domenica 1 giugno 2025

Scomode verità – Mike Leigh

il film si concentra sulla vita delle famiglie di due sorelle, una, quella di Chantelle, solare, ottimista, due figlie sorridenti, l'altra (quella di Pansy) depressa, il mondo ce l'ha con lei e lei con il mondo, è triste, senza futuro, un marito e un figlio senza sorriso.

un piccolo grande film, piccoli movimenti tellurici nella mente di Pansy, tutto nasce dall'infanzia delle due sorelle, Pansy, la sorella grnde, ha sofferto molto, e non si è mai più ripresa dai problemi della sua gioventù, un buco nero ha occupato il posto del cuore e la sta mangiando col marito Curtley e il figlio Moses.

buona (antirazzista e turbata) visione - Ismaele

 

 

 

 

Forse ci sono altri paradossi da esaminare, per chiudere il cerchio di Scomode Verità. Il primo è che l’autorialità di Mike Leigh è più difficile da tracciare rispetto alla vocazione, più limpida e politicamente accentuata, di un Ken Loach, proprio per la sua natura non convenzionale. Leigh costruisce il suo inconfondibile sguardo sul mondo sulla parola prima che sull’immagine e tramite un lavoro intenso con gli interpreti – dai mesi di prova prima di girare al contributo degli attori nella costruzione dei personaggi – suggerendo un modo di fare cinema d’autore anomalo: collettivo e per nulla individualistico. Poi c’è l’aspetto puramente formale. L’elegante e ricercata fotografia di Dick Pope è limpida, pulita, dalla precisione geometrica, mai ostentata né paga della sua bellezza. Il lavoro sul sonoro, straniante, puntuale ma non ingombrante di Gary Yershon racconta una storia simile. Scomode Verità è uno dei film più riusciti e straordinari dell’anno per la capacità di raccontare la sua verità armonizzando e valorizzando suono, immagine, parola, senso del cinema e sentimento. Perderlo è peccato mortale.

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A scanso di equivoci, Scomode verità di Mike Leigh non è un film di cattiva fattura. È piuttosto una fotografia respingente e irrisolta di un quadro familiare tutt’altro che sano e ordinato, che vorrebbe in quanto tale, condurre alla compassione, o peggio all’empatia, nei confronti di una protagonista tutt’altro che accessibile. L’insofferenza di quest’ultima, che ha inizio nei primissimi minuti del film, non tarda infatti a scemare, crescendo sempre più, fino ad un’escalation di verbosità e sovrascrittura degna del cinema ultimo di Denzel Washington (Barriere), seppur non replicabile.

Se è vero infatti che non sempre è permesso empatizzare con i protagonisti (ne è un esempio concreto La zona d’interesse), è vero anche che la tesi dell’autore, in tal senso, debba necessariamente essere chiara. Leigh sceglie di non esserlo, imprigionando le indubbie potenzialità del racconto, nelle complessità fin da subito insostenibili della sua protagonista, spingendoci senza remora alcuna a comprenderla fino in fondo. La tesi si fa pericolosa, lasciando allo spettatore la possibilità di farsi del male, o altrimenti volersi bene.

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Alla fine Leigh ci spinge, anzi ci costringe, a riconoscere l'umanità nascosta in ognuno di loro, e ad abbracciare la loro esistenza danneggiata, comprendendo fino in fondo il loro male di vivere, o il loro tentativo di non rimanere schiacciati dalle dinamiche famigliari in atto. Qui non ci sono mostri, men che meno l'insopportabile Pansy, ma solo esseri umani che cercano di tirare avanti come possono, davanti alle svolte inaccettabili della loro vita e alla violenza delle altrui reazioni di fronte a tanto sconcerto esistenziale.

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Il cinema di Leigh in questo momento storico denuncia la sua posizione contro la “moda” transumanista. Il suo occhio continua ad essere un registratore scrupoloso di tutte le emozioni e il racconto si snoda con un linguaggio cinematografico classico, quasi un kammerspiel, più che altro per la prevalenza assoluta degli interni, che rifiuta virtuosismi “inutili” attraverso il filo rosso della tensione emotiva che ha diversi picchi e climax.

Insomma, il cinema di nessun eroe, che ogni giorno lotta per la sopravvivenza: c’è una bella scena che fa riferimento perfino ai volontari di varie associazioni, considerati anche loro ladri, in una società dominata dalla ipocrisia e dal marketing che ha preso il peggio pur di ingannare. Così un’altra scena in un negozio di divani ci regala un’altra esplosione di rabbia più che giusta di fronte all’ennesima commessa “sorridente”…  Non è solo il mondo di Pansy, è anche il nostro, chi è che non voleva qualche volta sottrarsi al famigerato sorrisetto dei commessi nei negozi, per dare semplicemente uno sguardo?

La nostra società è diventata una sorta di finta copertina luccicante, con le istruzioni a cui tutti devono rifarsi, dove si nasconde il buio e il grigiore di una vita comunque difficile o anche che non vuole essere avvilita dal conformismo delle regole, della “buona educazione”.

Anche se in fondo Leigh ci offre due possibilità di vedere il mondo: come Pansy o come Chantelle, ma in fondo siamo quasi tutti un po’ l’uno e l’altro per cercare di sopravvivere: una risata, ed un pianto proprio come nella suddetta scena madre del film, un coacervo di emozioni che caratterizza il genere umano “stressato” da una società che chiede sempre il raggiungimento di obiettivi. Cosicché un figlio di 22 anni che vaga in giro senza meta o sta chiuso nella stanza con videogames o libri sul volo, non fa solo tenerezza, ma anche preoccupazione e rabbia per il suo futuro (“come lo vedi il tuo futuro tra 25 anni?”, chiede ansiosa la madre).

Ancora una volta ringraziamo il maestro Leigh per questo viaggio intenso attraverso semplici, “dure” e “vere” emozioni. Per continuare a vivere come uomini e donne… in lotta. Infine, ricordiamo anche il direttore della fotografia collaboratore abituale di Leigh, Dick Pope, scomparso appena lo scorso ottobre.

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…Mike Leigh, in questo film che è tra i suoi capolavori, sembra chiederci di non insistere. E di lasciare che i sentimenti, anche i più sgradevoli, facciano il loro corso. Restando magari inesplorati, indeterminati, innominati. E ciò, Leigh lo sa bene, è ancora più straziante: la scena della Festa della mamma nell’appartamento di Chantelle è a questo proposito quasi insopportabile per imbarazzo e tensione. Significa, quindi, permettere al dubbio non di governare il presente, piuttosto di registrarlo, nel senso di prenderne le misure. Lontano dall’arroganza dell’infallibilità e dalla comodità della convinzione. Un dubbio che fa rima con insicurezza, perplessità, costante indecisione, e il cui nemico numero uno è la necessità, opprimente però inevitabile, di una responsabilità, in quanto persona, parte di una famiglia, di una collettività, di un tutto

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