giovedì 14 novembre 2019

The Irishman - Martin Scorsese

potrei dire che è un film capolavoro perfetto e non ci sarebbe bisogno di aggiungere troppo cose:
1. il protagonista principale, oltre agli attori mostri sacri, è il Tempo, raramente in un film il suo ruolo è così potente e decisivo.
2. la bellezza di guardare il film in lingua originale con i sottotitoli è quella di vedere e ascoltare come e quando gli italoamericani mafiosi parlano l'italiano, non per le storie di mafia, ma per le cose belle, il mangiare, i ricordi, la gioventù, la famiglia.
3. il film dura tre ore e mezzo, ma potrebbe durare anche il doppio senza problemi, ogni scena è necessaria, i dialoghi sono strepitosi.
4. alla sceneggiatura c'è Steven Zaillian, regista di quello straordinario filmone che è The night of.
5. Joe Pesci, Al Pacino e Robert De Niro sono al loro meglio, ancora una volta, uno spettacolo.
6. alla fine tutto si paga, ma non per sempre e non per tutti, potenza della realtà.
non perdetevi The Irishman, al cinema, o almeno su Netflix, tre ore e mezzo di perfezione per pochi euro, non capita spesso.
buona visione - Ismaele









Il disincanto che azzera valori e morale è sottolineato da una regia mai gridata, che utilizza con convinzione il fuori campo, che si apre improvvisamente a inflessioni di suspense hitchcockiana, a gridati momenti di nerissima ironia, per poi ripiegarsi con cupissima grazia nel fatalismo che non ammette redenzioni. C’è sempre un prezzo da pagare che non lascia spazio a rimorsi o rimpianti: la colpa è un fatto congenito, non lascia tracce se non quelle diluite in una memoria criminale che rende attoniti e rassegnati.
The Irishman è un gigantesco, colossale, sepolcrale finale di partita. Una fluviale narrazione punteggiata da matrimoni e battesimi girati al ralenti, messi in scena come momenti onirici e allucinati, ma che si rivela un funerale interminabile in cui ci si incrocia in attesa del proprio turno. Una seduta spiritica in cui i pochi sopravvissuti sono ombre, uomini-fantasma prigionieri del loro passato.
«It is what it is» – «è quello che è» – ripete come un mantra Bufalino al devoto e dubbioso Sheeran nella convinzione che quei codici animaleschi e brutali di violenza e sopraffazione, gli unici che conoscono, siano gli ingranaggi immutabili che fanno girare il mondo, seppur nella direzione sbagliata…

The Irishman è un capolavoro perché è un film senza precedenti. Destinato, al di là di qualsiasi imperfezione, a porre degli interrogativi nuovi nel mondo del cinema, riguardo la sua fruizione, i modi di scrivere e gli orizzonti produttivi. Una pellicola di una complessità capillare, bulimica nei contenuti e nel linguaggio, ma tenuta in piedi da colonne solidissime, quali prove recitative magistrali nella loro funzionalità, una poetica maestosa, uno scopo preciso e la classe dei maestri. Un Titanic con un timone abile e un cuore ardente, che, oltre a portare la barca in porto, scopre nuovi lidi lungo il tragitto. Agli altri la verifica della loro potenzialità.

Formalmente è l’opera più ingombrante di Scorsese, quella più ambiziosa, in un certo senso fuori controllo. Non solo ci sono decine di momenti che non portano avanti la trama, ma ci sono scene diverse che assolvono alla stessa funzione, cioè operano un consolidamento dei rapporti tra i personaggi basato sulla pura insistenza, in ultimo è come averli impressi addosso – nella testa, nella retina, nelle orecchie.
Naturalmente non è una questione di noia o piacere, come ogni esperienza è diversa per tutti, ma è chiaro che si va molto oltre le necessità del romanzo storico, ci sono anzi certi stralci perfino e paradossalmente frettolosi da questo punto di vista, l’unica necessità riguarda i personaggi e gli interpreti, cioè l’autore, è un’opera generosa ed egoista assieme.
Le scene migliori sono, ancor più che in passato, attorno a un tavolo. O dentro un’auto. I dialoghi sono spesso brillanti, le interpretazioni superbe. Non se ne parla molto nelle recensioni lette fin qui, ma Harvey Keitel – che ha appena 5 minuti in tutto il film e parla pochissimo – ha ancora una presenza scenica notevole (senza bisogno del digitale). Joe Pesci, che interpreta un mafioso dall’indole opposta a quella del Tommy De Vito di Quei bravi ragazzi, un piccolo boss dalle premure quasi materne, uno che non alza mai la voce, è da brividi: una grande emozione, attore di infinite sfumature, ancora più evidenti accanto alle performance di sfacciato mestiere di Pacino e De Niro…

