lunedì 15 settembre 2025

Cerrar Los Ojos - Víctor Erice

nel 2023 Víctor Erice ha girato Cerrar Los Ojos, che finalmente possiamo vedere grazie a Fuori Orario, adesso su Raiplay.

è uno dei pochi film che il regista ci ha regalato nella sua carriera, e anche questo è un capolavoro, senza dubbio.

nella pellicola si tratta del cinema, della memoria, dell'oblio, dell'amicizia, e tanto altro, con tempi lenti, la cosa più bella è tutto quello che vediamo, e quando arrivi alla fine è sempre troppo presto.

quasi tutti i film che si vedono in questi anni impallidiscono davanti a Cerrar Los Ojos, anche se è una gara che non esiste, provare per credere.

buona (indimenticabile) visione - Ismaele


  

QUI si può vedere il film completo (con sottotitoli in italiano)

 

   

“I miracoli al cinema non ci sono più da quando è morto Dreyer”. Difficile non cedere alle lacrime quando Mario Pardo, nella parte dell’archivista e proiezionista Max, si rivolge in questo modo a Miguel Garay (Manolo Solo) che fu regista molti decenni or sono e ora, dopo non essere riuscito mai a terminare la sua opera seconda, vive in una roulotte a due passi dal mare, in un tranquillo villaggio di pescatori lontano dalle ansie, dalle ambizioni, e dai desideri della capitale Madrid. Forse ha ragione Max, e davvero i miracoli non esistono più da quando Inger/Brigitte Federspiel si è rialzata dal letto di morte, ma Cerrar los ojos fa di tutto per convincere il proprio pubblico del contrario. A suo modo è già un “miracolo” l’esistenza stessa del film, il primo lungometraggio diretto da Víctor Erice negli ultimi trentuno anni, e il suo quarto in assoluto in cinquant’anni di carriera: l’emozione, fin dall’attesa in sala a Cannes prima della proiezione – il film è stato presentato nella sezione Première, e non in concorso: su questo punto specifico si tornerà in chiusura d’articolo –, è stata palpabile, come se si fosse di fronte a un fantasma del passato, qualcuno per il quale si è provato un profondo affetto e ora riappare. Parla d’altro canto di memoria, fantasmi, e passato anche Erice, e quindi ovviamente anche di cinema, il fantasma per eccellenza, il luogo immateriale in cui forme del passato resistono al tempo, si perpetuano all’infinito, riemergono dalle sabbie mobili in cui la storia li ha fatti sprofondare. Parla di memoria, cinema, e tempo, Erice, ma lo fa da una prospettiva che ricaccia indietro o per meglio dire schiva qualsiasi suggestione metalinguistica, e qualsiasi deriva postmoderna…

Sarebbe stato giusto, per non dire doveroso, che Cannes avesse accolto in concorso il film, ed è triste che quanto affermato da Thierry Frémaux quando gli sono state chieste delucidazioni in merito (“il film è arrivato troppo tardi, a selezione praticamente terminata”) sia stato duramente smentito da Erice, che afferma di aver inviato una versione completa nel montaggio eccezion fatta per la color correction nella seconda metà di marzo. La verità probabilmente è che opere come Cerrar los ojosEurekaKillers of the Flower Moon di Martin Scorsese, o Kubi di Takeshi Kitano, le si vuole lasciare lontano dalle competizioni, lontano dall’epicentro dello sguardo degli accreditati. Perché hanno la forza di ricordare ancora cos’è il cinema, quale sia la sua forza, e soprattutto il suo senso.

