti, come Rosa Luxembourg, o più recentemente Silvia Federici
o David Harvey, secondo i quali la violenta espropriazione da parte del
capitale delle risorse condivise collettivamente, come i rami caduti dagli
alberi, non stia semplicemente all’origine del capitalismo, ma ne rappresenti
la condizione fondamentale e costante di riproduzione. Per quanto riguarda la
divulgazione delle idee portanti del comunismo, affidata alle pagine del
Manifesto più famoso della storia, è evidente che il regista vuole stabilire
una continuità tra il momento storico delle sue origini europee e le lotte più
recenti che possono dirsi, in qualche modo, ispirate da questa tradizione.
La prova più
evidente di una tale continuità la si trova nei titoli di coda, in cui le note
di Bob Dylan accompagnano una carrellata gioiosa di scene che ritraggono alcuni
degli eventi o personaggi simbolo dell’emancipazione socio-politica nel
ventesimo secolo: Che Guevara, il Muro di Berlino, Nelson Mandela, #Occupy.
Ma non è tutto. Nel corso del film, altri temi vengono toccati il cui
potenziale riflessivo non ha perso affatto di attualità. Due in particolare mi
pare importante rilevare: la natura agonistica del movimento, o del partito, e
il ruolo della teoria in relazione alla prassi rivoluzionaria.
Il primo punto è
probabilmente, se letto in chiave di attualità, il più problematico. Le scene
centrali del film sono dedicate alla sofferta mossa politica di Marx e Engels
di trasformare la Lega dei Giusti in una decisamente più combattiva, la Lega
dei Comunisti. Nel suo discorso durante il congresso di Londra nel giugno 1847,
Engels espone gli argomenti in favore della nuova Lega criticando soprattutto
il punto di vista astrattamente morale e l’ideologia orientata alla
conciliazione universale, all’amore e alla fratellanza che avevano
caratterizzato il movimento fino a quel momento. Alla luce di quello che oggi
sappiamo sui cosiddetti “socialismi reali”, queste critiche possono apparire
problematiche se interpretate semplicemente come rifiuto della morale tout
court e giustificazione della violenza. Ma Peck sembra qui piuttosto
presentare i propositi di Engels e Marx come il tentativo di fondare la prassi
trasformatrice non su astratti punti di vista morali, sull’ideale cristiano
della fratellanza o dell’agape, o sulla volontà di raggiungere un’intesa con
l’umanità intera. I principi troppo generali e gli ideali non sono infatti in
grado di afferrare le condizioni materiali esistenti; le emozioni positive
generalizzate, d’altra parte, non possono che tradire un’inefficace ingenuità
di fronte alle brutture, nefandezze e sofferenze dell’ordine sociale dato. La
conoscenza, innanzitutto empirica, della complessità in cui ci si trova ad
agire, l’attenzione strategica per le conseguenze possibili delle azioni, la
capacità di sopportare dissenso e incomprensione, la comprensione delle
differenze costitutive di un “soggetto” rivoluzionario in trasformazione:
queste le caratteristiche necessarie, secondo Peck, per una prassi
socio-politica che potremmo anche chiamare, con Dewey, un “comunismo
dell’intelligenza.”…
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