Il contrasto fra un De Niro sobrio e prosciugato nella sua maschera laconica e un Pacino scatenato nel suo delizioso istrionismo, in un ruolo che in precedenza era stato interpretato da Stallone e Nicholson, funziona benissimo ed è una delle scelte vincenti della regia, insieme ad un Joe Pesci che ritorna al cinema dopo una pausa di molti anni e ci offre un'interpretazione minimalista ed inquietante del suo Russell Bufalino, un ruolo che resterà negli annali del cinema di Scorsese e non solo; fra i caratteristi una menzione d'onore a Jesse Plemons nella parte del figlio maschio di Hoffa e Anna Paquin come Peggy Sheeran adulta. La durata poteva forse essere un po' alleggerita, ma lo sceneggiatore Zaillian ha una scrittura di ampio respiro romanzesco, come già in "Schindler's list", che necessita dei suoi tempi per arrivare alla fine a trasmettere una desolante sensazione di sconfitta, solitudine e morte incombente…

…Una lectio magistralis di Martin Scorsese, che rende tutto tremendamente facile pur disponendo di artifici tecnici, come segmenti sinusoidali, quelle gemme che mandano il cinefilo in brodo di giuggiole, e della tecnica del de-aging che, dopo un primo momento di smarrimento (nella prima incursione di Robert De Niro ringiovanito, sembra di essere catapultati in un brutto esperimento di Robert Zemeckis), mostra i muscoli (tanti soldi ben spesi) e dà frutti pregiati, annullando ogni interferenza.
Questa somma di qualità fanno di The Irishman un’opera senza ritorno (niente è cancellabile), un approdo definitivo, (probabilmente) un’ultima occasione per ammirare Robert De Niro e Al Pacino alla massima potenza, per rivedere Harvey Keitel e contemplare la magnificenza di Joe Pesci (per chi scrive, la sua è l’interpretazione migliore in assoluto all’interno del film e sarebbe scellerato non consegnargli l’Oscar per il miglior attore non protagonista).
Un film prezioso al pari di un tramonto indimenticabile, vissuto un attimo dopo l’altro fino al suo esaurimento, assaporandone ogni barlume di luce, nella consapevolezza che, d’ora in poi, non si potrà andare oltre. Forse nemmeno arrivarci vicino.
Epocale.

Ci sono tre aspetti affatto secondari che credo vadano sottolineati. Il primo, è il fatto che il film vive anche di leggerezza, disinnescando la gravità del potere criminale con pillole di sagace ironia. Si prenda su tutte la sequenza (praticamente già virale) in cui Jimmy Hoffa litiga col boss Tony Provenzano (interpretato da Stephen Graham) perché è arrivato con quindici minuti di ritardo all’appuntamento presentandosi, per giunta, con un colorato paio di bermuda (stiamo in Florida). Uno scontro in stile western dove al posto delle pistole c’è il vicendevole scambio di parole al veleno. Il secondo, la durata del film (circa tre ore e mezza), che potrebbe rappresentare un difetto. O forse no se ci si sintonizza col respiro ampio della storia, al suo carattere da epopea "classicheggiante". L’ultimo (il più importante a mio avviso), è quello relativo al ruolo fondamentale di Peggy, la figlia di Frank Sheeran. Quando è piccola (interpretata da Lucy Gallina), i suoi occhi sono portati a capire cose che una bambina non dovrebbe mai capire, a maturare una diffidenza per il padre quando ad un padre gli si dovrebbe solo voler bene. Quando è grande (Anna Paquin), invece, instaura una complicità spensierata con Jimmy Hoffa, la stessa che si era sempre rifiutata di concedere a Russell Bufalino. Cosa che insinua un ambiguo sentimento di gelosia nell’animo del boss mafioso. Ecco, Martin Scorsese è come se ne avesse voluto fare una sorta di angelo ammonitore, la cui presenza può bastare da sola a far emergere le trame sottaciute della cattiva coscienza. Le trame di una storia che sa scrutare le nascoste profondità delle cose…