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Com’è noto Victor Erice non si affaccia alla ribalta molto di frequente. Un lungometraggio nel 1973 (Lo spirito dell’alveare), uno nel 1983 (Il sud), uno nel 1992 (Il sole della mela cotogna). Le poche volte che lo fa, tuttavia, conviene tributagli religiosa attenzione, perché i suoi film sono tutti tra i più vicini in assoluto al rivelare cosa sia il cinema, come funzionano i nostri occhi e quale sia il loro rapporto col mondo.  Vale anche per questo nuovo, strabiliante Cerrar los ojos. Pochi film come questo hanno dato la giusta misura del nostro presente ormai post-cinematografico, ricordandoci come l’autoscomparsa e l’autocancellazione siano nel DNA stesso del cinema, intrinsecamente.  Perché? Perché vedere e chiudere gli occhi sono la stessa cosa. È la cecità che struttura la visione; è un punto cieco all’interno del campo visivo che rende possibile la costituzione di quest’ultimo. Il cinema ci ha mostrato cosa voglia dire vedere, ovvero ci ha mostrato la cecità al cuore del vedere; è dunque giocoforza che il passo successivo fosse un’era post-cinematografica come la nostra, dove l’iperesposizione delle immagini 24/7 ci rende, di fatto, ciechi verso di esse. Il cinema non è dunque un oggetto perduto di cui avere nostalgia, bensì ciò che è tanto più presente oggi quanto più la nostra cecità odierna è stata da lui rivelata una volta per tutte.  Se mai c’è la minima goccia di nostalgia nella ricerca, da parte dell’ex regista Miguel, del suo amico e attore Julio, misteriosamente scomparso nel 1990 sul set di un suo film, essa viene emendata spietatamente strada facendo, per diventare una limpidissima, perfetta allegoria di come funzionano i nostri occhi, e dunque per estensione la soggettività umana…

…Nessuna fretta, nessuna ossessione drammaturgica per qualche filo o linea retta che ogni scena dovrebbe indaffararsi a seguire o costruire. Ogni scena è “cieca” rispetto al proprio “punto”, e dunque le viene concesso il tempo di espandersi, respirare, assorbire lo spazio a 360° prima di passare oltre in tutta tranquillità. È l’arte del vivere, né più né meno: l’arte di afferrare il vuoto al cuore del presente prima che questo esploda e diventi il presente successivo, sconfessando qualunque eresia di rettilinearità. È un’arte del vivere che però ci è preclusa nella misura in cui continuiamo a essere prigionieri dell’ipervisibilità mediatica dei nostri giorni (come il giornalista, apertamente sbeffeggiato nel film, che dietro al mistero della scomparsa di Julio vede uno scenario ulteriore, una coerenza nascosta che la inquadri e la spieghi). A quest’arte abbiamo accesso solo ripristinando non solo un generico contatto, ma anche un’intima confidenza (soprattutto rispetto alle sue dinamiche intersoggettive) con la cecità al cuore del vedere e della soggettività. Ed è una confidenza che, anche oggi, solo il cinema ci può dare.

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Si es difícil hablar de la película de Erice es porque se trata de un verdadero evento. No es solo el hecho de estar sentados en una butaca, sino de ser parte misma del discurso que se va desarrollando, tanto sobre el cine como sobre el concepto mismo de nuestra vida, de lo que significa recordar, fingir ser otra persona y perderse en el olvido hasta volver a la superficie. Si de obra de arte se trata, esto se debe también a la capacidad de Erice de volver universales acciones que hacemos cada día, sin darnos cuenta de lo profundo que puede ser el hecho mismo de llevar una vida tranquila. Y, en la tranquilidad, se sitúa también el concepto de dolor (como la pérdida de la familia, la muerte del hijo) y de recuperación de un pasado que ya está prohibido, como en el caso de las viejas cintas de celuloide que han dejado paso a elementos tecnológicos más recientes. ¿Es que nosotros también estamos a punto de desaparecer, parte de un pasado que ya no puede volver?

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…Il tema dell’assenza è trattato in modo quasi fisico. Julio Arenas è un assente che tuttavia domina la scena: la sua mancanza si sente ovunque, e i personaggi non fanno altro che parlare di lui, ricordarlo, cercarlo. Erice costruisce il film attorno all’idea che l’assenza può essere altrettanto potente della presenza, un concetto che si riflette anche nel modo in cui l’attore scompare dal campo visivo per continuare a vivere nella memoria.

