domenica 6 settembre 2020

Dogtooth - Yorgos Lanthimos

dopo 11 anni arriva in sala Dogtoothla storia è quella di una famiglia che cresce i suoi figli nell'inganno, in una reclusione dorata, senza contatti con l'esterno, che non è altro che minaccia.

libertà e sicurezza sono i due incognite da risolvere, in quella famiglia si sceglie, senza mezze misure, l'assenza di libertà in cambio della totale sicurezza, che a pensarci bene sono le due istanze del discorso, anche, politico dei nostri tempi, libertà e sicurezza, grandezze inversamente proporzionali nei discorsi politici; maggiore sicurezza in cambio di minore libertà è la promessa/minaccia dei politici di tutto il mondo.

ottimi attori, per un film ormai di culto, attori che poi hanno girato pochissimi film.

è un film politico?, si chiede qualche spettatore. 

ognuno risponda come crede, dopo aver visto il film, è in sala, per poter vedere nel posto giusto un film che sarebbe un peccato perdersi.

buona (imperdibile) visione - Ismaele


ps: mi associo al rimprovero/ironia di Arturo Ripstein, autore de El castillo de la pureza, per  non essere mai stato citato da Lanthimos, fra le fonti d'ispirazione di Dogtooth


 

 

 

A più di dieci anni dalla presentazione a Cannes è difficile non vedere (per qualcuno rivedere) Dogtooth alla luce di ciò che ha rappresentato. All’epoca, dopo Kinetta dello stesso Lanthimos e prima di Attenberg di Athina Rachel Tsangari (qui produttrice), fu l’espressione più chiara - e poi copiata, celebrata, odiata, normalizzata - del nuovo cinema greco, del suo rigore estetico e del suo ancora più sbandierato cinismo disumanizzante. Dogtooth, storia di tre giovani adulti - un ragazzo e due ragazze - tenuti prigionieri dai genitori nella loro villa con piscina, ignari del mondo oltre il giardino e cresciuti a forza di bugie su ogni pericolo in agguato all’esterno, è già in qualche modo la summa di se stesso, l’esposizione compiaciuta di un’idea di cinema e di realtà. Lanthimos dimostrava di sentirsi un Haneke più giocherellone, ostentava le geometricità delle inquadrature (fisse, immobili, calibrate) e l’uniformità delle luci monocrome solo per sabotarne la precisione (corpi tagliati, riprese notturne sgranate, scoppi improvvisi di violenza); vedeva nella famiglia repressiva lo spazio ideale per mettere in scena la crisi greca, salvo ricondurre al singolo soggetto e al suo corpo desensibilizzato l’origine di un vuoto prima di tutto di immagini e d’immaginario (Lo squalo o Flashdance come unici modelli per comprendere l’alterità, la figura letteraria dello straniero redentore e devastatore…). Più che un cult, Dogtooth è un classico contemporaneo: un film fondamentale, con cui da tempo è impossibile non fare i conti, che conteneva gli elementi del fallimento, dell’autoparodia. Soffocante, certo, e prima ancora soffocato da se stesso.

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Gabriel Lima, padre austero e bipolare, è determinato a salvare la propria famiglia dai mali del mondo nell’unico modo che gli sembra plausibile: rinchiudendoli fra le quattro mura della magione di sua proprietà. Lui è l’unico a poter uscire, mentre i tre figli e la moglie possono muoversi solo da una stanza all’altra del “castello”, all’occorrenza puniti per un tempo deciso dal loro dio/aguzzino.

Se vi sembra di aver già sentito questa trama… bé, è così: El castillo de la pureza ha ispirato i titoli più rappresentativi della New Weird Wave greca, Dogtooth di Yorgos Lanthimos e Miss Violence di Alexandros Avranas. Un’informazione che ha iniziato a diffondersi sotterranea dal 2011, anno della candidatura all’Oscar come Miglior Film Straniero di Dogtooth,  nel momento in cui il cineasta Arturo Ripstein ha fatto pervenire a Lanthimos il polemico messaggio “I hope we’ll win” (“Spero che vinceremo”). Questo perché la Grecia non ha mai ammesso di essersi ispirata al film di Ripstein, negando persino ogni possibile influenza. Eppure El castillo de la pureza ha fatto la storia recente del cinema messicano, scuotendo all’epoca l’opinione pubblica in virtù della sua aderenza a fatti realmente accaduti. Nonostante ciò – e nonostante il regista sia stato uno dei più brillanti collaboratori di Buñuel – di questo classico del New Mexican Cinema si sono poi curiosamente perse le tracce…

