sabato 31 maggio 2025

Balentes - Giovanni Columbu

intanto il titolo, la parola balentes riprende il significato originario di uomini di valore, che affrontano imprese difficili e rischiose, non per un vantaggio personale, ma per una legge superiore, che non è quella dello stato italiano.

Ventura e Michele, due ragazzi sardi, intorno al 1940, vogliono evitare che i cavalli vadano a morire in guerra, seguono la legge morale che hanno dentro, e scusate se è poco.

il cavallo è un simbolo di libertà e di vita, dappertutto, e non può essere mandato a morire, in guerra o al palio di Siena (bestemmia?). 

il film d'animazione, girato come agli albori del cinema, sulla base di 30000 disegni di Giovanni Columbu, disegni che vengono "animati", da qui nasce il cinema di animazione!

il disegno è spesso "suggerito", tocca allo spettatore "partecipare" alla storia, dando la propria lettura e visione.

in certi momenti sembra un western, i due balentes potrebbero essere dei giovani indiani d'America, che liberano i cavalli dei soldati che uccidono gli indigeni.

anche il treno sembra un treno del far west, come in certi casi sono i treni sardi.

che sia un treno sardo si capisce dal fatto che trasporta le casse da morto degli uccisi, nell'incivile America gli indiani morti li avrebbero lasciati in balia di avvoltoi e lupi.

Giovanni Columbu racconta che per questo film (eccezionale, se non si è capito) ci sono voluti sette anni di lavoro, mica è un cinepanettone.

se vi volete bene cercatelo e soffrite insieme a Ventura e Michele, nessuno se ne pentirà, vedrete un film che resterà nella storia del cinema.

buona (unica) visione - Ismaele

 

 

Columbu, che viene da una prolifica carriera tra arte, televisione e cinema stesso, si mette alla prova in un formato nuovo e sforna un'opera di folgorante originalità stilistica.
Sue sono infatti le migliaia di disegni, su acrilico e carta, che vengono poi animate al rotoscopio per dar vita a immagini di grande dinamismo pittoriale in bianco e nero. Una tecnica che suggerisce gli eventi più che catturarli appieno, e che gioca con le sagome e le ombre sui paesaggi a contrasto.
Benché riempiano spesso lo schermo attraverso lo spazio negativo, tali composizioni non sono mai inerti; grande merito è anche del notevole lavoro sul sonoro, attento ad accompagnare i dialoghi con un tangibile spettro uditivo elevato al medesimo livello: il vento, il crepitio del fuoco, i passi sul terreno e tutti gli altri elementi del luogo radicano le animazioni in un reale che si costruisce passo passo nella mente dello spettatore.

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Ventura e il suo amico Michele corrono, in fuga. Perché il furto di cavalli? Tutto è ammantato di leggenda. I due erano benestanti, non rubavano per il denaro. Forse si trattava di liberare gli animali per salvarli da una brutta fine in guerra, come teme il bambino della famiglia di contadini che ha venduto quei cavalli all’esercito, proprio per poterlo mantenere agli studi, o di rubare ai ricchi per dare ai poveri. Forse proprio per pura “balentia”, la virtù, lo spirito cavalleresco dell’uomo sardo che porta avanti nelle condizioni sociali e ambientali più avverse. Spirito incarnato in questo eroe definito come un “cabaddeddu”, un cavallino, per il suo amore per i cavalli e per il suo portamento. C’è qualcosa di cristologico – ancora per l’autore di Su re – nella morte di Ventura, con le donne velate sarde che lo piangono, intonando gli “attitos”, i pianti funebri. In fondo si tratta ancora di un archetipo declinato nella cultura sarda. La stessa consistenza eterea dei personaggi disegnati prefigura una loro esistenza da fantasmi, o da risorti. I personaggi si muovono in una Sardegna, come il resto dell’Italia, avvolta nelle fosche nubi del fascismo, in una Sardegna interna premoderna attraversata da cavalli e treni a vapore. Per Columbu si tratta anche di un primitivismo dell’immagine in movimento stessa, tra citazioni del Vampyr di Dreyer (la ripresa dal basso del punto di vista di Ventura morto come quella dalla bara di quella pellicola classica, anche riprendendone la musica), tra i cavalli di Muybridge e i treni dei Lumiére, le didascalie, in sardo, da cinema muto, l’iris, le ombre cinesi. Uno scavare fino ad arrivare ai meccanismi primari delle immagini in movimento messi a nudo, righe e cerchi che sono l’intelaiatura grafica dei treni in viaggio. In parallelo con lo scavare nella cultura ancestrale sarda.

