lunedì 14 marzo 2016

Kairo - Kiyoshi Kurosawa

uno di quei film che hanno una piccola fama di essere film di culto (come Donnie Darko, Essi Vivono, PrimerVideodrome, per citarne qualcuno) e solo dopo averlo visto capisci perché.
una storia di fantasmi, si potrebbe dire, ma non solo, dentro c'è Internet, uno schermo, pulsioni di morte, il futuro visto come una minaccia, un mondo in fallimento, e l'unica via è la fuga, se si riesce.
tante scene inquietanti, una paura che esplode in certi momenti, non per particolari violenze o sangue che scorre, niente di questo, solo le atmosfere, quello che non vedi, il mistero,  ti intrappolano.
poi non sarà perfetto, ma non importa, resta un piccolo imperfetto capolavoro - Ismaele





Kiyoshi Kurosawa, regista dotato di un particolarissimo stile ironico e visionario, è uno degli esponenti della nuova generazione dell' horror asiatico.

Pulse (Kairo il titolo originale), il suo lavoro più lungo e travagliato (ha richiesto più di sette anni di lavorazione), è un'apocalittica storia di fantasmi che utilizza l'elemento soprannaturale per trattare un tema molto più attuale e concreto: la solitudine. 

Per tutto il film, infatti, si respira un'atmosfera opprimente che però non deriva tanto dall'alone sinistro degli eventi che funestano i protagonisti, quanto dal costante senso di tristezza e di rassegnazione alla vita che accompagna ogni loro gesto, ogni loro parola, denunciando un senso di avversione generale nei confronti della società.

La morte viene dunque trattata con leggerezza, anzi, come una soluzione facile e una valida alternativa al logorio e alla monotonia della vita moderna. 

I personaggi di Kairo, oltre a vivere in un incubo reale, si trovano, all'improvviso, faccia a faccia con la loro coscienza, disturbata e dilaniata da laceranti pensieri che, come fantasmi, infestano le loro menti. I quesiti esistenziali e soprattutto quelli post-mortem trovano una risposta che preferirebbero non ascoltare mai. 

Partendo da eventi sinistri ma comuni, Kairo degenera ben presto in un caleidoscopio turbinante di angoscia, di sofferenza, di destini ineluttabili e, soprattutto, di profonda tristezza e solitudine. 

È il trionfo del pessimismo, l'elogio della solitudine, uno sguardo al profondo pozzo nero che è la vera e propria tomba dell'esistenza. Un viaggio nei recessi più nascosti dell'animo umano che non può portare a nulla di buono, a nulla di positivo, anzi… può portare solamente al nulla, come manifestato dall'inesorabile finale…

…In Kairo ci propone le allucinanti esperienze di alcuni adolescenti giapponesi che, tramite internet, entrano in contatto con inquietanti visioni, fantasmi che la morte ha relegato in una condizione di estrema solitudine, nella quale ambiscono a far precipitare coloro che sono ancora in vita. Ciò che colpisce è qui la dinamica dell’orrore, che rinuncia a qualsiasi stratagemma sanguinolento preferendogli un tocco straniante, per cui gli stessi personaggi, attratti dalle proprie paure come falene dalla luce, finiscono per lasciarsi andare. Più che altro sembrano abbandonarsi senza particolari resistenze alla muta contemplazione di oscenità spettrali, che prima li terrorizzano, e poi li consegnano all’oblio. Così, coloro che hanno scrutato attentamente le immagini del sito da cui proviene la maledizione (a proposito, nessun timore: è escluso che si tratti di www.spietati.it) sembrano avere il destino segnato. Ma di solito non scompaiono al primo contatto con il soprannaturale. Hanno tutto il tempo di tramutare il panico in una sorta di disgusto esistenziale, che li allontana progressivamente dal mondo dei vivi. Fino a trasformarsi in macchie sulle pareti. Le vittime del maleficio aumentano di continuo, svuotando le città, e creando così i presupposti di un finale decisamente apocalittico.
Kiyoshi Kurosawa conduce il gioco, fino a questa accelerazione finale, con una solenne lentezza, che apre la rappresentazione filmica all’accumulo di segni rivelatori. Questo, anche grazie ad una sapiente fotografia che privilegia i colori smorti, le tonalità grigie e sfumate. Ma grazie soprattutto alla consapevolezza di comunicare un profondo disagio, che attraverso l’esibizione dell’orrore allude ad una solitudine diffusa, generalizzata, senza scampo; una solitudine che spiazza e corrode l’attuale società nipponica così come le altre, ugualmente soggiogate da immagini che scorrono sui monitor sostituendosi, gradualmente, alla vita reale.

