venerdì 2 maggio 2025

Cemetery – Carlos Casas

il protagonista del film è un vecchio elefante, di cui ha cura un uomo che lo tratta come fosse uno di famiglia, anzi meglio.

e poi la natura, la giungla sono protagonisti, e infine anche alcuni  bracconieri (armati per uccidere), che cercano un elefante da abbattere.

dal titolo si capisce che è un film di morte, l'unico elefante morirà e troverà la pace.

la musica, dello stesso regista, ha un ruolo importante.

è cinema a cui abbandonarsi, farsi prendere per mano, guardare e ascoltare.

chi è abituato solo ai film a cento all'ora soffrirà, ma non si deve arrendere, anche lui sarà premiato.

buona (contemplativa) visione - Ismaele


 

 

 

scrive Lorenzo Paci:

Immissione: Presentata alla Viennale e passata in sordina tra i vari festival, l’opera segna al contrario il punto di svolta nella carriera del regista ispanico, che sette anni dopo ‘Avalanche’ torna a cimentarsi col lungometraggio. Svolta appurata in questo caso in termini di qualità, approccio, durata e spessore.

 

Intreccio: Quattro frammenti compongono l’itinere dantesco di un elefante – ultimo rimasto della sua specie – verso un cimitero, sito legato da sempre a miti e leggende di rara grandiosità. In un mondo sull’orlo del collasso apocalittico, quello in atto è il ritorno alle origini e del vetusto pachiderma e della realtà stessa. Ogni cosa viene rapidamente inghiottita da un’oscurità opprimente, quindi rilasciata tra magnifiche, sterminate vedute.

 

Tempo: Non ci è data alcuna spiegazione riguardo lo scorrere del tempo. Ore, giorni o addirittura anni trascorrono come a definire lo status allegorico di una favola che tratta di caducità, bramosia e decadenza di mondi lontani seppure nel presente. Il tempo di cui parla Casas può essere inteso come quello di una vita intera, ciclico in quanto affetto da costanti ben precise (la morte tra tutte), può altresì rifarsi ad un battito d’ali fugace e distante o può piuttosto non determinarsi affatto, non tanto poiché irrilevante quanto proprio per via della sua inconoscibilità.

 

Spazio: Quella spaziale è la costante sulla quale Casas fa più di tutte riferimento, è anzi fondamentale nell’ottica del discorso antropologico da egli stesso addotto. Il paesaggio naturale è la culla della civiltà ai suoi primordi, rappresenta quanto di più puro e grezzo risieda nell’essere umano ma anche l’assenza, la perdita di raziocinio e la conseguente morale fatalista. La foresta è un luogo tetro incognito, rappresenta il cammino caotico e vorace dell’uomo che non segue né si lascia alle spalle sentieri. I toni cupi propri dell’opera non impediscono tuttavia un ritorno al locus amoenus, a quell’intima predilezione per la bellezza che offre armonia ed equilibrio non solo dal punto di vista emotivo quanto proprio dell’inquadratura.

 

Forma: Stilisticamente parlando ci si avvicina all’idea di un Cinema in grado di totalizzare le esigenze avanguardiste delirando il costrutto narrativo puro e lineare e al contempo far propri approcci estremi, sinonimi del Cinema contemplativo di maestri come Rivers, Reygadas ecc. Un documentario, quindi, nella misura in cui un’apocalisse tratti della fine del genere umano, catarsi e distruzione per un nuovo inizio: ma anche avanguardia laddove si comprendano i limiti espositivi e pratici di uno script fondatamente più azzardato, cupido. In tutto ciò, il complesso lavoro sul sonoro va a rivestire un ruolo quasi centrale, imponendosi agli occhi e alle orecchie dello spettatore. Ogni luogo (e non luogo) diviene invero un tempio, dal sussurro al fragore ogni rumore viene caratterizzato e posto in primo piano subordinando azioni e parole laddove presenti (in quanto spesso mancanti). Rincorrendo l’essenzialità dello sguardo, a sopravvivere lo spettatore sono in ultimo l’oscurità e un insistente, penetrante stridio; i protagonisti, dal canto loro, soccombono, si dissolvono in quelle tenebre avvolgenti come niente fosse.

 

Valore: Come a tratti deducibile da quanto detto fin’ora, si tratta di operare su concezioni di suono e di spazio del tutto nuove. L’esperimento presentato si basa sulle potenzialità del sonoro in un presente genesiaco, dominato dalle pure potenzialità della natura incontaminata. In quest’ottica, l’umanità (rappresentata da un manipolo di cacciatori senza scrupoli), al contrario protrattasi fino al termine dei giorni per via delle sue stesse devastazioni, si aggrappa disperatamente a quell’unica speranza di sopravvivenza (ovverosia l’elefante). Ecco allora che amplificare percezioni e uditive e visive acquisisce un’importanza centrale laddove a fare da vero protagonista è il silenzio. Si tenta di proporre la storia di un’apologia interpretandone i tratti naturali: buio perenne, tuoni in lontananza poi una grande luce, e di nuovo la pace.

da qui

 

Cemetery offre un florilège de traces : ondes radiophoniques comme résidus de l’humanité, empreinte de pattes d’éléphant dans la tourbe d’un ruisseau comme preuve du passage de l’animal, braise encore fumante comme indice de présence humaine au milieu de la jungle et vestige de temple ancien comme stigmate de monde passé.

La structure même du film obéit à une logique de trace qu’une présence cède à son absence. Découpé en quatre chapitres, chacun assigné à une esthétique spécifique, Cemetery s’ouvre sur une première partie documentaire (option science-fiction) qui enregistre les préparatifs de départ du mahout et de l’éléphant. La seconde est un thriller fantastique qui suit la traque mortifère que mènent les braconniers partis sur les traces de l’animal.

La troisième, la plus expérimentale, est un abstrait cheminement vers la mort où, à travers les yeux du pachyderme, on s’enfonce dans une jungle de plus en plus sombre, sombre jusqu’au noir le plus total, parfois rehaussé de touches de lumière quasi invisibles. La mort ne se voit pas ; Cemetery est un film qui guette la mort mais ne la montre jamais. La dernière, picturale, est une suite de paysages sur lesquels le soleil se lève qui vient ravir à l’ombre son empire…

da qui

 

 




Nessun commento:

Posta un commento