il protagonista del film è un vecchio elefante, di cui ha cura un uomo che lo tratta come fosse uno di famiglia, anzi meglio.
e poi la natura, la giungla sono protagonisti, e infine anche alcuni bracconieri (armati per uccidere), che cercano un elefante da abbattere.
dal titolo si capisce che è un film di morte, l'unico elefante morirà e troverà la pace.
la musica, dello stesso regista, ha un ruolo importante.
è cinema a cui abbandonarsi, farsi prendere per mano, guardare e ascoltare.
chi è abituato solo ai film a cento all'ora soffrirà, ma non si deve arrendere, anche lui sarà premiato.
buona (contemplativa) visione - Ismaele
scrive Lorenzo Paci:
Immissione: Presentata alla Viennale e
passata in sordina tra i vari festival, l’opera segna al contrario il punto di
svolta nella carriera del regista ispanico, che sette anni dopo ‘Avalanche’ torna a cimentarsi col lungometraggio.
Svolta appurata in questo caso in termini di qualità, approccio, durata e
spessore.
Intreccio: Quattro frammenti compongono
l’itinere dantesco di un elefante – ultimo rimasto
della sua specie – verso un cimitero, sito legato da sempre a miti e leggende
di rara grandiosità. In un mondo sull’orlo del collasso apocalittico, quello in
atto è il ritorno alle origini e del vetusto pachiderma e della realtà stessa.
Ogni cosa viene rapidamente inghiottita da un’oscurità opprimente, quindi
rilasciata tra magnifiche, sterminate vedute.
Tempo: Non ci è data alcuna spiegazione
riguardo lo scorrere del tempo. Ore, giorni o addirittura anni trascorrono come
a definire lo status allegorico di una favola che tratta di caducità, bramosia
e decadenza di mondi lontani seppure nel presente. Il tempo di cui parla Casas
può essere inteso come quello di una vita intera, ciclico in quanto affetto da
costanti ben precise (la morte tra tutte), può altresì rifarsi ad un battito
d’ali fugace e distante o può piuttosto non determinarsi affatto, non tanto
poiché irrilevante quanto proprio per via della sua inconoscibilità.
Spazio: Quella spaziale è la costante
sulla quale Casas fa più di tutte riferimento, è anzi fondamentale nell’ottica
del discorso antropologico da egli stesso addotto. Il paesaggio naturale è la
culla della civiltà ai suoi primordi, rappresenta quanto di più puro e grezzo
risieda nell’essere umano ma anche l’assenza, la perdita di raziocinio e la
conseguente morale fatalista. La foresta è un luogo tetro incognito,
rappresenta il cammino caotico e vorace dell’uomo che non segue né si lascia
alle spalle sentieri. I toni cupi propri dell’opera non impediscono tuttavia un
ritorno al locus amoenus, a quell’intima
predilezione per la bellezza che offre armonia ed equilibrio non solo dal punto
di vista emotivo quanto proprio dell’inquadratura.
Forma: Stilisticamente parlando ci si
avvicina all’idea di un Cinema in grado di totalizzare le esigenze
avanguardiste delirando il costrutto narrativo puro e lineare e al contempo far
propri approcci estremi, sinonimi del Cinema contemplativo di maestri come
Rivers, Reygadas ecc. Un documentario, quindi, nella misura in cui
un’apocalisse tratti della fine del genere umano, catarsi e distruzione per un
nuovo inizio: ma anche avanguardia laddove si comprendano i limiti espositivi e
pratici di uno script fondatamente più
azzardato, cupido. In tutto ciò, il complesso lavoro sul sonoro va a rivestire
un ruolo quasi centrale, imponendosi agli occhi e alle orecchie dello
spettatore. Ogni luogo (e non luogo) diviene invero un tempio, dal sussurro al
fragore ogni rumore viene caratterizzato e posto in primo piano subordinando
azioni e parole laddove presenti (in quanto spesso mancanti). Rincorrendo
l’essenzialità dello sguardo, a sopravvivere lo spettatore sono in ultimo
l’oscurità e un insistente, penetrante stridio; i protagonisti, dal canto loro,
soccombono, si dissolvono in quelle tenebre avvolgenti come niente fosse.
Valore: Come a tratti deducibile da
quanto detto fin’ora, si tratta di operare su concezioni di suono e di spazio
del tutto nuove. L’esperimento presentato si basa sulle potenzialità del sonoro
in un presente genesiaco, dominato dalle pure potenzialità della natura
incontaminata. In quest’ottica, l’umanità (rappresentata da un manipolo di
cacciatori senza scrupoli), al contrario protrattasi fino al termine dei giorni
per via delle sue stesse devastazioni, si aggrappa disperatamente a quell’unica
speranza di sopravvivenza (ovverosia l’elefante). Ecco allora che amplificare
percezioni e uditive e visive acquisisce un’importanza centrale laddove a fare
da vero protagonista è il silenzio. Si tenta di proporre la storia di
un’apologia interpretandone i tratti naturali: buio perenne, tuoni in
lontananza poi una grande luce, e di nuovo la pace.
…Cemetery offre un florilège de traces :
ondes radiophoniques comme résidus de l’humanité, empreinte de pattes
d’éléphant dans la tourbe d’un ruisseau comme preuve du passage de l’animal,
braise encore fumante comme indice de présence humaine au milieu de la jungle
et vestige de temple ancien comme stigmate de monde passé.
La structure même du film obéit à une logique de trace
qu’une présence cède à son absence. Découpé en quatre chapitres, chacun assigné
à une esthétique spécifique, Cemetery s’ouvre sur une
première partie documentaire (option science-fiction) qui enregistre les
préparatifs de départ du mahout et de l’éléphant. La seconde est un thriller
fantastique qui suit la traque mortifère que mènent les braconniers partis sur
les traces de l’animal.
La troisième, la plus expérimentale, est un abstrait
cheminement vers la mort où, à travers les yeux du pachyderme, on s’enfonce
dans une jungle de plus en plus sombre, sombre jusqu’au noir le plus total,
parfois rehaussé de touches de lumière quasi invisibles. La mort ne se
voit pas ; Cemetery est un film qui guette la mort mais ne
la montre jamais. La dernière, picturale, est une suite de paysages sur
lesquels le soleil se lève qui vient ravir à l’ombre son empire…
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