La corsa in auto gialla tra strade deserte a zigzagare i fumi nerissimi di altri automezzi bruciati possiede una potenza ed un furore secondi solo ai filmati web dei fantasmi che avanzano. Pulse riesce con la semplicita' disarmante della rappresentazione del terrore dilagante e sottotono a far paura davvero: e tra stanze sigillate di nastro adesivo rosso che racchiudono e isolano poteri malvagi inimmaginabili, e macchie antropomorfe sinistre entro cui si sviliscono e sciolgono destini umani rassegnati alla fine e alla soliudine anche oltre la vita terrena ("pensa se la solitudine e l'abbandono scoprissimo che caratterizza pure e soprattutto cio' che ci spetta dopo la morte", domanda esterrefatta l'esperta di informatica al nostro Kawashima), la fuga rimane l'unica arma ad una minoranza di superstiti che fugge oltre oceano, inseguendo segnali di vita sempre piu' deboli, ma pur sempre presenti.

…La paura serpeggia nel film come in pochi altri e gli elementi orrorifici sono disseminati in tutta la pellicola, evitando così di accatastare tutto il creepy feast negli ultimi fotogrammi: le anime che si mostrano nel film hanno contorni sfumati, movimenti inconsueti e la loro richiesta di aiuto è raggelante. Ci sono almeno due scene in Pulse che vi rimarrano impresse nella memoria per lungo, lungo tempo. Il senso di vuota solitudine che esprime questo film, andando a toccare una delle problematiche sociali del Sol Levante (ma anche nostre), è sicuramente l'elemento più inquietante di tutta la pellicola ed esplode in un finale apocalittico di grande impatto visivo. Poiché alla fine del film non tutte le problematiche sollevate vengono dipanate, questo fa rientrare Pulse fra quelle pellicole che lasciano un senso di sbigottimento nello spettatore, al quale rimane la sgradevole-affascinate sensazione di non aver compreso tutto. In effetti Kairo e Ringu sono fra i film più importanti del rinascimento horror orientale e hanno decretato un nuovo standard della paura che ora anche noi in Occidente stiamo sfruttando. Però una grande differenza fra il film di Kurosawa e quello di Nakata, sta nel fatto che Pulse è arricchito da uno spessore concettuale che è impossibile rintracciare in Ringu, quest'ultimo più facile da comprendere, metabolizzare, meno lento e più breve rispetto a quello di Kurosawa, ma anche molto più scarso di contenuti se non la paura stessa. Nonostante alcuni difetti, neppure così evidenti e marcati, Kairo incarna alla perfezione il nuovo corso dell'horror psicologico d'Oriente ed è una delle pellicole che dovrebbe essere più ambita fra quelle nippo da un attento spettatore occidentale. Da guardare obbligatoriamente al buio e preferibilmente da soli...un vero cardiotonico!

…Kiyoshi Kurosawa ha avuto il merito, nel corso degli anni, di lavorare ai fianchi il genere cinematografico senza farvisi mai asservire e senza mai tentare di svilirlo; spogliandolo, c’è da dire, di ogni orpello men che indispensabile e trascinandolo via in una deriva autoriale tra le più affascinanti e indecifrabili degli ultimi decenni.
Di questa scelta poetica Pulse rappresenta senza possibilità di errore uno dei vertici principali, punto di snodo fondamentale per comprendere le sue opere seguenti e azzardare una lettura compiuta su quelle che lo precedettero: il cinema di Kiyoshi Kurosawa è un’arte che si confronta in continuazione, con una caparbietà quasi maniacale, con il mito horror, senza che questo comporti, nello sviluppo narrativo, un’accettazione di dogmi più o meno scritti…
 l’aggettivo lento non va in questo caso interpretato in una chiave negativa, perché basta aguzzare la vista per rendersi conto come l’apparente gratuità di determinati piani sequenza nasconda in realtà una serie infinita di segni da decodificare, particolari in grado di far procedere l’azione ben più di un colpo di scena o di un effetto sonoro creato ad hoc per poter sobbalzare sulla poltrona. Nella sua peculiarità di film “informe”, inadatto alla catalogazione, è racchiuso l’horror di Pulse, che non ha dunque bisogno delle meccaniche del genere, fin troppo spesso arrugginite, perché non saprebbe come gestirle; lasciandole scivolare via, come la tecnologia fallace racchiusa in Pulse (ma diffidate profondamente di chi interpreta il film in questione come una reazionaria critica al modernismo) che annulla l’umanità e la fa (dis)perdere negli angoli più bui delle case. Eppure, al di là di ogni estrema scelta estetica, lo scarto definitivo che ci fa considerare Kairo come una delle più belle esperienze puramente cinematografiche degli ultimi anni sta in quella chiazza di dramma cui accennavamo in precedenza: come e forse anche più di Bright Future, Pulse è una sublime storia d’amore. Anch’essa, come il resto dell’opera del cineasta, inclassificabile, ondivaga, fluttuante e inafferrabile, ma nonostante questo (o forse proprio per questo) di una forza travolgente e dirompente; la progressione emotiva degli ultimi venti minuti, quel crescendo inarrestabile che sembra condurre verso la deflagrazione assoluta, con la grigia metropoli desertica invasa dalla cenere e quell’aereo che crolla, in fiamme, nei pressi del molo, sono il colpo di genio di Kurosawa, la dimostrazione di una coerenza e(ste)tica che non può essere messa in discussione ed è, al momento, uno dei veri e propri polmoni verdi che ci sono concessi…

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