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…Basterebbero forse i paesani che, non capendo le intenzioni dei ragazzi, li identificano come «senza testa sulle spalle», pensando al loro atto semplicemente come a una bravata, o al massimo come a un furto per necessità. Eppure, a differenza del loro amico che non parteciperà all’azione, ma che metterà loro la pulce nell’orecchio parlando di come il padre abbia dovuto vendere i propri cavalli all’esercito per pagargli gli studi, i due protagonisti di Balentes non sembrano avere problemi economici di alcun tipo. Il loro atto di coraggio è semplicemente figlio di un eroismo poetico e naïf, utopista, visionario, che il film fa proprio nel narrarli nel suo altrettanto coraggioso, altrettanto lirico e altrettanto visionario mosaico di stili animati, e nel suo prodigioso tappeto di suoni, rumori, voci, passi, crepitii, spari e musiche noise straordinariamente ipnotiche e realistiche, così perfettamente complementari all’impressionismo suggestivo e pittorico delle immagini (im)possibili, dei contrasti, delle trasparenze, della fluidità dei movimenti più e meno dinamici di figure a cui non serve un volto, perché il loro volto siamo tutti noi. E poi delle linee, dei cerchi, delle forme ora stilizzate e ora definite. Dei corpi che emergono dal buio come in un prisma di ricordi e di sogni, o forse semplicemente di storie che, dai loro apparenti margini caliginosi e indistinti, contribuiscono a fare la Storia di una famiglia, di un paese, di un’isola, di un popolo, dell’Italia, dell’Europa, forse dell’intero mondo. Elementi cardine di un film, presentato nella multiforme sezione Harbour dell’International Film Festival Rotterdam dopo il primo passaggio in Alice nella Città all’ultima Festa del Cinema di Roma, che testimonia ancora una volta e pure nell’animazione lo straordinario stato di salute che sta vivendo negli ultimi anni il cinema sardo, con Giovanni Columbu intento a passarsi di volta in volta il testimone con Bonifacio Angius e Salvatore Mereu in una piccola Nouvelle Vague isolana fatta di identità e di inquietudine, di antico e di moderno, di malinconia e di orgogliosa appartenenza a una cultura primigenia e proprio per questo così pura e ancestrale. Un cinema che si identifica nel territorio da cui nasce e che si immerge fino alle sue radici più mistiche e profonde, arroccate, tradizionali, magiche, immutabili come gli spiriti. A salvare dall’oblio una memoria familiare, custode di un’intera civiltà, che sarebbe altrimenti andata perduta, e (letteralmente) con le proprie mani consegnarla all’eterno.

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…Amassing around 30,000 drawings and paintings over the course of production, Columbu invokes the elemental Sardinian landscape as a series of abstract minimalist visas, sometimes using just the sparest of brushstrokes, or even an entirely blank screen. He also incorporates scratches and stains, inky smudges and runic blotches randomly generated during the animation process into the film’s overall aesthetic, creating a looping, flickering, glitchy feel similar to that of degraded vintage celluloid.

The trade-off for all these arty flourishes is that the narrative thread of Balentes sometimes get a little lost in stylistic swerves and loops: dialogue is fragmentary, the timeline diffuse, naturalistic performances reduced to blocky modernist graphics by rotoscoping and other techniques. But Columbu helps ease this problem with sparing use of explanatory inter-titles written in the Sardinian language, a dialect closer to Latin than modern Italian. In another knowing nod to silent-era cinema, the soundtrack also incorporates elements of Wolfgang Zeller’s mournful orchestral score from Carl Theodor Dreyer’s early horror classic Vampyr (1932). The cumulative effect is a melancholy memory palace of a film that feels both antique and modern, strikingly avant-garde yet hauntingly beautiful.

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…La tecnica adottata parte da una ricerca sulle origini dell’animazione, su soluzioni espressive dimenticate o escluse, come i primi esperimenti di fine Ottocento, ma anche dai riferimenti alla pittura iperrealista e all’espressionismo cinematografico. Ogni fotogramma nasce da un’interazione tra gesto impulsivo e forma contenuta, grazie all’uso di mascherature in pellicola plastica che permettono al colore – acrilico – di seguire percorsi imprevisti, restando però nei contorni definiti.

Ne risulta un’animazione rarefatta, dove le figure emergono e scompaiono come fantasmi, attraversando “porte invisibili”, evocando la memoria, la perdita, la persistenza. “L’emozione che si provava allora – racconta Columbu – mi suggeriva che qualcosa non si fosse mai del tutto dissolto”.

Il racconto di Balentes nasce da un ricordo familiare, da un racconto della nonna del regista, che aveva conosciuto uno dei protagonisti: Ventura, detto Cabaddeddu, giovane nuorese dal portamento fiero, appassionato di cavalli. La sua morte, durante la fuga, colpito dai barracelli, è diventata leggenda popolare e oggetto di canti funebri (“attitidos”) che ancora oggi vengono ricordati.

Il film è, al tempo stesso, atto di resistenza artistica e civile: resistenza alla normalizzazione del segno, alla velocità del gesto digitale, ma anche alle narrazioni imposte della Storia. La Sardegna che racconta Columbu è una terra di contrasti – tra tradizione e modernità, natura e meccanizzazione – in cui la memoria non è mai solo evocazione, ma parte viva e politica del presente…

da qui

 

qui un'interessante intervista a Giovanni Columbu

 

 

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