mercoledì 2 settembre 2020

LA DEMOCRAZIA IGNORANTE - intervista a Gianni Canova

  

(di Paolo Armelli)

Lo si conosce soprattutto come il “cinemaniaco” di tante rubriche sui canali Sky, ma Gianni Canova ha fatto del cinema una passione e una ragione di vita su tutti i fronti. Storico del cinema e professore, dal 2016 è anche rettore dello Iulm di Milano. Proprio da questo suo osservatorio privilegiato sulla cultura e l’educazione italiana, ha di recente scritto un saggio infuocato che s’intitola Ignorantocrazia, in libreria dal 23 ottobre per Bompiani. Il sottotitolo è eloquente quanto inappellabile: “Perché in Italia non esiste una democrazia culturale”.

Partendo dall’emergenza populista di oggi, Canova ricostruisce le origini di quella che chiama “Anoressia culturale” del nostro Paese, scavando nella contraddizione fra l’intellettualismo progressista chiuso nelle élite e i consumi popolari che hanno fatto fortuna, da Tex Willer a Scerbanenco. Anche in questa intervista saranno i libri e i film a guidare la sua osservazione del mondo, tanto desolante quanto piena di voglia di cambiare le cose.

Sbirciando il suo profilo Instagram – dov’è molto attivo – si nota che anche lei parla di un film molto discusso di questi tempi, Joker: le è piaciuto?
Trovo che Joker sia un film epocale, che riesce a intercettare gli umori profondi del corpo sociale e a dar corpo a tutta una serie di stati emotivi palpabili nell’aria: trasforma un reietto, un pagliaccio bullizzato, emarginato in una specie di vendicatore nemesiaco dell’ingiustizia che permea la nostra società. È un’operazione molto coraggiosa: la cosa interessante è che questo film ha una sua forma, ha la capacità di trasformare in artefatti visuali queste emozioni. Sta piacendo molto in tutto il mondo e sta riconciliando molti spettatori con il cinema, quando invece il cinema è sempre più irretito dal feticismo degli autori che pensano solo a raccontare sé stessi o la propria rabbia.

 

Non sono mancate le polemiche però
In America è stato criticato perché mette in scena della violenza e come spesso accade il moralismo americano ritiene che queste scene possano generare comportamenti imitativi: io credo che possano venire invece da qualsiasi parte.

 

In Italia gli addetti ai lavori arricciano il naso, sono quelli con cui me la prendo io: lo snobismo è l’obiettivo principale del mio libro.

 

Dopodiché mi rendo conto anche io degli scricchiolii di sceneggiatura, delle cose non del tutto risolte: ma perché, ci si innamora solo delle donne perfette? Io nella mia vita mi sono innamorato delle donne pur vedendo tutti i loro difetti, ma erano comunque perfette per me in quel momento. Ho imparato invecchiando che la vita è fatta di imperfezioni, mentre il perfezionismo genera solo totalitarismi.

Cosa pensa allora di un grande regista come Martin Scorsese che definisce i film di supereroi come parchi di divertimento, luna park?
Non sono d’accordo ovviamente, anche i film di Scorsese sono dei luna park. Abbiamo qualcosa contro i luna park? Il cinema è nato lì, in origine era uno spettacolo da fiera: nasce nel fango, si porta dietro la puzza dello sterco dei cavalli, veniva proiettato nelle piazze, era uno spettacolo popolare.

 

Mi spiace per Scorsese, ma se non gli piacciono più i film si metta a scrivere romanzi.

 

Nel suo libro scrive che “Fare film di genere richiede umiltà, mettersi al servizio del pubblico”: non succede abbastanza spesso?
Oggi succede nei prodotti più sciatti, che pensano di lusingare il pubblico come tanta scontata e ormai snervata commedia italiana. Il cinema d’autore spesso del pubblico non s’interessa: decine di volte ho sentito dire “Non faccio film per il pubblico, ma per me”, testuali parole.

 

Il cinema è anche un’attività industriale, una sana industria culturale dovrebbe impostare le proprie produzioni non per appagare questo o quel bisogno espressivo di un autore ma cercando di individuare i bisogni del pubblico e magari prefigurare quelli ancora non esistenti.

 

Mi chiedo perché nessuno in Italia abbia mai pensato di fare un film da Montalbano, che fa mediamente otto milioni di spettatori in tv. Perché non prendere un grande regista come Martone o Tornatore e chiedergli di farlo? Come se il cinema fosse fatto per soddisfare il genio creativo e non per aiutare il pubblico a intensificare le proprie esperienze emotive o a uscire dal grigiore della vita.


