nel 2023 Víctor Erice ha girato Cerrar Los Ojos, che finalmente possiamo vedere grazie a Fuori Orario, adesso su Raiplay.
è uno dei pochi film che il regista ci ha regalato nella sua carriera, e anche questo è un capolavoro, senza dubbio.
nella pellicola si tratta del cinema, della memoria, dell'oblio, dell'amicizia, e tanto altro, con tempi lenti, la cosa più bella è tutto quello che vediamo, e quando arrivi alla fine è sempre troppo presto.
quasi tutti i film che si vedono in questi anni impallidiscono davanti a Cerrar Los Ojos, anche se è una gara che non esiste, provare per credere.
buona (indimenticabile) visione - Ismaele
QUI si può vedere il film completo
“I miracoli al cinema non ci sono più da quando è morto
Dreyer”. Difficile non cedere alle lacrime quando Mario Pardo, nella parte
dell’archivista e proiezionista Max, si rivolge in questo modo a Miguel Garay
(Manolo Solo) che fu regista molti decenni or sono e ora, dopo non essere
riuscito mai a terminare la sua opera seconda, vive in una roulotte a due passi
dal mare, in un tranquillo villaggio di pescatori lontano dalle ansie, dalle
ambizioni, e dai desideri della capitale Madrid. Forse ha ragione Max, e
davvero i miracoli non esistono più da
quando Inger/Brigitte Federspiel si è rialzata dal letto di morte, ma Cerrar los ojos fa di tutto per convincere il
proprio pubblico del contrario. A suo modo è già un “miracolo” l’esistenza
stessa del film, il primo lungometraggio diretto da Víctor Erice negli ultimi
trentuno anni, e il suo quarto in assoluto in cinquant’anni di carriera:
l’emozione, fin dall’attesa in sala a Cannes prima della proiezione – il film è
stato presentato nella sezione Première, e non in concorso: su questo punto
specifico si tornerà in chiusura d’articolo –, è stata palpabile, come se si
fosse di fronte a un fantasma del passato, qualcuno per il quale si è provato
un profondo affetto e ora riappare. Parla d’altro canto di memoria, fantasmi, e
passato anche Erice, e quindi ovviamente anche di cinema, il fantasma per eccellenza, il luogo immateriale in
cui forme del passato resistono al tempo, si perpetuano all’infinito,
riemergono dalle sabbie mobili in cui la storia li ha fatti sprofondare. Parla
di memoria, cinema, e tempo, Erice, ma lo fa da una prospettiva che ricaccia
indietro o per meglio dire schiva qualsiasi suggestione metalinguistica, e
qualsiasi deriva postmoderna…
…Sarebbe stato giusto, per non dire doveroso, che
Cannes avesse accolto in concorso il film, ed è triste che quanto affermato da
Thierry Frémaux quando gli sono state chieste delucidazioni in merito (“il film
è arrivato troppo tardi, a selezione praticamente terminata”) sia stato
duramente smentito da Erice, che afferma di aver inviato una versione completa nel
montaggio eccezion fatta per la color correction nella seconda metà di marzo.
La verità probabilmente è che opere come Cerrar los ojos, Eureka, Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese, o Kubi di Takeshi
Kitano, le si vuole lasciare lontano dalle competizioni, lontano dall’epicentro
dello sguardo degli accreditati. Perché hanno la forza di ricordare ancora
cos’è il cinema, quale sia la sua forza, e soprattutto il suo senso.
