oggi sembra una storia di fantasia, quella che la chiesa cattolica (degli uomini) per secoli non ha permesso di battezzare i bambini e le bambine nati morti, e questa regola misericordiosa è durata fino a pochi anni fa.
il film è l'umile storia di Agata (che non si rassegna alla regola, come dice il prete) e della sua bambina, e del loro viaggio fra mille pericoli, appena un secolo fa, quando fare un viaggio come il loro era pericoloso come un viaggio in Afghanistan oggi.
Agata (una bravissima Celeste Cescutti) è disposta a rischiare la vita per il miracolo di dare un nome alla sua bambina, anche con l'aiuto di Lince (Ondina Quadri).
un piccolo grande film che sarà uno dei più belli e commoventi della stagione cinematografica.
al cinema è solo in una ventina di copie, vogliatevi bene, non fatevelo sfuggire.
la fine vi lascerà senza fiato, come solo i film bellissimi sanno fare.
buona visione - Ismaele
LA PAROLA ALLA REGISTA
"Nel
2016 ho scoperto che a Trava, nel mio Friuli Venezia Giulia, esisteva un
santuario dove fino al XIX secolo si diceva avvenissero particolari miracoli,
che i bambini nati morti potessero essere riportati in vita per il tempo di un
solo respiro. Un miracolo come questo era necessario per battezzare i bambini,
che altrimenti sarebbero stati condannati a essere sepolti in un terreno non
consacrato, come gatti morti. Senza il battesimo, non avrebbero mai avuto un
nome o un'identità e le loro anime avrebbero vagato eternamente nel Limbo.
Questi tipi di posti sono chiamati à répit, o santuari
del respiro, ed erano presenti in tutte le Alpi (nella sola Francia se ne
contavano quasi duecento). Sorprende come la loro storia sia del tutto
sconosciuta nonostante le dimensioni del fenomeno.
I santuari
sono rimasti da qualche parte nella mia mente e hanno finito per catturare la
mia attenzione. Sono stata colpita da una cosa in particolare: erano
soprattutto gli uomini a recarsi in viaggio nei santuari con i piccoli corpi
dei loro neonati. Ovviamente, le donne che li avevano dati alla luce erano
confinate nei loro letti soggette a una vana attesa.
La prima
domanda che ho posto ai cosceneggiatori Elisa Dondi e Marco Borromei, che hanno
deciso di condividere il mio viaggio cominciato con il cortometraggio La santa che dorme,
è stata: cosa succede alla donna che è a letto? E se invece fosse lei a
mettersi in viaggio? Così abbiamo cominciato a scrivere con due sole certezze:
la donna in questione è Agata ed è alla sua prima gravidanza.
Quando la
sua piccola nasce morta, Agata sprofonda nel dolore e non ce la fa ad andare
semplicemente avanti, come sembrano fare tutti coloro che le stanno intorno.
Per me, la parte migliore di una storia è data da quel momento in cui un
personaggio decide di ribellarsi. La scelta di Agata è praticamente scandalosa
perché denota orgoglio e protesta non solo contro la sua religione ma anche
contro le leggi della natura. Arriva un momento preciso, di solito di notte, in
cui le possibilità davanti a noi sembrano improvvisamente consistere in una
sola scelta ed è allora che il destino si compie: Agata decide di ascoltare le
voci che parlano dei miracoli. Seguendo il suo istinto e senza dirlo a nessuno,
si mette in viaggio con la sua bambina in una piccola scatola. Da sola.
Ovviamente,
la pratica di rianimare i bambini non era vista con benevolenza dalla Chiesa
perché considerata un abuso dei sacramenti e simile alla stregoneria. Agata si
impegna in un viaggio ai confini dell'ignoto, abbandonando le sue radici e
rischiando di perdersi così come di morire. Il suo costante desiderio è quello
di dare un nome a sua figlia al fine di lasciarla andare e separarsi da lei,
divenendo a quel punto due individui distinti. La verità però è che il viaggio
è un modo per prolungare lo stato di simbiosi con la figlia con cui ha vissuto
per mesi, una sorta di continuazione della sua gravidanza: la bambina dalla
pancia viene trasferita alla schiena, divenendo un peso che porta sulle sue
spalle. Il suo viaggio è sì fisico ma diventa anche trascendentale. Agata non
si rende conto che per continuare la sua missione deve trasformarsi lei stessa
e diventare una morta in mezzo ai vivi.
