domenica 13 settembre 2020

Assandira - Salvatore Mereu

un film raccontato dalla fine, e che finisce con la fine della storia, se una fine, e quale, esiste.

il protagonista è Gavino Ledda (perfetto), il vecchio pastore coinvolto in un (doppio) gioco che non capisce troppo.

il figlio che torna, e la bella moglie tedesca, lo mettono in crisi, e non poco.

un agriturismo dove si deve fingere di essere quello che forse non si è mai stati, e che comunque non si è più, è un salto troppo grande per Sebastiano, che solo vuole un nipotino, e per questo lascia passare troppe cose.

la società dell'apparire, la società dello spettacolo, per chi passa dal medioevo alla globalizzazione contemporanea in una sola vita, sono impossibili da gestire, e il cervello va in pezzi.

i film sardi, non pochi, e certi altri meridionali, Vittorio de Seta in primis, sono esotici per chi li vede (come se fossero film mongoli o indiani o subsahariani degli anni '60, e non solo), c'è molto, troppo, che non è riducibile al già visto, già conosciuto, sono affascinanti e poco comprensibili, anche perché il nocciolo non si può aprire con i soliti schiaccianoci buoni per tutti gli usi.

c'è una parte che puoi capire se sei antropologo (infatti il libro, qui la recensione da cui è tratto il film, è dell'antropologo-romanziere Giulio Angioni) o magari puoi intuire più o meno bene se quell'aria e quei personaggi, i loro pensieri, li hai conosciuti.

l'animo umano è un mistero, Sebastiano non capisce bene, noi ci illudiamo di sì (illusi).

film da non perdere, se riuscite a trovarlo - Ismaele


 





Salvatore Mereu la mette in scena in progressivi disvelamenti nel grigiore oscuro dei contrasti notturni e nella luce abbacinante delle giornate di sole, lavorando sulle lingue (l’italiano e il sardo, ma anche l’inglese e il tedesco che penetrano fra le mura di Assandira) e rimanendo stretto intorno ai suoi protagonisti, ai loro angusti spazi, alla cultura millenaria del popolo isolano. Dirige, proprio come la “farsa” dell’agriturismo che vuole far provare l’essere sardo a chi sardo non lo è, il cliché dell’anziano silenzioso e in attesa con la doppietta, mentre mostra il suo lavoro quotidiano con gli animali e la sua intima appartenenza ai luoghi dove è nato e cresciuto, ma anche il suo essere progressivamente disposto a cantare ai turisti un’epopea falsificata, fatta di inesistenti banditi e di improbabili aneddoti, fatta di aperte menzogne e di giochi con la verità. Ragiona sul concetto di finzione, sulla famiglia, sui significati più profondi della Sardegna, fra la teoria cinematografica e la tradizione. Il risultato è un film potente, stratificato, di gran lunga fra le più appaganti visioni di Venezia77, nel quale poco importa che l’orgia nel prefinale, quasi una risposta alla zoofilia di Padre Padrone, sia l’unico momento non del tutto convincente. Rimane un gran lavoro di non-attori, di cultura locale, di solitudini e di sfumature (im)percettibili che non potranno che condurre alla tragedia. E no, il vero mistero non è se Costantino abbia effettivamente appiccato le fiamme. Il vero mistero è una considerazione ben più politica che cinematografica. Perché Assandira non era in concorso? Forse perché non ci si poteva permettere che un film cosi indipendente e personale, orgogliosamente fuori dai radar dell’industria e delle grandi produzioni, rischiasse di vincerlo?

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Forse, e questo vale per la Sardegna come per il Sud Italia, la vera esperienza non è mai in ciò che si vede, nella dimensione puramente estetica. Né nel richiamo dell’esotico. Ma semmai nell’altra faccia nascosta e misteriosa, esoterica, nel segreto di una tradizione e di una credenza, nei silenzi che custodiscono il senso di certi rapporti, di generazione in generazione, nella crudezza delle pratiche. Sì, c’è molta antropologia in Assandira, a partire dal romanzo omonimo di Giulio Angioni, lo studioso scomparso nel 2017. Ma è un’antropologia oscura, spiazzante, assolutamente indecifrabile con la lente del nostro sguardo 2.0, ormai assuefatto a un livellamento di prospettive, alla confusione tra virtuale e reale, alle finzioni dell’immersione garantita e ipercontrollata. E il cortocircuito si innesca con la presenza enorme, assoluta di Gavino Ledda, che dopo aver subito il padre padrone, sembra dover affrontare qui la nuova tirannia dei figli, delle emancipazioni apparenti, dello sviluppo di ritorno, delle lusinghe del denaro. Una presenza testimoniale che rimette in gioco le memorie di una vita e di un’opera, i ricordi di una lingua e di una cultura che rischiano di smarrirsi…

…Ma al di là delle traiettorie del dramma, la verità è che Mereu affonda ancora una volta lo sguardo nelle viscere della terra e con lucidità estrema, con una potenza disarmante, squarcia i miraggi di tutto un colonialismo turistico che viaggia tra nature mozzafiato, la perversa fascinazione dell’arcaico, la necessità di un divertimento impunito. E fa a pezzi qualsiasi estetica da cartolina, quella imperante di un cinema che si piega a logiche da film commission. Non c’è mai un vero campo lungo, un’immagine che si perda nelle lusinghe del paesaggio o che ammicchi al perbenismo animalista. L’inquadratura, al contrario, è sempre piena, densa, asfissiante, ammassa uomini e bestie, si apre a invasioni di campo, a irruzioni inquiete, si illumina e si oscura a intermittenza. La superficie che vorrebbe essere scintillante, si fa cupa, sporca, fangosa. Sì, è innanzitutto una fatica la vita tra i campi e i pascoli, “o sciamarro è ‘no brutto attrezzo” come mi diceva qualcuno… E perciò Assandira è un film di fatica, in cui le uniche vibrazioni di dolorosa tenerezza si aprono nelle parole fuoricampo di Costantino Saru/Gavino Ledda, un uomo che è stato abituato a non abbandonarsi agli incantesimi del desiderio e che però, perciò, riconosce ancora il senso delle cose.

