giovedì 10 febbraio 2022

Synonimes - Nadav Lapid

un israeliano abbandona il suo paese, lo rinnega, rinnega i genitori, è fuggito a Parigi, dove incontra due persone che lo "adottano" e lo proteggono.

Yoav vaga per Parigi, cerca qualsiasi lavoro, dall'addetto alla sicurezza al porno modello, incontra altri israeliani, abbastanza estremisti, cerca una strada.

in fondo il film è tutto qui, nella ricerca di una strada, il resto ci sta intorno.

non per tutti i gusti, come sempre.

buona (contrastata) visione - Ismaele

 

 

 

Pur passando per il matrimonio con Caroline organizzato dallo stesso Emile per accelerare le pratiche di naturalizzazione, pur passando da aiuti anche economici e tentativi di sdebitarsi, pur passando da memorie condivise e da metafore omeriche per descrivere il cadavere del fratello trascinato lungo le strade di Tel Aviv, Yoav si rende conto che non potrà mai essere come i «fortunati veri francesi», ma rimarrà sempre ai margini, escluso, vampirizzato da una società che non permette di integrarsi, al punto di riprendersi indietro le sue storie e di lanciarsi in una folle piazzata contro la musica classica, simbolo della cultura occidentale, come definitivo impazzimento di chi è passato dai traumi alla frustrazione attraversando l’illusione e poi il disincanto.
Ed è paradossalmente proprio qui, in quella che dovrebbe essere una premessa e che invece è la conclusione – che non sia semplice integrarsi in un’Europa sempre più smaccatamente razzista e arrogante, onestamente, non ci pare né una gran novità né un pensiero particolarmente approfondito, ma semplicemente una constatazione a cui già prima del film era difficile non riuscire a giungere –, unita a un troppo brusco stop narrativo quando tutto questo appare come una rivelazione (anche) di fronte agli occhi del protagonista, che si annidano i principali limiti di Synonymes, indubbiamente interessante nel suo riflettere sulla mancanza/impossibilità di identità e sulla presuntuosa ipocrisia sociale giocando con le forme cinematografiche, ma troppo facile al cliché e all’assunto superficiale per essere realmente in grado di graffiare

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Lapid sembra avere appreso la lezione della Nouvelle Vague facendo scorrere nelle pieghe del racconto molte atmosfere care a quella corrente, innestandole su un racconto che molto di sovente sembra astrarsi dalla realtà fino a presentare momenti surreali e soprattutto sembra volere inseguire con costanza e tenacia una certa cifra stilistica che il più delle volte appare abbastanza di maniera oltre che compiaciuta.

Ma al di là di tutto ciò quello che appare il difetto più grosso del film è la sua scarsa coerenza: mettere sullo stesso piano la società israeliana e quella francese è onestamente esercizio piuttosto arduo oltre che non molto onesto, se non altro perchè se le cose fossero realmente come il regista lascia intendere (soprattutto in quelle scene nella scuola per immigrati) questo film e anche alcuni dei precedenti di Nadav Lapid non ci sarebbero stati; la realtà ci dice invece che il regista di Tel Aviv non solo ha ricevuto appoggi produttivi potenti, ma è diventato il classico cineasta adottato da Cannes e quindi dalla cinematografia francese.

Mettere sullo stesso piano il nazionalismo e il militarismo israeliano con il proverbiale sciovinismo francese che porta i transalpini a sentirsi sì la patria delle democrazia in Europa grazie alla Rivoluzione Francese e ai suoi valori, ma al contempo però a permettere al regista stesso di ottenere successi  artistici notevoli proprio in Francia e con tanto di appoggio produttivo, è francamente esercizio scorretto che veicola inoltre un messaggio falso.

Inoltre altri aspetti ( le ridondanti citazioni dell'Iliade imparata da bambino da Yoav, alcuni flashback al limite dell'incomprensibile) appesantiscono in diverse occasioni un percorso narrativo che fatica a mantenere una sua linearità. 

In considerazione di questo aspetto che può apparire secondario ma che invece non lo è, perchè  la tematica è una di quelle costitutive lo scheletro narrativo del film, Synonymes è lavoro che sebbene ben diretto , è lungi dall'essere una opera pienamente riuscita.

Va segnalata come uno degli aspetti positivi del film la prova dell'esordiente  Tom Mercier ( Yoav) . bravo nel conferire il giusto grado di irrequietezza e di illusione al protagonista.

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Signore e signori, è rinata la Nouvelle Vague 2.0! Dopo finti miti e speranze disilluse finalmente una pellicola che pesca a piene mani nella corrente cinematografica francese del periodo d’oro, e la ripropone al tempo degli smartphone, delle videochiamate e dei tablet.

La pellicola di Lapid è una boccata d’ossigeno di rara potenza: regia intensa e piena d’inventiva, ogni scena ha qualche elemento di originalità e particolarità, pensata e filmata con cura, ritmo nervoso e montaggio frammentato. La scena della canzone francese suonata col mitragliatore è già cult.

