domenica 24 novembre 2019

Il giocattolo – Giuliano Montaldo

un grandissimo Nino Manfredi dà la marcia in più a questo bel film, un gioiellino con un'ottima sceneggiatura.
negli anni '70 il cinema italiano ha prodotto molti film nei quali la violenza e l'insicurezza erano protagoniste, il film di Giuliano Montaldo è uno dei meno conosciuti, immeritatamente.
cercatelo e guardatelo, non sarete delusi - Ismaele




Il Giocattolo è un piccolo grande capolavoro per vari motivi. Il primo, l’ambientazione. A distanza di anni, riesce a trasmettere il grigiore e l’oppressione degli anni ’70. Magistrale la scena iniziale con Manfredi ammanettato a una valigia piena di contanti per una commissione. Nei suoi occhi c’è la paura di chi sa di poter essere rapinato in ogni momento. O quella del supermercato. Con il poliziotto piantato all’entrata e la voce dalle casse che ricorda: “I clienti possono essere perquisiti in qualsiasi momento”. Secondo: la clinica regia di Montaldo. Perfetta nel documentare senza sbilanciarsi la lenta discesa nella disperazione del “piccolo borghese” Vittorio. Tra parentesi: colonna sonora di Ennio Morricone. Ma ciò che rende indimenticabile Il Giocattolo è senza dubbio l’interpretazione di Nino Manfredi. Grande nel far ridere, immenso nel far piangere. Sbalorditivo nell’abbandonare tutti i tratti caratteristici per mostrare le sfaccettature e la complessità del protagonista. La sequenza in cui passa la notte a fumare e preparare pallottole dalla punta cava, ricorda fin troppo bene la medesima scena di De Niro in Taxi Driver.
Doloroso quanto indimenticabile, Il Giocattolo è una pietra miliare del cinema italiano. E un’istantanea imprescindibile della nostra storia. Per quanto “di piombo” questa sia.

Mesta “tragedia di un uomo ridicolo”, Il giocattolo segue la spirale d’umiliazione e risentimento del pavido portaborse Vittorio Barletta, fidato prestanome di un volgare e disonesto industrialotto del Nord. Nel raccontarne l’ossessione feticistica per una pistola (“il giocattolo” del titolo), lo psicodramma di Montaldo confonde la denuncia col grottesco, e pure dove schematico, facilotto o melenso, sa portarsi dietro una febbre che non si dimentica, una vertigine sottile e malsana che è anche la nota più intonata della nostra commedia di quegli anni. Anni di piombo, di terrore diffuso, di appelli al disarmo. La commedia all’italiana si era appena vestita a lutto con il postremo Un borghese piccolo piccolo di Monicelli, intenzionale pietra tombale del genere: sulla sua scia, e di quella del coevo L’arma di Squitieri, Il giocattolo torna a parlare di “cittadini che si ribellano” con una pistola in mano e di un abisso ormai insanabile frappostosi tra le istituzioni e l’anonimo, sfiduciato Povero Cristo di turno. Il rag. Barletta conserva del resto tutte le stimmate fantozziane del caso, come la disobbedienza quieta del Bartleby di Melville, riferimento a monte dello stesso Villaggio: così il suo timido “Eh no, io esisto” è a un passo dal “Preferirei di no” melvilliano, e per Barletta apre a una rivolta non meno frustrata e suicida della routine fin lì condotta. Al di là di quel che si può trascurare in termini di riflessione sociale, dall’antiborghesismo spicciolo al pietismo strisciante, è vero che il dramma umano di Montaldo racconta, su tutto, la storia di una solitudine spersa tra l’indifferenza dei tanti, e anziché fornire – come si è scritto – un epigono nostrano al nutrito filone dei “giustizieri della notte”, lo problematizza e lo rovescia in farsa tragica (si rifà pure l’auto-motteggio di Taxi Driver, di due anni prima, solo che qui tutto è più ridicolo e fallimentare). Prodotto da Sergio Leone e interpretato da un Nino Manfredi ai suoi picchi d’intensità e disperazione, Il giocattolo funziona, un po’ come il memorabile finale di Il Belpaese di Salce (stessi anni, stesso humour), anche nel farci presente che il vero problema non è la paura dell’inflazione (o di altri moloch), ma l’inflazione della paura. 




Nessun commento:

Posta un commento