In Ignorantocrazia la sua tesi di fondo è che in Italia non esiste una democrazia culturale perché non esiste un’industria culturale: il problema principale è dunque lo snobismo nei confronti dei consumi popolari?

In realtà a monte dico che il problema è la devastante ignoranza che caratterizza il nostro paese: siamo il popolo più analfabeta e abbiamo la borghesia più ignorante d’Europa. Questo non è “un” ma “il” problema: spesso ci si rifiuta di ammettere che in Italia siamo vicini al 30% di analfabeti. Chiedere a un popolo così privo di competenza un’opinione su qualsiasi cosa è una farsa che sottrae alla democrazia la propria base ontologica.

 

Se tu sottrai ai tuoi cittadini conoscenze e competenze e chiedi loro un voto su qualcosa che non sono in grado di comprendere secondo me sei fraudolento e anche un po’ criminale. In esergo cito infatti una frase di Voltaire: “È talmente ignorante che risponde a qualsiasi domanda gli venga fatta”.  

 

Dati alla mano la situazione è davvero allarmante: come se ne esce?
Il primo problema è la scuola.

 

Per me l’umanità si divide in due categorie, le persone che nella loro giovinezza – da qualsiasi famiglia, credo, cultura provenissero – hanno incontrato un insegnante in grado di accendere il fuoco e le persone che non l’hanno incontrato.

 

I primi, anche se venivano dai ghetti o dai bassifondi, se la sono cavata e hanno trovato il loro posto nel mondo, gli altri si sono persi.

 

Insegnare significa lasciare un segno: ce ne sono sempre meno di insegnanti così, è una professione stanca, avvilita, senza più reputazione sociale, con retribuzioni ridicole.

 

Tutti i governi non hanno fatto alcuna politica sull’istruzione, abbiamo ancora i programmi della riforma Gentile. Dicono solo “Assumiamo sessantamila precari”: ma a insegnare cosa? E chi li sceglie, chi accerta la loro capacità di insegnare? Vogliamo anche insegnare a insegnare? Se c’è questo rifiuto della cultura è perché da cinquant’anni non ci siamo posti il problema della centralità della formazione, non solo come questione quantitativa ma anche qualitativa.

Il problema è quindi politico.
È sicuramente politico, ma ci sono responsabilità enormi anche in chi negli ultimi cinquant’anni ha gestito per esempio la televisione pubblica. Non si può imporre alle televisioni private degli obblighi, ma la Rai forse doveva preoccuparsi un po’ di più del corpo sociale, invece ha inseguito le televisioni private in maniera colpevole.

 

Una colpa grandissima è anche nostra, mia, di noi professori universitari che spesso abbiamo un atteggiamento di supponenza nei confronti degli studenti. Esimi colleghi sono convinti che gli studenti siano degli optional, che basti proiettare quattro slide. Non a caso si chiamano baroni, l’accademia è una casta medievale.

 

Sono difficili da scardinare, ma queste cose vanno soprattutto dette.

Ho letto che è stato eletto perché si voleva che lei fosse un “rettore visionario”: è davvero possibile cambiare le cose?
Ci stiamo provando ma è durissima: anche qui nella mia università ci sono professori che non vogliono essere disturbati, non vogliono le mail perché devono fare ricerca.

 

È durissima far cambiare questa mentalità facendo capire che siamo noi al servizio degli studenti. Se poi la ricerca non la porti in aula, soprattutto nelle facoltà umanistiche, per chi la fai?

 

Ma qualcosa si muove: per esempio ho nominato prorettori anche professori associati, non solo ordinari, e vedo la fatica di alcuni esimi colleghi professori ordinari maschi nel doversi confrontare con donne associate che sono però gerarchicamente superiori a loro. Mi diverto molto – ride, ndr -. 

Lei parla di intellettuali “Arroccati nei propri privilegi e quasi sempre finanziati dal denaro pubblico”, che faticano a cogliere che il problema non è l’industria culturale ma la sua assenza: la responsabilità è loro?

 

Sono convinto che ci sia stato fin troppo assistenzialismo pubblico, quest’idea che la cultura sia un panda che vada protetto dallo Stato.

 

È un’idea perdente pensare che il mercato sia l’orrore.

 

Sogno un’Italia in cui la cultura è un’attività industriale capace di generare profitti, non ho paura di pronunciare questa parola, e anche posti di lavori, retribuzioni.

 

Siamo pieni di giovani che vorrebbero lavorare nella cultura ma guadagnano cifre infami, mentre quando io ho iniziato scrivendo per alcune riviste vivevo a Milano da solo e vivevo bene: oggi è impensabile. Però nessuno lo dice, c’è omertà perché non si deve parlare di denaro. È vergognoso. E non lo risolvi chiedendo sempre aiuto allo Stato, ma creando prodotti che funzionano, di cui la gente ha fame.

