giovedì 3 settembre 2020

Juventude em marcha – Pedro Costa

nella Lisbona dove i turisti non arrivano, in un quartiere di immigrati di nome Fontainhas, viveva e vive Ventura.

ormai non lavora più e si aggira fra le vecchie catapecchie, con gli ultimi sopravvissuti e i fantasmi, spesso giovani, loro sarà il futuro.

Ventura ha ottenuto una casa popolare, ma adesso è solo e non sa cosa farsene, gira di casa in casa, cercando compagnia.

è un film dove non succede niente di epico, solo piccoli ritagli di vita strappati all'oblio.

buona visione - Ismaele



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Ventura abitava a Fontainhas, la baraccopoli di immigrati a nord-ovest di Lisbona dove Costa aveva già ambientato Ossos (1997), storia di un figlio conteso e di volti segnati dalla maledizione della droga. Poi venne No quarto da Vanda (Nella stanza di Vanda), un film in una stanza, documento della difficile disintossicazione di Vanda Duarte. Con Juventude em Marcha, Costa sembra recuperare i fili di entrambi i film e cucirli su una nuova tela. Il capo del filo, la cruna dell'ago, è la figura di Ventura, che il regista segue attraverso un pedinamento zavattiniano, facendo di lui, uomo solo e abbandonato, il pungolo e il punto di raccolta dei racconti di vita di quella gioventù che incontra nella sua marcia e che diventa la sua famiglia. Nella stanza di Vanda o nel tugurio di un'altra "figlia", pronto sulla porta quando un terzo smonta il turno, presente al momento di addormentarsi per terra, accanto ad un giovane povero, anche se la casa Ventura ora ce l'ha, ma è troppo grande per lui solo.
In armonia con l'oscurità delle baracche senza energia elettrica di Fontainhas, la sagoma nera del protagonista si staglia invece come un'ombra viva nel bianco abbacinante delle nuove costruzioni a basso costo di Casal Boba. Costa disegna con la luce, per contrasto, accecandoci in una sequenza per insegnarci a scrutare nel buio nella successiva. Ci parla, col cinema, di ciò che dentro e fuori dagli schermi solitamente non vediamo e non chiediamo di vedere. I suoi personaggi, privi di tutto, possiedono però il dono umanissimo della parola: non sapranno farne un'arte ma uno strumento di vita sì, riempiendo col racconto e con il sogno un tempo in cui nulla succede e nulla cambia.
Il vecchio si trascina nella sua missione silenziosa di tenere unita la comunità, di creare dei legami anche dove non esistono, di far rinascere un quartiere dalle sue macerie, di rimettere in marcia la gioventù che si è persa. Si affaccia, nella tragedia dell'immobilità, una spinta di speranza.

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Vecchio e nuovo, maestro e infante, nella stessa inquadratura, nello stesso spazio, quello della gioventu' in marcia, del brusio della gioventu' come rumore di fondo perenne, come un rumore bianco di creature e non creatori. Costa e' alieno, lontano dalla realta', imitatore dell'esistenza idea peregrina del muto o terra e polvere che torneremo ad essere. Questo e' cinema in cui sembra manchi il prima e il dopo, c'e' solo un lungo e attesissimo attimo. Attimo senza tregua che scoraggia l'abbozzare previsioni: tutto insieme, il cinema chiede di essere considerato un unico atto, un miracolo mai esaurito in una fiammata. Costa ci illude, perche' ci fa vedere sempre e ancora: la sua e' una puntigliosa messa in scena, un'ossessiva ricerca del punto dove piantare la macchina, del punto dove e' impossibile ricordare e della  forza misteriosa delle cose che vorrebbero farsi ricordare come di quelle che si vogliono far desiderare e amare. Crediamo di scoprire fantasmi e ricordi mentre anche le immagini ci sfuggono: tutto cio' che e' gioco e che e' in gioco, svanisce. Come nel luogo (politico) della coscienza, niente di quello che si mostra e' inventato: ogni cosa e' realmente accaduta e accade senza apparenza. Qualcosa di piu' di un ritratto, di un quadro e la sua cornice: quando Costa blocca il suo sguardo per minuti, il set si espande, squarcia le memorie, lascia aperta sempre una porta da cui uscire o entrare, lascia che l'immagine prenda (il) corpo, come quando uno scultore s'impossessa della pietra e del marmo. Due ore e trentacinque minuti reiterati, fuori e dentro, bianchi e neri, stretti dallo spazio e dilatati nel tempo: come la marcia dell'immigrazione del passato colonialista portoghese, come la marcia dei figli senza padri o dei padri ''deportati''. Il cinema dei perdenti, degli indigeni di altrove, deflagrati dal nulla che va riempito dai sogni e poi coperto dalla terra. Anche il segno cinematografico si ripete ormai, da alcuni film (vedi Ossos e soprattutto No quarto da Vanda), ma e' una ripetizione come un fuoricampo, come la piu' caparbia e sensibile attenzione alle sfumature, ai dettagli infinitesimali di luce, suoni, movimenti del tempo, modulatori delle immagini. Amato da Straub e Huillet, Costa sembra fare cinema per dimostrare con non viviamo nel migliore dei mondi e del cinema possibili, che restano sempre fuori, dalla finestra o dalla sala: il fuori di Costa non e' mai del tutto escluso, esiste e si annuncia, arricchisce e smargina il dentro. E' obliquo ed elegge o rifiuta il nostro sguardo messo a dura prova se rifiuta di coniugare il valore e la densita' del testo con la misura necessaria dell'adattamento visivo.