"Dogtooth" è una pellicola perversa: sedendo sulla cattedra hanekiana, con diversi passaggi grotteschi e surreali, il regista greco ci presenta la vita di questo gruppo familiare in un interno come un dato di fatto, senza possibile dialettica con una realtà alternativa. La luce di Bakatatakis illumina e acceca, mentre l'occhio geometrico di Lanthimos incombe entomologico tanto sui figli quanto sui genitori, vittime del loro stesso gioco. Gioco che si perpetua fra loro e usato come sfida tra i fratelli: metafora nella metafora è l'immagine dei ragazzi bendati che cercano a tentoni di raggiungere la madre, al centro del giardino. Togliersi la benda dagli occhi è più difficile di quanto si possa pensare e, alla fine, il film va a porre degli interrogativi che percorrono da più di duemila anni la cultura occidentale. Come nel mito platonico della caverna, Lanthimos illustra il buio dell'ignoranza in una società coercitiva e autoritaria e l'orrore di scoprire una verità che rimette in discussione un intero sistema di valori e la percezione del proprio sé in relazione al mondo.

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Dogtooth è una pellicola dal sapore buñueliano, surreale nel senso più inquietante del termine: il suo satirico affondo alle mutazioni genetiche di una società che vorrebbe ritrovare le origini cancellando ogni traccia di progresso (anche linguistico) colpisce nel segno, terrorizzando con la sua violenza sorda e improvvisa, fatta di schizzi di sangue e budella esposte nella cornice rasserenante di un giardino perennemente baciato dal sole (e che la limpida fotografia di Thimios Bakatakis rende spaventosamente irreale).

In linea con l’immobilità delle esistenze che racconta, Lanthimos parla una lingua cinematografica essenziale, depurata e ridotta ai suoi elementi essenziali: macchina da presa fissa, inquadrature tagliate, personaggi collocati in fuori campo come minacciose presenze di un mondo altro, l’obiettivo puntato sui corpi dei tre giovani protagonisti, dove si concretizzano i tormenti di un’adolescenza anormale, congelata in un infantilismo perenne.Caldamente sconsigliato a soggetti impressionabili e amanti degli animali

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Yorgos Lanthimos non ha mai ammesso di aver preso più di uno spunto da questa pellicola per realizzare il suo incredibile “Dogtooth” (2009), una bugia andata di traverso proprio ad Arturo Ripstein, il quale non si è risparmiato qualche frecciatina sarcastica nei confronti del regista greco (“I hope we’ll win” fu la dichiarazione polemica del messicano quando “Dogtooth” ricevette la candidatura agli Oscar come miglior film straniero). Logico che Lanthimos abbia stravolto molte cose rispetto all’opera originaria, ma è lampante il legame concettuale tra il suo lavoro e questo “El Castillo De La Pureza”, film ispirato per giunta a una storia vera.

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…C’è uno slittamento di senso che sta al cuore di Dogtooth e dona al film profondità e grazia. Un invidiabile gioco d’equilibrismo tra i generi (formazione, black comedy, horror) e i toni (allucinato, umoristico), cinema d’atmosfera dall’immagine ricercata e l’angolazione alienante. Per proteggersi da un mondo che si fatica a capire, un uomo e una donna tagliano i ponti con la realtà e la sostituiscono con una gigantesca nevrosi. Nutrono i figli di equivoci e ogni azione che ne risulterà è una conseguenza diretta del fraintendimento iniziale. Yorgos Lanthimos estremizza con intento palesemente provocatorio e un gran gusto per il paradosso un discorso che, volente o nolente, fa parte del bagaglio di vita di ciascuno di noi. Il suo bisturi è glaciale, implacabile e perversamente divertito, e con sottigliezza riesce a produrre lo scivolamento di senso di cui sopra.