il regista newyorkese non fa sconti né a se stesso - a dire, al suo cinema - né al pubblico, portando sullo schermo, allo stesso tempo, la storia privata di un gruppo di uomini uniti dal patto criminale e il grande affresco di una società, quella americana, in cui i valori, le dinamiche e i rapporti sono subordinati alle logiche stringenti del capitale e - perché no - all’avidità del singolo. Se a prima vista tutto questo potrebbe sembrare esagerato, essendo il film in questione prima di tutto un mob movie, in realtà la grande ambizione di Scorsese è stata, e non da ora, non quella di confinare il microcosmo criminale, in particolare quello italoamericano, all’interno di un genere, quanto di fare dello stesso l’epitome di un sistema assai più stratificato e pervasivo coincidente non solo con la stessa società a stelle e strisce, ma addirittura con quella dell’intero mondo occidentale…

…Abbandonati dunque i ritmi schizofrenici di "Quei bravi ragazzi" o "Casino' " ,Scorsese dipinge la sua "Cappella Sistina" del gangster movie,tra montaggio alternato e dialoghi di alta classe, supportati dalla sceneggiatura "monstre" di Steve Zaillan.Il maestro ci accompagna sornione nelle vicende da malaffare del citato Sheeran e del suo mentore Russell Bufalino ,contrapposti alla nevrotica figura del famigerato caposindacalista degli autotrasportatori Jimmy Hoffa.
E' la storia dell'America che parla, dalla Baia dei Porci ai missili su Cuba, dalla crisi con Fidel Castro, sino all' assassinio di John Kennedy. Assistiamo ad un romanzo dalle mille sfumature, narrate nelle performance definitive di De Niro, Joe Pesci e lo scoppiettante Al Pacino,senza dimenticare il comprimario Stephen Graham, molto bravo nel tratteggiare la figura di uno schizzato boss mafioso. Un cast fenomenale dunque, di grandi attori in grado di primeggiare tra loro senza pestarsi i piedi, ma piuttosto creando un alchimia vincente al servizio di una storia fluviale e complessa. Si puo' dire con molta certezza che sia De Niro che Joe Pesci regalano una prova sommessa , fatta di sguardi d'intesa e carisma naturale, due figure intescambiabili nell'indole ,dove la recitazione è lontana anni luce dalla nevrosi di "Quei bravi ragazzi". Un cambio di prova che denuncia una certa maturità nei toni e nel registro narrativo, a loro due è contrapposta la figura esuberante di Jimmy Hoffa ,nella quale Pacino gigioneggia alla grande donandoci un personaggio vigoroso e carismatico. A questo dobbiamo unire la regia elegante e ben intrecciata di Scorsese, nella prova finale della sua carriera. Una sorta di "Amarcord" malavitoso che al contrario di altre sue pellicole non celebra le gesta dei suoi antieroi ,ma piuttosto ne testimonia un decadimento fisico e morale. Perchè in "The Irishman" è presente la morte in ogni sfumatura,ne sentiamo il gelido afflato in ogni inquadratura. Al contrario di "Quei Bravi Ragazzi" dove c'era il lato "vincente" del gangster, qui assistiamo piuttosto ad una lenta e graduale caduta a picco.di Frank Sheeran rimane infine una figura di anziano ingombrante alle prese con i rimpianti e la fine che incombe. Di lui resisterà solo il codice morale che si è portato via anche i suoi piu' cari affetti,tra cui la figlia Peggy che sin da bambina osserva le malefatte del padre



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