Com’è noto Victor Erice non si affaccia alla ribalta molto di
frequente. Un lungometraggio nel 1973 (Lo spirito dell’alveare), uno nel 1983 (Il sud), uno
nel 1992 (Il sole della mela cotogna). Le poche volte che lo
fa, tuttavia, conviene tributagli religiosa attenzione, perché i suoi film
sono tutti tra i più vicini in assoluto al rivelare cosa sia il cinema,
come funzionano i nostri occhi e quale sia il loro rapporto col
mondo. Vale anche per questo nuovo, strabiliante Cerrar
los ojos. Pochi film come questo hanno dato la giusta misura del
nostro presente ormai post-cinematografico, ricordandoci come l’autoscomparsa e
l’autocancellazione siano nel DNA stesso del cinema,
intrinsecamente. Perché? Perché vedere e chiudere gli occhi sono la
stessa cosa. È la cecità che struttura la visione; è un punto cieco all’interno
del campo visivo che rende possibile la costituzione di quest’ultimo. Il cinema
ci ha mostrato cosa voglia dire vedere, ovvero ci ha mostrato la cecità al
cuore del vedere; è dunque giocoforza che il passo successivo fosse un’era
post-cinematografica come la nostra, dove l’iperesposizione delle immagini 24/7
ci rende, di fatto, ciechi verso di esse. Il cinema non è dunque un oggetto
perduto di cui avere nostalgia, bensì ciò che è tanto più presente oggi quanto
più la nostra cecità odierna è stata da lui rivelata una volta per
tutte. Se mai c’è la minima goccia di nostalgia nella ricerca, da
parte dell’ex regista Miguel, del suo amico e attore Julio, misteriosamente
scomparso nel 1990 sul set di un suo film, essa viene emendata spietatamente
strada facendo, per diventare una limpidissima, perfetta allegoria di come
funzionano i nostri occhi, e dunque per estensione la soggettività umana…
…Nessuna fretta, nessuna ossessione drammaturgica per qualche
filo o linea retta che ogni scena dovrebbe indaffararsi a seguire o costruire.
Ogni scena è “cieca” rispetto al proprio “punto”, e dunque le viene concesso il
tempo di espandersi, respirare, assorbire lo spazio a 360° prima di passare
oltre in tutta tranquillità. È l’arte del vivere, né più né meno: l’arte
di afferrare il vuoto al cuore del presente prima che questo esploda e diventi
il presente successivo, sconfessando qualunque eresia di rettilinearità. È
un’arte del vivere che però ci è preclusa nella misura in cui continuiamo a
essere prigionieri dell’ipervisibilità mediatica dei nostri giorni (come il
giornalista, apertamente sbeffeggiato nel film, che dietro al mistero della
scomparsa di Julio vede uno scenario ulteriore, una coerenza nascosta che la
inquadri e la spieghi). A quest’arte abbiamo accesso solo ripristinando non
solo un generico contatto, ma anche un’intima confidenza (soprattutto rispetto
alle sue dinamiche intersoggettive) con la cecità al cuore del vedere e della
soggettività. Ed è una confidenza che, anche oggi, solo il cinema ci può dare.
…Si es difícil hablar de la película de
Erice es porque se trata de un verdadero evento. No es solo el hecho de estar sentados
en una butaca, sino de ser parte misma del discurso que se va
desarrollando, tanto sobre el cine como sobre el concepto mismo de nuestra
vida, de lo que significa recordar, fingir ser otra persona y perderse en el
olvido hasta volver a la superficie. Si de obra de arte se trata,
esto se debe también a la capacidad de Erice de volver universales acciones que
hacemos cada día, sin darnos cuenta de lo profundo que puede ser el hecho mismo
de llevar una vida tranquila. Y, en la tranquilidad, se sitúa también el
concepto de dolor (como la pérdida de la familia, la muerte del hijo) y de
recuperación de un pasado que ya está prohibido, como en el caso de las viejas
cintas de celuloide que han dejado paso a elementos tecnológicos más recientes.
¿Es que nosotros también estamos a punto de desaparecer, parte de un pasado que
ya no puede volver?
…Il tema dell’assenza è trattato in
modo quasi fisico. Julio Arenas è un assente che tuttavia domina la scena: la
sua mancanza si sente ovunque, e i personaggi non fanno altro che parlare di
lui, ricordarlo, cercarlo. Erice costruisce il film attorno all’idea che l’assenza
può essere altrettanto potente della presenza, un concetto che si riflette
anche nel modo in cui l’attore scompare dal campo visivo per continuare a
vivere nella memoria.