Questa tensione tra assenza e presenza riflette anche l'esperienza sensoriale di chi guarda: il cinema, infatti, è un’arte dell’assenza, dove ciò che vediamo è solo un’ombra del reale, e dove l'illusione della presenza è costantemente messa in discussione.

Per Erice  il cinema  diventa uno strumento di immortalità, capace di trattenere volti, voci e momenti che altrimenti sarebbero destinati a perdersi. Ma al contempo,  è anche un’illusione, incapace di fermare davvero il flusso del tempo o di restituire pienamente il passato.

Questa duplicità dell'arte cinematografica, come mezzo per preservare e al tempo stesso distorcere il ricordo, è uno dei pilastri filosofici del film.

Il regista getta sul film il suo messaggio che ogni film sia un tentativo di catturare la vita, ma anche che ogni immagine sia destinata a svanire una volta che il proiettore si spegne, come avviene nel sottofinale.

In Close Your Eyes, Víctor Erice crea un'opera stratificata, dove ogni tematica si riflette nelle altre, dando vita a un film che è, allo stesso tempo, un giallo esistenziale, una riflessione filosofica e una celebrazione della potenza del cinema. Le tematiche del ricordo, dell’oblio, dell’identità, del tempo e del ruolo del cinema si intrecciano, trasformando l’opera in un’esperienza contemplativa e intellettualmente stimolante, certamente non respingente ma che richiede un minimo di compromesso con la sua struttura.

L'opera di Erice è comunque un grande film, dal messaggio sfaccettato ma potente e che invita alla riflessione, di certo tra i lavori più belli su questo tipo di tematiche che sa coinvolgere sfruttando a pieno il potere magico del Cinema.

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…Pero los personajes no solo han perdido o renunciado a sus carreras. Erice propone algo más profundo. Arenas ha escapado de una vida superflua, la del cine, la de los actores que interpretan a otros personajes, mientras que Garay ha escapado de la dirección de cine, de sus frustraciones, de filmar para cumplir con la cuota de pantalla del cine español, de filmar para nadie, para que un par de cinéfilos lo adoren. El malestar en Julio ha desencadenado su desaparición y ese mismo malestar ha alejado a Miguel del cine, pero esta angustia sigue a todos los personajes. Max se queja de que la magia del cine ha muerto, aunque luego abjure de sus propias palabras cuando se embarque en el proyecto de Miguel, y Ana, una guía del Museo Nacional del Prado de Madrid, explica muy claramente cómo la rutina ha opacado su apreciación de algunas de las obras pictóricas más bellas e importantes de la historia de la humanidad.

Si bien no tiene ningún sentido, los personajes de Cerrar los Ojos se empeñan en intentar encontrar a Julio Arenas y en hacerle recordar su pasado a pesar de que incluso si lo lograsen, el hombre se ha transformado en otra persona hace ya mucho tiempo. Es precisamente allí donde el film encuentra esa convergencia entre pasado y presente que Erice busca. Arenas ha renunciado a su identidad hace ya muchos años. Ya sea por decisión voluntaria o por los efectos del abuso de las bebidas alcohólicas, su memoria del hombre que fue, del gran actor, el amigo y el padre, ha dejado su lugar a un nuevo hombre, Gardel, una persona habilidosa para las labores manuales, sin pretensiones ni deseos, que vive el presente como si no hubiera un ayer ni un mañana. Eso es lo que diferencia a Gardel de su yo anterior, Julio, y del resto de los personajes, que viven atrapados en el pasado. Max está aprisionado en las cintas de las películas que guarda y las pertenencias de los que pasaron por su estudio y nunca regresaron, Miguel por el paradero de su amigo y su carrera como director, y Ana (Ana Torrent), la hija de Julio, por la relación que nunca tuvo con su padre ausente, una imagen paterna que bien podría no haber existido…

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