Tre protagonisti presi direttamente dal mondo di Jules e Jim, con le loro affinità e le differenze del caso, dialoghi infiniti, surreali e mai banali. La ricerca dei sinonimi di Yoav martellano tutta la durata del film e sono ipnoticamente intriganti.

Nadav Lapid è un regista nato a Tel Aviv al cui all’attivo ha già una decina di film, che speriamo di poter vedere anche qui in Italia. Ottimo Tom Mercier in un ruolo non facile che riesce a trasmettere potenza e fragilità insieme.

Speriamo vivamente che Synonyms possa avere il successo che merita e che possa portare a una nuova rivoluzione cinematografica che, dalla Nouvelle Vague, non si è mai più vista.

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…El palíndromo de su puesta en escena se cumple en el tramo final, en el que volvemos sobre los pasos del inicio. El mismo recorrido solo que ahora la cámara en vez de temblar le sigue fijada a sus espaldas de forma pausada. El corte, o ese cambio de toma, ya no mostrará espacios abiertos o vacíos sino una puerta cerrada. Por mucho que golpees deseoso de acceder el mundo nuevo no se abrirá. Será entonces cuando definitivamente esa nación de acogida te expulse, devolviéndote al punto de partida, y mandándote fuera robando cualquier atisbo identitario. Yoav lucha con demonios del pasado y se enfrenta como el héroe de sus novelas griegas a un demonio quizás más fuerte y poderoso. Mata al padre (metafóricamente), reniega de su propia lengua de origen, vende su cuerpo y se prostituye. Se autoinflinge un correctivo como si siguiera dentro de un régimen militar. Los ecos y sombras de su país le acompañan pese a negarlos constantemente y al final se topa con barreras aún más peligrosas y escurridizas.

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La propuesta es confusa y recuerda en algunos tramos a algunos títulos del cine francés clásico, en concreto a películas de la Nouvelle Vague, y es la típica película de extremos que cuenta muchas cosas con pocas palabras, pero que es bastante irregular, con un gran arranque y un primer tercio que es lo más interesante del proyecto, pero que va de más a menos, y que me aburrió durante la segunda mitad, sin interesarme los pasos del protagonista y de las personas con las que se relaciona en su estancia en Francia. Tiene varias escenas potentes que funciona de manera aislada, pero que en conjunto la película va navegando entre diferentes géneros, manteniendo el tono enigmático, o al menos eso pretende, entre el drama social, el romántico y el suspense por su aura de misterio sobre el pasado, el presente y el futuro de los personajes. No me convence la dirección de Navid Lapid, que tiene una filmación que pretende ser original, y aplaudo ese intento, pero lo que consigue es sacarme de su visionado en esos enfoques a ningún sitio y ese cambio de ritmo en el movimiento de la cámara. 

Por contra sí me parece defendible el trabajo en la dirección de fotografía de Shai Goldman, que juega muy bien con la luz natural y artificial y que nos regala algunas bellas estampas de la ciudad a orillas del Sena. 

El guion escrito por el director y su padre Haim Lapid tampoco me convence, dejando cosas en el aire que deberían haber estado mejor explicadas. 

Soy partidario de no contar todo de manera directa y de películas sin finales cerrados, pero otra cosa es lo de este proyecto que no comprendí a partir de la primera media hora.
A nivel interpretativo destaca el debutante Tom Mercier, en el papel de Yoav, ese joven recién llegado a París, y que está creíble en un papel nada fácil, estando bien en diferentes registros interpretativos. También me parece destacado el trabajo de Louise Chevillotte, que interpreta a Caroline, y no tanto el de Quentin Dolmaire como Emile.
Película recomendable a los que buscan un cine poco convencional, en donde no te cuentan las cosas de manera directa, sino que tienes que ir construyendo tu propia historia siguiendo al protagonista en su recorrido por la capital francesa.

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…El film también destaca la importancia del idioma para la construcción de la identidad. Para integrarse en Francia el protagonista decide abandonar el hebreo y adoptar completamente el francés, que ejercita con un diccionario conjugando sinónimos y realizando asociaciones. El lenguaje adoptado nunca cobra para el protagonista la importancia del materno, que tiene una carga simbólica y emocional de la que carece la lengua del país adoptivo de Yoav. El aprendizaje autodidacta del francés funciona como uno de los mecanismos a los que acude el protagonista para su proceso de asimilación a la cultura gala, curso siempre inconcluso que deja heridas y marcas en el orgullo.

 

Sinónimos: Un Israelí en París es una obra que remarca al cuerpo como objeto de los distintos dispositivos de control y disciplinamiento sociales que aplican las instituciones. La película de Nadav Lapid es así una interpelación directa y constante a las democracias europeas sobre los problemas sociales de los inmigrantes, las políticas de asimilación, las contradicciones que separan a los países en paz de los países en guerra y la responsabilidad de los primeros para con los segundos en un mundo inextricablemente globalizado.

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