Perché se, con un po’ d’immaginazione, si sostituisce alla Famiglia (non sottovalutate la maiuscola) una qualsiasi altra delle sante istituzioni che regolano la nostra vita, lo Stato, la Religione o quello che vi pare, oltre il gruppo di famiglia in un interno ci accorgiamo che sì, Dogtooth accenna anche a qualcos’altro. Satira sferzante sulla vita di società, amara e impietosa perché smaschera le manipolazioni e le dannate idiozie che condizionano la vita dell’uomo e regolano il suo rapporto con il mondo. Se e come sarà possibile liberarsi da queste prigioni, dipenderà in parte da ciò che siamo, in parte da ciò che crediamo di essere perché così ci è stato insegnato. Il risultato finale è volutamente ambiguo. Francamente, sembra suggerire Yorgos Lanthimos, è un po’ tutto un incubo. Ma ridiamoci sopra comunque.

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È curioso notare come l’evento chiave, la svolta eversiva di una delle figlie, passi attraverso la visione di due videocassette dei film Rocky e Lo squalo che portano prepotentemente la realtà esterna, chissà quante volte immaginata, all’interno della casa. È bello pensare che proprio il Cinema permetta alla ragazza di scoprire che esiste un mondo diverso da quello che conosce, sicuramente più pericoloso ma infinitamente più interessante. Ed è forse la stessa sensazione che provarono gli ingenui spettatori dei primi spettacoli offerti dal mirabolante Cinematografo. Di fatto da qui in poi cambia tutto, da quella visione è impossibile tornare indietro, fino ad adottare il nome dello Squalo, Bruce, a differenza degli altri due figli che restano senza un nome proprio, ignorandone la funzione, poiché il grado di parentela rispetto agli altri è l’unica cosa che abbia senso conoscere per riconoscersi; per loro oltre la famiglia non esiste altro.

Visivamente Kynodontas è l’esatto contrario del clima cupo e opprimente che si respira idealmente nella casa/famiglia; per sua stessa ammissione, Lanthimos ha voluto in tal modo creare un contrasto tra i due piani e così ci troviamo di fronte a protagonisti belli esteticamente, ad una bella casa con un giardino curato, verde e rigoglioso e a giornate di sole da passare nella tonificante piscina.

Lanthimos, a dispetto del tempo e di spettatori ormai smaliziati, riesce ancora a produrre un Cinema puro, che sorprende, che crea un mondo e lo espone al pubblico, che non può far a meno di guardarlo con curiosità e sorpresa.
Ormai è chiaro, esauriti i posti esotici da esplorare, filmare e mostrare, fino a quando non saremo in grado di portare una troupe cinematografica su Marte, occorre che chi fa Cinema s’impegni a creare mondi e realtà in grado di sorprendere e affascinare il pubblico. Il Cinema muore quando non riesce ad aprire una finestra su un altro mondo.

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No podemos hablar de intriga, ni de exotismo. Canino no juega ninguna de esas bazas. Hablemos mejor de extrañeza, de personalidad. En algún chalet de un suburbio griego vive una familia. Nunca aprendemos sus nombres: Padre, Madre, Hermana Mayor, Hijo y Hermana Menor. Mientras Padre tiene un trabajo fuera de casa, el resto no puede abandonar el domicilio. Nunca. Los niños han vivido confinados durante toda su existencia, por eso siguen siendo niños aunque tengan más de veinte años. Les han enseñado a temer el mundo exterior. Amaestrados como perros por un padre sociópata, han desarrollado sus propios patrones emocionales, su propio lenguaje.

La poética del absurdo sistematiza la cotidianidad, un sutil humor negro empapa el desconcierto, algunos estallidos de seca violencia nos previenen de sentirnos cómodos. La lectura más sólida de esta fábula cruel nos lleva a al film-tesis en torno a los totalitarismos y sus herramientas de control social. Todo está expuesto con meridiana claridad en el film de Yorgos Lanthimos (censura y distorsión del lenguaje, secuestro de la libertad individual, invención del enemigo, aniquilación del intruso, etc.), quien también se preocupa por mostrar sin timidez los efectos del sistema –alienación y animalización, depravación moral...– en el extravagante comportamiento de sus personajes…

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