 

È così impensabile fare per il cinema o per il teatro quello che Chiara Ferragni ha fatto per la moda? Secondo me no. Di recente ho sentito un collega scagliarsi contro la letteratura da autogrill. Ma che male c’è se qualcuno si avvicina alla lettura così? Non abbiamo tutti iniziato leggendo Céline. 

 

Lei come ha iniziato?

Il primo libro di cui ho ricordi è L’étranger di Albert Camus, che mi fece leggere la mia professoressa di francese al liceo. No no, anche io cado in questo trucco di spostare in avanti la cosa: in realtà nasco come un lettore vorace di Tex Willer e di Salgari.

Parlava prima degli aiuti dello Stato al cinema: secondo lei come sta il cinema italiano oggi?
Nella maggior parte dei casi non c’è un’industria culturale all’altezza delle sfide di oggi e non c’è un humus culturale che la sostenga. Trovo molto interessante l’operazione che sta facendo Donato Carrisi, autore ma anche regista e produttore: ha capito dopo tante porte in faccia che il film tratto da La ragazza nella nebbia doveva produrselo da solo, e adesso con L’uomo del labirinto fa un’operazione transmediale perché fornisce la chiave per capire il finale di un suo libro precedente.

 

Ruolo importante lo svolge anche Sorrentino, da La grande bellezza a The Young Pope, anche se cito nomi che non sono amatissimi né dalla critica né dall’establishment: chi ha successo in Italia viene guardato con diffidenza.

 

Ma penso anche al fatto che siamo il paese europeo che negli ultimi dieci anni ha fatto meno film per bambini, che invece sono quelli che garantiscono i maggiori incassi. Perché non fare quelli e finanziarne altri, come succedeva negli anni ’60, quando si producevano Sordi, Totò e poi ci si poteva permettere Antonioni, Pasolini, Visconti? Oggi invece il fatto che Checco Zalone guadagni sessanta milioni viene visto come un orrore. 


Lei critica anche la pretesa di fare il “cinema del reale” però non rendendosi conto della finzione che si mette in scena
È un po’ la maledizione del realismo, non ho nulla in contrario ma oggi o fai film realisti oppure sei quasi marginalizzato. È un equivoco che nasce dagli anni pur nobili del neorealismo, quando gli intellettuali si autoesonerano dal fare film per il popolo perché stavano facendo film sul popolo – i disoccupati di Ladri di biciclette, i bambini di strada di Sciuscià, le mondine di Riso amaro –. E se il pubblico non li andava a vedere non importava. Allora poteva avere un senso perché si trattava di raccontare anche al mondo l’Italia che usciva dal dopoguerra.

 

Ora non dico che un film come Sacro GRA (di Gianfranco Rosi, Leone d’oro 2013, ndr) non sia un bel film, ma attenzione all’atteggiamento per cui l’artista è un po’ un entomologo che osserva e studia il popolo non ponendosi mai il problema di come dialogarci e intercettarne fantasie, desideri, bisogni.

 

I film italiani selezionati negli ultimi anni alla Mostra di Venezia sono tutte storie di degrado, marginalità: dal punto di vista politico il mio cuore batte da quella parte quindi solidarietà assoluta, ma siamo sicuri che sia il modo di contribuire alla causa di quegli ultimi sia fare questo tipo di film? Tanto che non hanno prodotto nessun tipo di cambiamento nell’immaginario collettivo.

 

E se noi non ci poniamo il problema di trattare alcuni temi come quello dei migranti, allora lasciamo che l’unica narrazione popolare a riguardo sia quella di Salvini. 

 

C’è stato Fuocoammare
Ma che è comunque un prodotto per intellettuali. Bene – sono quelli i contenuti – ma poniamoci il problema di fare un film che sia capace di essere pervasivo. Sennò se ce lo raccontiamo fra di noi, non serve a nulla.

 

Lei parla da spettatore ma anche da esperto di cinema: serve ancora la critica?

 

Io non mi definisco critico, che è colui che fornisce giudizi inappellabili: “è bello o è brutto”. Quello che mi sento di dire oggi è “mi piace o non mi piace”, non ho più la pretesa di attribuire un valore universale al mio personale giudizio. Racconto la mia esperienza da spettatore, quello che ha generato in me.

