lunedì 16 giugno 2025

Antonia. - Ferdinando Cito Filomarino

l'ottima opera prima di Ferdinando Cito Filomarino (pronipote di Luchino Visconti) è dedicata alla poetessa Antonia Pozzi, suicida a 27 anni.

Antonia è una ragazza sensibile, s'innamorava di tutto/i (per citare Fabrizio De Andrè), ma l'unica musica è una canzone di Piero Ciampi.

Antonia ama da studentessa la scuola, la letteratura, insegna anche in un liceo.

è benestante, è esigente con se stessa e gli altri, tutta gente che non ha tempo per lamore, lei ama, spesso non corrisposta come vorrebbe, e scrive, affida i suoi pensieri ai quaderni, scrive poesie (che verranno pubblicate solo dopo la sua morte).

il film non "recita" le sue poesie, il regista ne mostra alcune.

Linda Caridi (che interpreta Antonia) è bravissima, non urla, soffre in silezio, non vuole disturbare nessuno.

cercatelo, non vi deluderà.

buona (poetica) visione - Ismaele

 

 

 

 

il bello del film di Cito Filomarino è che ne rispetta il mistero, non sforzandosi mai di dare una spiegazione psicologistica o sociologistica al malessere di Antonia, mostrandocelo pudicamente, e basta. Con tocchi lievi e allusioni, con molti silenzi e scarne parole, si pensi solo a come il regista risolve la disperazione di Antonia che, dietro una vetrata liberty, sente il colloquio con cui il padre liquida ogni possibilità di una relazione tra lei e un suo insegnante. Succederà ancora, perché il destino di Antonia sembra quello di non essere mai riamata. Intorno a lei nomi che saranno famosi, Remo Cantoni, il maître à penser Antonio Banfi, il futuro poeta Vittorio Sereni. Eppure Antonia non riesce a farsi prendere sul serio e a pubblicare le sue poesie, restando un’incompresa, un’inconclusa, un’incompiuta. Non c’è mai dramma, né tantomeno patetismo in questo film, che sceglie l’osservazione partecipe ma da lontano del suo personaggio. Il tono dominante è quello del rigore, e del pudore. Si tende alla sottrazione, a rischio di sfiorare l’anoressia espressiva. La vita di Antonia Pozzi ci scorre davanti come implosa, più mostrata che rappresentata, in un understatement molto milanese, molto lombardo, poco italiano. Qui non si urla, non si esagera, non si piange, neanche quando si decide di ammazzarsi. Una milanesità che Cito Filomarino riesce a trasmettere perché evidentemente la conosce bene. Tutto è credibile. Quella casa a Pasturo, in Valsassina. Quell’amore così aristo-milanese per le montagne, per l’arrampicata (lo sport più bello e nobile del mondo). Quelle passeggiate nelle campagne di Lombardia dove ti sembra di sentire scorrere l’acqua delle rogge (e mi vengono in mente certe scene analoghe di La monaca di Monza, film di un altro regista di casa, Eriprando Visconti). Si allude pudicamente anche a una possibile attrazione omosessuale di Antonia per l’amica Teresita, ma non aspettatevi scene calde, non ce ne sono. La protagonista resta fino alla fine un mistero, un inafferrabile ectoplasma. Film anomalo, fin troppo trattenuto per la media del nostro cinema…

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Il film ha un cuore ed è una scena lunga quanto una canzone: Antonia è di spalle adagiata su un fianco, nuda, con le gambe rannicchiate invisibili e il viso girato di profilo verso lo spettatore; non è sola… la voce e la musica di Piero Ciampi irrompono e l’accompagnano, si tratta dell’interpretazione di Va, canzone  del  1976 (musica di Gianni Marchetti), il pezzo realizza un incontro perfetto. I versi dipanano il racconto. C’è la forza e la dolcezza, ci sono sguardi e immaginazione, è presente poesia e musica, e tutto sembra attraversare il corpo, tutto passa attraverso esso anche le parole stesse della canzone che ne sono amplificate nel senso. È il corpo della poetessa o della poesia? È una magia che il regista compie e a cui va riconosciuto merito per originalità e coraggio insieme. È lì che il film diventa opera (e pensare che si tratta di opera prima!)…

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Antonia si situa così in una sorta di terra di nessuno: produzione media senza essere ricca, anti-televisiva per concezione e per ritmo narrativo, popolata da volti poco noti, rigorosamente ellittica nel racconto. Sarà forse per questo suo volersi porre in disparte che il film s’è finora visto poco e che, anche al Festival di Torino, è passato quasi sotto silenzio, tra l’altro fuori concorso, mentre avrebbe meritato senz’altro la competizione internazionale.

