negli anni '70 il cinema italiano ha prodotto molti film nei quali la violenza e l'insicurezza erano protagoniste, il film di Giuliano Montaldo è uno dei meno conosciuti, immeritatamente.
cercatelo e guardatelo, non sarete delusi - Ismaele
… Il Giocattolo è un piccolo grande capolavoro per vari
motivi. Il primo, l’ambientazione. A distanza di anni, riesce a trasmettere il
grigiore e l’oppressione degli anni ’70. Magistrale la scena iniziale con
Manfredi ammanettato a una valigia piena di contanti per una commissione. Nei
suoi occhi c’è la paura di chi sa di poter essere rapinato in ogni momento. O
quella del supermercato. Con il poliziotto piantato all’entrata e la voce dalle
casse che ricorda: “I clienti possono essere perquisiti in qualsiasi momento”.
Secondo: la clinica regia di Montaldo. Perfetta nel documentare senza
sbilanciarsi la lenta discesa nella disperazione del “piccolo borghese”
Vittorio. Tra parentesi: colonna sonora di Ennio Morricone. Ma ciò che rende
indimenticabile Il Giocattolo è senza dubbio l’interpretazione di Nino
Manfredi. Grande nel far ridere, immenso nel far piangere. Sbalorditivo
nell’abbandonare tutti i tratti caratteristici per mostrare le sfaccettature e
la complessità del protagonista. La sequenza in cui passa la notte a fumare e
preparare pallottole dalla punta cava, ricorda fin troppo bene la medesima
scena di De Niro in Taxi Driver.
Doloroso
quanto indimenticabile, Il Giocattolo è una pietra miliare del cinema italiano.
E un’istantanea imprescindibile della nostra storia. Per quanto “di piombo”
questa sia.
Mesta “tragedia di un uomo ridicolo”, Il giocattolo segue la
spirale d’umiliazione e risentimento del pavido portaborse Vittorio Barletta,
fidato prestanome di un volgare e disonesto industrialotto del Nord. Nel
raccontarne l’ossessione feticistica per una pistola (“il giocattolo” del
titolo), lo psicodramma di Montaldo confonde la denuncia col grottesco, e pure
dove schematico, facilotto o melenso, sa portarsi dietro una febbre che non si
dimentica, una vertigine sottile e malsana che è anche la nota più intonata
della nostra commedia di quegli anni. Anni di piombo, di terrore diffuso, di
appelli al disarmo. La commedia all’italiana si era appena vestita a lutto con
il postremo Un borghese piccolo piccolo di Monicelli,
intenzionale pietra tombale del genere: sulla sua scia, e di quella del coevo L’arma di Squitieri, Il giocattolo torna a parlare di “cittadini che si ribellano” con una
pistola in mano e di un abisso ormai insanabile frappostosi tra le istituzioni
e l’anonimo, sfiduciato Povero Cristo di turno. Il rag. Barletta conserva del
resto tutte le stimmate fantozziane del caso, come la disobbedienza quieta del
Bartleby di Melville, riferimento a monte dello stesso Villaggio: così il suo
timido “Eh no, io esisto” è a un passo dal “Preferirei di no” melvilliano,
e per Barletta apre a una rivolta non meno frustrata e suicida della routine
fin lì condotta. Al di là di quel che si può trascurare in termini di
riflessione sociale, dall’antiborghesismo spicciolo al pietismo strisciante, è
vero che il dramma umano di Montaldo racconta, su tutto, la storia di
una solitudine spersa tra l’indifferenza dei tanti, e anziché fornire – come si
è scritto – un epigono nostrano al nutrito filone dei “giustizieri della
notte”, lo problematizza e lo rovescia in farsa tragica (si rifà pure
l’auto-motteggio di Taxi Driver, di due anni prima, solo che qui tutto è più ridicolo e fallimentare). Prodotto
da Sergio Leone e interpretato da un Nino Manfredi ai suoi picchi d’intensità e
disperazione, Il giocattolo funziona, un po’ come il memorabile finale di Il Belpaese di Salce (stessi
anni, stesso humour), anche nel farci presente che il vero problema non è la
paura dell’inflazione (o di altri moloch), ma l’inflazione della paura.
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