 

Se un film mi piace cerco di contagiare chi mi sta intorno, se non mi piace tendenzialmente non ne parlo, salvo che non inneschi idee e valori che non condivido. Come nel caso di Martin Eden (di Pietro Marcello, Coppa Volpi a Marinelli a Venezia 2019, ndr): capisco che a molti sia piaciuto, ma trovo però non condivisibile l’idea che l’industria culturale sia il male assoluto, che è la tesi di fondo del film: la creatività dello scrittore tarpata dagli editori cattivi e mercenari. Questa visione non mi piace e lo dico. 

Questa sua passione per il cinema com’è nata?
Difficile saperlo. Il ricordo più lontano che ho è di quando facevo le elementari: abitavamo ancora a Bergamo e vicino casa c’era un cinema, penso parrocchiale. C’era un manifesto in bianco e nero con due fari che fendevano la nebbia, non son più riuscito a ricostruire quale titolo fosse. Ero talmente affascinato da quella locandina che un pomeriggio d’inverno rubai i soldi dal portafoglio di mia madre e mi infilai al cinema. Chiamarono ovviamente i carabinieri e quando rientrai a casa mia mamma mi diede un ceffone: l’unica volta in cui mi abbia mai picchiato. È come un destino che mi ha segnato.

 

A volte la vita ci sceglie: il mio primo bacio fu al cinema.

 

All’università volevo laurearmi in cinema ma alla Statale non c’era un corso e quindi mi laureai con Vittorio Spinazzola, che prima scriveva di cinema. E quando gli chiedevo perché fosse passato ai libri mi rispose: “Te ne accorgerai da vecchio, i film dopo un po’ ti vengono a noia, i libri no”. Temo avesse ragione.

  

In effetti alla fine del libro c’è un siparietto fra un cinemaniaco, come spesso la definiscono, e un cinefobico: è arrivato a non poterne più del cinema?
Un po’ sì. A trent’anni mi piaceva tutto, come succedeva in amore.

 

Oggi su dieci film che vedo me ne piace mezzo, e questo diventa un po’ un problema. E poi entri in sala e dici: questo l’ho già visto.

 

Coi libri succede meno, sono in una fase della vita in cui, se di sera a casa mi capita di avere un’ora libera, prima mettevo un dvd ma ora apro un libro. Forse ho un po’ di saturazione, anche perché ancora adesso vedo tre o quattro film nuovi a settimana, più tutte le vecchie cose che rivedo per preparare le lezioni all’università.

E cosa pensa di chi dice che le serie tv siano il nuovo cinema?
La differenza sostanziale è che le serie non sono distribuite nella sala buia del cinema, per il resto per me sono film lunghi. Prima c’era l’appuntamento rituale di un episodio a settimana, oggi si fa il binge watching: in sostanza si insegue il sogno del film lungo, lunghissimo, che non finisca mai.

 

Io preferisco le cose che finiscono.

 

Per conto mio mi sono imposto di non vederle, perché se le vedessi so che mi appassionerebbero ma il tempo a disposizione è pochissimo. L’ultima che ho visto e mi è piaciuta tantissimo e infatti poi non ho più voluto vedere altro – perché questo è un altro meccanismo che scatta in me – è The Handmaid’s Tale. L’ho vista tutta, capolavoro assoluto, e ora ho preso il romanzo seguito, I testamenti di Margaret Atwood: lei ha una capacità di scrittura incredibile. 


Cosa legge poi in generale?

Sto tornando a essere un grande lettore. Oltre a Atwood ora sul comodino ho La settima funzione del linguaggio di Laurent Binet, come sempre ho l’ultimo numero di Tex, “La figlia di Satania” mitico numero 707, poi ho riletto Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino e infine l’ultimo di Murakami, L’assassinio del commendatore. Mi piace leggere non dall’inizio alla fine ma intervallando i vari titoli.

In chiusura di Ignorantocrazia cita Walter Benjamin che dice: “Il cinema con la dinamite dei decimi di secondo ha fatto saltare questo mondo simile a un carcere”. È ancora convinto di questa potenza?
La potenza del cinema agli inizi del Novecento è stata proprio questa. Se pensiamo all’esiguità del capitale visivo di cui disponevano i nostri nonni o bisnonni e di come il cinema invece ha aperto il “lucernario dell’infinito”, come l’ha definito il critico Noël Burch, è stato davvero la rivoluzione del Novecento.

 

Sono sempre più convinto che le rivoluzioni dell’umanità siano tecnologiche e non ideologiche o politiche, perché quelle sono prima o poi riassorbite o spostano il potere da una casta all’altra.

 

Sono convinto che gli uomini e le donne del Novecento abbiano vissuto una vita emotivamente più ricca proprio grazie al cinema. Dico infatti che i veri rivoluzionari del Novecento sono stati i fratelli Lumière.

da qui

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