Raccontando la vicenda di Antonia Pozzi, poetessa vissuta negli anni del fascismo e morta suicida a soli ventisei anni, Filomarino aderisce a un’esistenza inquieta e febbrile mettendola a confronto con l’atmosfera ovattata degli anni del regime. Tutto è rigido e sbiadito, con il padre di lei che marcisce nello studio e con i potenziali innamorati che sono guidati più da una forma esasperata di auto-controllo che dalla passione; mentre al contrario Antonia vorrebbe fortissimamente vivere, vorrebbe scardinare l’esistere, ma istintivamente e quasi senza intenzione, non sapendo che ogni smottamento d’equilibrio nella società del Ventennio è impossibile. Infatti, anche se non vi sono riferimenti diretti al regime fascista, Filomarino sembra alludervi con costanza, arrivando a disegnare una sorta di cappa invisibile che irrigidisce l’esistere e che rende, ad esempio, inaccettabile il trasporto con cui Antonia bacia appassionatamente una sua amica.

Niente scandali comunque in Antonia: la giovane viene sempre tenuta a freno e controllata, tanto che quando esagera sono proprio le persone che dovrebbero esserle più vicine a giudicarla negativamente (si pensi ancora all’episodio dell’amica che, una volta ricevuto il bacio da Antonia, scappa a gambe levate).
Solo in montagna o nella solitudine della sua stanza la giovane ha l’impressione a tratti di trovare la piena espressione del vivere o, almeno, di potersi concedere di essere sincera con se stessa e con l’abisso esistenziale. I monti dalla vegetazione rada e dall’aria austera regalano un senso di vuoto, in cui la protagonista si muove come nei meandri della sua mente, mentre la stanza non è mai abbastanza accogliente e calda – grazie sempre alla fotografia di Sayombhu Mukdeeprom – e, anzi, è disperatamente ingannevole, come dimostra la mirabile sequenza in cui Antonia, piangendo, si dimena nuda sul letto mentre si sente come commento extradiegetico la meravigliosa canzone di Piero Ciampi Va. In questo frammento c’è la sintesi perfetta del film e la dimostrazione dell’ottimo lavoro fatto da Filomarino: si può e si deve osare, anche e soprattutto nel nostro ovattato sistema cinematografico.

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Il cinema “neonato”di Ferdinando Cito Filomarino, al suo esordio nel lungo dopo il cortometraggio Diarchia, è già capace di fondere in sé la preparazione e la sensibilità di un giovane intellettuale della cultura, non tanto genericamente umanistica, quanto specificatamente letteraria, figurativa, storica e musicale senza dimenticare l'afflato e la passione per le traiettorie del piacere cinematografico. Un cinema però che non segue una linea narrativa tradizionale ma che crea il racconto attraverso la concentrazione di diverse voci, immagini, frammenti, per trarne un mosaico policromo, un concerto polifonico dove la bellezza è qualità essenziale del mondo e la vera sfida, completamente riuscita, per il regista giace nel coraggio di filmarne la naturale poesia.

Antonia è un film dove lo spettatore è chiamato a cogliere qualcosa di diverso, a evocare: nessun pertugio di speranza, nessun approdo rasserenante, dove si è addirittura indotti a pensare che in questa vicenda di vita e di morte non sia rintracciabile alcuna ragione ma, in Antonia Pozzi, la consapevolezza del proprio dramma esistenziale coesiste con la percezione della bellezza della vita e della natura e dunque, cessata la forza e la capacità di coglierla, non resta che scegliere l'oblio e affidarsi all'auspicio della luce fioca ma avvolgente della speranza di una rinascita.

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