già nel primo film Ashgar Farhadi realizza un gioiellino che inizia lentamente e poi cresce, a sorpresa, per un film, che, come tutti i film iraniani, inizia nel nome di allah.
un sempliciotto si innamora e sposa una ragazza che ama alla follia, ma è costretto a divorziare e a fuggire per non andare in galera per debiti.
se fosse stato un film hollywoodiano sarebbe stato un campione d'incassi, ma l'opera prima di un povero regista iraniano è sconosciuta.
ma una sceneggiatura a orologeria ti tiene incollato allo schermo senza un attimo di noia, e lo scontro-incontro dei due protagonisti ha qualcosa di epico (l'epica dei poveri, naturalmente).
cercate questo piccolo capolavoro, non potrà deludervi - Ismaele
Capita che sorgano improvvisi dilemmi etici e morali
(insomma, religiosi): debbo per forza divorziare dalla donna che ho sposato
solo perché la famiglia e la società non accettano il fatto che sua madre fosse
una prostituta? Questo aut aut imposto dalla famiglia crea una serie di
situazioni e meccanismi al limite della comicità involontaria: ad esempio
restituire la somma di denaro che l'uomo aveva avuto in prestito per il
matrimonio. Alla fine, decide di lasciare la città. Si ritrova nel deserto,
insieme a un uomo che passa il tempo estraendo veleno dai serpenti.
…Dispensing
with heavyhanded symbolism, Farhadi tells the tale engrossingly and with a lot
of physicality through the two main actors. As the young swain, Khodaparast
creates an original, often irritating character redeemed by his great love.
Gharibian’s haunted face needs no words to express his inner devastation, and
in fact he barely speaks in the film.
The
snakes are genuinely scary, almost as much as the protags’ unpredictable
emotions.
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