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Come accadeva nei romanzi deleddiani, in cui aleggiano misteriose forze motrici che spingono i personaggi a compiere il male, e anche il bene, Assandira è abitato da personaggi erranti e da individui che vogliono permanere, come se il continente e l’isola si specchiassero per un momento ma solo in una teologia dell’immagine ancorata all’autoesotizzazione profana della rappresentazione sarda. Il locus amoenus si fa carne e spirito; la relazione tra gli uomini e l’aspra terra sarda diventa la pantomima di una visione e di una versione ludica della propria storia, in funzione di un sardismo ad usum delphini, stretto tra tradizione e modernità, passato e presente. 

I personaggi di Assandira sono granitici, stoici, quasi omeriani, verghiani, ma il punto di vista principale, quello attraverso cui noi guardiamo la storia, e la ascoltiamo grazie ad una continua e persistente voce fuori campo, è quello di Costantino, interpretato da Gavino Ledda. Costantino ci racconta una storia, una storia profetica, drammatica, incastrata tra acqua e fuoco, ed è grazie a lui che iniziamo a capire come sono andate le cose. Ma il dubbio che racconti qualcosa di non veritiero è tale che, mentre fa una ricostruzione dei fatti accaduti, sembra che la stia forgiando in quel momento, a suo modo, a suo piacimento, come nel modello plurale e relativista di Rashomon di Akira Kurosawa. Non c’è nessuno che dica la verità. Non abbiamo il coraggio di dire le cose neanche a noi stessi.

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 L’interpretazione migliore è sicuramente quella di Anna König, attrice tedesca vista nella serie di NetflixDark. Certamente va elogiato l’impegno e la personalità di Gavino Ledda, che si è prestato ad interpretare Costantino, recitando per la maggior parte del film in lingua sarda. La König si è cimentata con l’italiano ma soprattutto con il personaggio di Grete, che è anche ben scritto. Una donna ambigua, difficile da comprendere che sconvolge la vita di un’intera comunità ma alla fine ne rimane vittima. Nel complesso il film di Salvatore Mereu convince a metà, un vero peccato.

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Stabilendo fin da subito un clima ostile che esclude dall’inizio lo spettatore dal circolo ristretto e famigliare che viene accolto nelle mura di Assandira, è la scrittura minimale dei personaggi e, ancora più, l’errata direzione degli attori che genera una soluzione respingente verso cui l’attenzione del pubblico ha davvero ben poco a cui aggrapparsi, vedendo un circolo chiuso rimanere ancora più accartocciato su se stesso, incapace di esprimersi se non malamente o attraverso un lessico inutilmente codificato. L’ambiguità che Mereu tenta di fornire e che Assandira non riesce a sua volta a gestire, sfugge totalmente al controllo del proprio autore che, con una storia che viene condizionata anche dall’interpretazione dei suoi attori, allontana il desiderio di far parte noi stessi degli ospiti di un luogo in cui assaporare ancora costumi e usi, e ancor più di domandarsi la causa per cui quel fuoco è arso…

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…La struttura noir è la cosa migliore del film, scura, piovosa, disperata, come la voce narrante di Ledda stupefatta e rassegnata. Lo svelamento della trama gialla, con i continui flashback generati a partire dalla scena del delitto e dalle domande di un magistrato, cede però a troppi inciampi di sceneggiatura, a una rappresentazione gratuita della simbologia dell’incesto e soprattutto a uno stile piattamente realistico, con la dittatura della camera a mano come unica scelta stilistica. Distaccato e al tempo stesso coinvolto, Mereu racconta con pietà e rabbia; non riesce però ad andare oltre la semplice impaginazione di un’umanità miserevole, con i personaggi ridotti a pedine di una trama mai credibile.

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…si muovono i tre protagonisti, ciascuno con le sue colpe, i suoi silenzi o le sue troppe parole. E tra i tre man mano si sviluppa un gioco al massacro, in cui nessuno è innocente e tutti si solleticano per una qualche idea: il padre Costantino si lascia sedurre dalla fisicità della nuora Greta, il figlio Mario si isola nelle sue ottusità e nei suoi segreti, Greta stessa – apparentemente la malefica ideatrice di questa giostra degli orrori – è in fin dei conti vittima del comportamento oscillante e incerto dei due maschi. Questo, finché Costantino resta solo, a piangere tra le macerie, a rodersi per la vergogna e a pentirsi amaramente per aver rinnegato se stesso e le sue origini. E il volto dolente, immoto, segnato dalla terra e dalla vita, di Gavino Ledda, e quel suo sguardo fisso, vacuo, vitreo, restano il dono più prezioso di Assandira.

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