Agata aveva
bisogno di compagnia per il suo viaggio ed è così che è nato il personaggio di
Lynx: selvaggio e astuto, chiuso e isolato perché amare significa essere
compromessi, indeboliti. Lynx mostra ad Agata la strada, offrendole protezione,
ma quello che riceverà da lei è qualcosa di necessario per la sopravvivenza: il
profondo senso di attaccamento a qualcosa di amato, l'impegno, il sacrificio e
il senso di appartenenza a qualcosa che non puoi controllare e che ti rende
vulnerabile. Grazie ad Agata, Lynx si ricongiunge con quella parte di archetipo
femminile che ha il coraggio di accettare il lato oscuro dell'amore: il dolore.
Ho
ambientato il film nella mia terra natale ma non significa che questa storia
sia esclusiva solo di quel luogo. Credo che le storie siano le stesse ovunque.
Ho girato in maniera cronologica intraprendendo lo stesso tipo di viaggio che
porta Agata da Caorle e dalla laguna di Bibione alla Carnia e alle montagne del
Tarvisiano. Questo film è cresciuto con noi come noi siamo cresciuti con lui.
Durante la
ricerca dei luoghi in cui girare, ho incontrato persone che sono diventate
personaggi nel film, o forse è il contrario, dal momento che nessuno dei due
può essere considerato senza l'altro. Quasi l'intero cast è composto da persone
che non hanno recitato prima (in alcuni casi, intere famiglie). È anche questo
il motivo per cui ho deciso di girare il film nel dialetto veneto e friulano:
non solo rendendo più autentica la lingua parlata al tempo della storia ma
anche dando alle persone la possibilità di esprimersi nel modo più naturale
possibile. Il processo di imposizione della lingua italiana cominciò nella
seconda metà dell'Ottocento e proseguì sotto il fascismo, rivelandosi
un'operazione politica che, tesa al controllo del territorio, finì per causare
un enorme impoverimento culturale. Fortunatamente, non riuscì a cancellare del
tutto l'ampia varietà di idiomi. Penso che il dialetto sia un arricchimento
prezioso e spesso commovente: basti pensare che la parola per bambino in
friulano è frut, perché un figlio è il frutto
dei suoi genitori.
Per varie
ragioni (e spesso estranee alla storia stessa), tutte le persone coinvolte
hanno trovato qualcosa di loro nella storia e nei suoi temi. Questa è la
ragione per cui spesso hanno finito per parlare più della loro vita che del
cinema e per imparare gli uni dagli altri: alle volte ero io a dirigere loro
mentre altre volte accadeva il contrario ed erano loro a guidarmi. La
trasversalità è la migliore forma di creazione.
nel film,
Dio non si trova nei miracoli, nella preghiera o nel dogma che divide l'aldilà
in paradiso, inferno o limbo. Dio esiste a un livello diverso: in Lynx, che
crede in niente e che non è toccato dall'iniziale premessa del miracolo; in
Agata, che imbriglia la rabbia per ridisegnare i confini di ciò che è
possibile; e nel rapporto tra le loro due visioni solitarie che, per un attimo,
sono meno dolorose. C'è una linea sottile che divide la vita dalla morte, la
realtà dalla magia, le possibilità in cui abbiamo sperato e il tempo che ci
resta.
Spero che
questo film crei uno spazio condiviso più grande senza la presunzione di
trovare risposte assolute per vivere insieme nel dubbio".
…Agata (come Samani) si spinge sempre oltre:
attraversa luoghi (e fasi esistenziali) di non ritorno, entra dentro la
visceralità di un istinto primigenio, affronta in maniera diretta e
vertiginosamente profonda il dolore per la perdita di un non nato, e rifiuta il
commento più ottusamente crudele di tutti: "Farai altri figli".
Perché per Agata esiste solo quella bambina, unica ed irripetibile, e la sua
determinazione a strapparla dall'anonimato ha una potenza ancestrale
inarrestabile.