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… Sembra quasi che il regista pedini il protagonista, mostrando la sua nuova condizione, caratterizzata da un gran senso di solitudine e abbandono, che vengono camuffati soltanto quando, durante la sua “marcia”, lui si trova nella baracca di Vanda e la sua piccola, o in quella di un altro “figlio ideale”, scampato a un suicidio, adesso invalido. Eppure Ventura ha una casa, una bella casa, luminosa e grande, ma forse troppo grande per lui.

Costa si trasforma in pittore, un pittore leonardesco, amante del chiaroscuro: oscurità degli ambienti di Fonthainas, delle persone che lo abitano, dei quali si può scorgere appena il tratto del volto, il bianco dei loro occhi, lontano da quello delle pareti della nuova e luminosissima casa di Ventura. Un doloroso contrasto, oltretutto marcato dalla forte lentezza del ritmo del film. Il regista portoghese rimane fermo con la sua macchina da presa, realizzando numerosissimi piani sequenza, poche panoramiche e dialoghi, molto spesso, senza controcampo. Ma forse il controcampo mostrerebbe noi spettatori appoggiati, magari, alla spalla del regista che, portando l’indice alla bocca, dà uno scorcio di vita vera. Sì, perché l’aria che respirano gli attori nei film di Costa, è la stessa che respirano quotidianamente: nessuno è un attore professionista, non c’è plasticismo, né immedesimazione nei volti di quei personaggi, qui, come in tutti i film del regista portoghese…

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Per raccontare la deriva, Costa compie un pregevole lavoro di regia e sulla fotografia del film, costruendo inquadrature ieratiche e complesse, dove la figura umana è allo stesso tempo cardine e parte integrante dello spazio; uno spazio fatto di muri sgretolati, corrosi dall’umidità, e altre mura scarne e geometriche, perimetri metafisici. Un affascinante lavoro sulla luce, poi, fa sì che le ombre invadano l’inquadratura, cosicché i corpi si intreccino ulteriormente con l’ambiente circostante; queste ombre conferiscono ai volti una drammatica espressività, carica dell’inappellabile miseria che riempie e svuota i personaggi.
Attraverso inquadrature così costruite, lo sguardo resta imbrigliato in un’ipnotica marcia inevitabile. Il film tende a una staticità rarefatta. Con questo linguaggio Juventude em marcha concretizza un discorso difficile, duro e senza alcuna concessione, che affronta nel suo rigore non solo la sofferenza umana, tentando soprattutto di afferrare il malessere ignoto che contagia le esistenze. Concreto e invisibile, allo stesso tempo, materia e atmosfera.

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L’immobilità della macchina da presa (con l’eccezione di un paio di scene, per tutta la durata del film si hanno soltanto inquadrature fisse, senza controcampi) rispecchia l’immobilismo delle situazioni in cui i personaggi vivono. E la costante penombra che, in in pochissime occasioni, contrasta con la luce abbacinante della nuova casa popolare di Ventura (assegnatagli dal Comune) vuole metaforicamente richiamare la disuguaglianza sociale, la povertà e l’indigenza dell’ambiente in cui i personaggi fluttuano pesantemente: Nhurro, Bete, Xana, Paulo e tutti gli altri tirano a campare nella tristezza e nella solitudine.

Se nelle intenzioni il lungometraggio di Pedro Costa voleva generare un effetto di straniamento, il risultato è invece quello di produrre noia e stanchezza. Ciò che emerge non è l’impatto di un messaggio politico o sociale, quale che sia, ma la fiacchezza causata dalla lentezza esasperante dell’azione – o meglio, della non-azione – e dalla ciclicità ossessiva delle situazioni.

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The stories told are interesting, and the film seems to me about preserving culture and community through an oral history.  Ventura’s friend Lento asks him to compose a love letter.  Instead of writing it, however, Ventura repeats it to Lento every time he sees him, expanding on it a little more each time.  It becomes a mantra throughout the film.  Other forms of oral history range from the mundane (recounting past jobs) to the personal (the delivery of a child) to hardship (a man who set his apartment on fire and made his family jump out the window).  Ventura is trying to keep both Fontainhas and Cape Verde alive.  The walls of the Fontainhas shacks may be grubby, but they tell stories which are lacking in the clean white walls of the government housing.

Vanda is back, off of drugs and raising her little girl (a man is occasionally there, who may or may not be her husband).  It’s wonderful to see her again, looking healthier with some meat on her bones and taking care of that awful cough with an inhaler.  Her sister, Zita, unfortunately, did not make it.

The compositions are beautiful and striking, with natural lighting and sublime study of how people occupy space.  While the narrative content is often too sparse to hold on to, you can get lost in the meditative imagery and textures.

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