Questa
tensione tra assenza e presenza riflette anche l'esperienza sensoriale di chi
guarda: il cinema, infatti, è un’arte dell’assenza, dove ciò che vediamo è solo
un’ombra del reale, e dove l'illusione della presenza è costantemente messa in
discussione.
Per
Erice il cinema diventa uno strumento di immortalità, capace di
trattenere volti, voci e momenti che altrimenti sarebbero destinati a perdersi.
Ma al contempo, è anche un’illusione, incapace di fermare davvero il
flusso del tempo o di restituire pienamente il passato.
Questa
duplicità dell'arte cinematografica, come mezzo per preservare e al tempo
stesso distorcere il ricordo, è uno dei pilastri filosofici del film.
Il regista
getta sul film il suo messaggio che ogni film sia un tentativo di catturare la
vita, ma anche che ogni immagine sia destinata a svanire una volta che il
proiettore si spegne, come avviene nel sottofinale.
In Close
Your Eyes, Víctor Erice crea un'opera stratificata, dove ogni tematica si
riflette nelle altre, dando vita a un film che è, allo stesso tempo, un giallo
esistenziale, una riflessione filosofica e una celebrazione della potenza del
cinema. Le tematiche del ricordo, dell’oblio, dell’identità, del tempo e del
ruolo del cinema si intrecciano, trasformando l’opera in un’esperienza
contemplativa e intellettualmente stimolante, certamente non respingente ma che
richiede un minimo di compromesso con la sua struttura.
L'opera di
Erice è comunque un grande film, dal messaggio sfaccettato ma potente e che
invita alla riflessione, di certo tra i lavori più belli su questo tipo di
tematiche che sa coinvolgere sfruttando a pieno il potere magico del Cinema.
…Pero los personajes no solo han
perdido o renunciado a sus carreras. Erice propone algo más profundo. Arenas ha
escapado de una vida superflua, la del cine, la de los actores que interpretan
a otros personajes, mientras que Garay ha escapado de la dirección de cine, de
sus frustraciones, de filmar para cumplir con la cuota de pantalla del cine
español, de filmar para nadie, para que un par de cinéfilos lo adoren. El
malestar en Julio ha desencadenado su desaparición y ese mismo malestar ha
alejado a Miguel del cine, pero esta angustia sigue a todos los personajes. Max
se queja de que la magia del cine ha muerto, aunque luego abjure de sus propias
palabras cuando se embarque en el proyecto de Miguel, y Ana, una guía del Museo
Nacional del Prado de Madrid, explica muy claramente cómo la rutina ha opacado
su apreciación de algunas de las obras pictóricas más bellas e importantes de
la historia de la humanidad.
Si bien no tiene ningún sentido,
los personajes de Cerrar los Ojos se empeñan en intentar
encontrar a Julio Arenas y en hacerle recordar su pasado a pesar de que incluso
si lo lograsen, el hombre se ha transformado en otra persona hace ya mucho
tiempo. Es precisamente allí donde el film encuentra esa convergencia entre
pasado y presente que Erice busca. Arenas ha renunciado a su identidad hace ya
muchos años. Ya sea por decisión voluntaria o por los efectos del abuso de las
bebidas alcohólicas, su memoria del hombre que fue, del gran actor, el amigo y
el padre, ha dejado su lugar a un nuevo hombre, Gardel, una persona habilidosa
para las labores manuales, sin pretensiones ni deseos, que vive el presente
como si no hubiera un ayer ni un mañana. Eso es lo que diferencia a Gardel de
su yo anterior, Julio, y del resto de los personajes, que viven atrapados en el
pasado. Max está aprisionado en las cintas de las películas que guarda y las
pertenencias de los que pasaron por su estudio y nunca regresaron, Miguel por
el paradero de su amigo y su carrera como director, y Ana (Ana Torrent), la
hija de Julio, por la relación que nunca tuvo con su padre ausente, una imagen
paterna que bien podría no haber existido…
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