Il viaggio di Agata, come ogni percorso femminile, è una staffetta per portare
un poco più avanti il testimone secondo un movimento irreversibile, ed è capace
di far ritrovare la propria femminilità anche a chi l'ha negata, a ricostruire
il legame indissolubile fra una mamma e una figlia anche in chi, dalla propria
madre, è stata rifiutata.
È un "viaggio dell'eroina" nel senso
drammaturgico più puro, disseminato di prove, antagonisti, mentori e alleati, e
Samani ne segue la linea archetipale rimanendo incollata ai corpi e alle cose,
essenziale e autentica, tattica e olfattiva, silenziosa e dolente. Agata,
giovane donna di mare, si inerpica su per la montagna entrando in un universo a
lei ignoto, attraversa una galleria senza sapere se rivedrà mai la luce, si
immerge in un lago del quale non vede il fondo: membrane naturali che sono
anche tappe di conoscenza e gradini di consapevolezza che contagiano anche
Lince. La morbidezza delle immagini nasconde una durezza di fondo che è la
piena coscienza di un dolore inaccettabile, perché "il corpo e il cuore
non dimenticano"…
…la conclusione di questo viaggio (che ovviamente non
riveliamo) è totalmente all’altezza delle premesse e di ciò che è stato messo
in campo. Coerente e potentissimo. Ovviamente parliamo di cinema d’autore, non
ci cinema commerciale, cioè di un film che non vuole acchiappare lo spettatore
con l’azione e lo spettacolo ma che anzi vuole coinvolgerlo in un viaggio
interiore, che vuole approfondire cosa sia vivere in quel mondo per una donna
di quel tempo. Invece di essere un limite è un tratto originale che conquista
immediatamente. Non siamo in un film americano che trasforma qualsiasi scena in
un dispositivo di tensione ma in un film italiano che vuole raccontare qualcosa
e sa come farlo.
Se è vero che il cinema italiano fa molta fatica con il
fantastico Piccolo corpo dimostra che è solo una mentalità
ristretta quella che identifica la fantasia con i soliti luoghi, le solite
figure e i soliti svolgimenti. L’immaginario fantasioso sta nella maniera in
cui i personaggi vedono il mondo. E se seguiamo una contadina di montagna dal
forte credo religioso, per la quale tutto è animato da forze invisibili,
magiche e onnipotenti, allora anche lì si può respirare lo spirito del cinema
fantastico.
…In un mondo
del cinema italiano sempre più anodino Laura Samani ha il coraggio di lavorare
e ragionare sul corpo, vivo e pulsante o cadavere che esso sia. Esibisce le
secrezioni e la perdita di fluidi di una donna che ha partorito con sofferenza
da pochi giorni, e non ha neanche timore di mostrare il corpicino della sua
figlia senza nome, con un effetto speciale che probabilmente creerà molti
problemi a una parte degli spettatori ma è in profondità la dimostrazione della
coerenza espressiva della giovane cineasta. Cos’è infatti oggi il visibile? In un mondo che sta perdendo sempre più
contatto con il materico non è forse uno dei compiti del cinema quello di far
sopravvivere – anche ricorrendo a un “miracolo” tecnico – la necessità dello
sguardo, unica reazione possibile forse alla deriva dell’oggi? Piccolo corpo non ha paura delle notti buie,
non ha timore di affrontare un cunicolo dal quale nessuno è uscito vivo, e si
arrischia con gran coraggio a sfidare il naturalismo, e la supposta oggettività
del reale. Nelle profondità acquatiche, un attimo prima
dell’assideramento, Samani sa ancora trovare il calore dell’umano che
sopravvive nel sogno a ogni lutto. E lì, quasi occhieggiando all’onirismo di
Vigo, ritrova la vita, e dunque il cinema.
QUI un’intervista alla regista
grandissima recensione per un grandissimo film
RispondiEliminagrazie dell'apprezzamento:)
Eliminase non l'hai visto vai a vedere Ennio, insieme al film di Laura Samani fra i migliori dell'anno, almeno in sala
buoni film(s)
ciao
Proietteremo il meraviglioso "Piccolo corpo"di Laura Samani venerdì 1 aprile al Piccolo cineclub Tirreno. La regista presenterà il film in collegamento video.
RispondiEliminasperiamo non resti l'unico suo film, dille che aspettiamo i prossimi, senza fretta, con i suoi tempi...
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