mercoledì 9 settembre 2020

Realitè – Quentin Dupieux

un film nel film nel film, come un nastro di Moebius, che s'incrocia, ma in un modo che non t'immagini.

Realitè è una bambina oggetto del film, poi diventa protagonista, in un salto mortale della narrazione.

e il regista, uno o due?

impossibile raccontare la storia, ognuno se la veda e resti stupito del gioco di prestigio.

buona visione - Ismaele


 

 

 

Il risultato è un'opera che cattura perché folle, che si conficca come una scheggia impazzita nella mente dello spettatore donandogli scene che ondeggiano tra il pulp più spicciolo al grottesco più esilarante. Il pubblico ne esce confuso, perché colmo di dubbi riguardo ciò a cui ha appena assistito, ma anche divertito, perché la stranezza appena vista tocca le corde più umoristiche e ironiche dentro ognuno di noi. E le fa vibrare con brio e puro godimento.

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Quello di Dupieux è un esperimento in cui tutti gli aspetti già di per sé assurdi vengono deformati ed esagerati fino a comporre una pellicola che è tanto una riflessione sul rapporto tra realtà e finzione quanto una dichiarazione d’amore e un omaggio al cinema stesso. Quest’amore per il cinema poi traspare soprattutto dal modo del tutto personale in cui il regista si riferisce all’industria cinematografica: quello che il protagonista Jason vuole girare non è un colossal hollywoodiano, ma piuttosto un b-movie degli anni settanta, l’ultimo splatter di chi sa quale regista indipendente, e come anche lo stesso Dupieux ha rivelato in diverse interviste è il cinema che lui stesso ha sempre guardato e seguito non tanto come regista ma come semplice spettatore.

Certo, Reality non sarà definibile come “capolavoro”, anzi invita quasi a non essere preso sul serio, elaborando in modo tanto leggero quanto brillante il tema del rapporto tra spettatore e finzione. In conclusione, Reality è un prodotto piacevole e scorrevole sotto tutti i punti di vista, sia che si voglia seguire l’intricato intrecciarsi dei livelli narrativi, sia che ci si voglia semplicemente godere l’umorismo e l’estetica bizzarra di un autore che, piaccia o meno, è riuscito a far affermare il proprio nome nel mondo del cinema indipendente.

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Siamo in California, patria della “fabbrica dei sogni” di Hollywood, luogo che vive di non realtà come il cinema di Dupieux. Un cameraman sogna di fare un film horror in cui le televisioni emanano delle onde talmente potenti che fanno sanguinare le persone, le quali, una volta assimilate le onde, le trasmettono a loro volta e ne muoiono, fino alla scomparsa della specie umana e una fine “senza speranza”. Questo contatto pericoloso tra uomo e artificio, tra realtà e finzione (e immaginazione), è il nodo filmico di Réalité, che soffoca lo spettatore in un inconscio che si fa racconto, fabula corale…

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…Caleidoscopio di personaggi bizzarri in situazioni ancor più surreali, Reality, vede tra i suoi protagonisti principali un aspirante regista (Alain Chabat) alle prese con una missione difficile: deve trovare il gemito di dolore perfetto se vuole che un arrogante e nevrotico produttore finanzi il suo primo lungometraggio. La trama del suo progetto suona assai allettante: in un futuro distopico le persone muoiono per via delle onde radio emesse dai televisori, che provocano l’esplosione delle loro teste. Già ma quale tipo di gemito emetteranno tali persone prima di passare a miglior vita?
Reality mira a rispondere a questo e ad altri interrogativi oziosi, ammantandoli della nobiltà che si attribuisce di solito alle riflessioni filosofiche. Ecco allora che cose “impossibili” sono però “visibili”, un presentatore televisivo vestito da pupazzo di peluche si gratta continuamente perché affetto da un eczema immaginario, il preside di una scuola che ama indossare il tailleur, almeno nei suoi sogni, una bambina di nome Reality recita in un brutto thriller d’autore e nella “realtà” ha visto fuoriuscire dal ventre di un cinghiale una VHS blu e ora è pronta a tutto pur di visionarla. E’ tutto molto divertente ma anche autocompiaciuto e stancamente reiterato in Reality, dai personaggi, curiosi, sopra le righe, che tornano più volte e intrecciano le loro mini-storie, alle situazioni, altrettanto bizzarre, la cui struttura paratattica non mira a condurre da nessuna parte, ma solo a produrre qualche crassa risata.
C’è quasi un accordo misterioso e non scritto tra l’autore e quello che lui identifica come il suo spettatore, uno spettatore “iniziato” e dunque pronto a sganasciarsi di fronte a ogni sua nuova, grottesca invenzione e al suo eterno ritorno in altra forma. Ma Reality non funziona con tutti ed è facile che a lungo andare la noia avvolga chi guarda, che magari di questo suo sentirsi escluso può andare fieramente a testa alta…

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Quentin Dupieux ci ha ormai abituati ad attenderci dai suoi film ogni volta un campionario di stranezze. Che si tratti dello pneumatico attore protagonista di Rubber o dei politically really uncorrected di Wrong Cops il bisogno di stupire lo pervade fino nel midollo del suo fare cinema. In questa occasione, optando esplicitamente per la piattezza visiva più accentuata, punta le sue fiches a livello di sceneggiatura avviando un gioco di scatole cinesi di cui pare non avere il totale controllo logico. La cosa non sembra però preoccuparlo minimamente perché ciò che più lo interessa è il gioco dei rimandi interni che contribuiscono a fare dello script una sorta di manifesto escheriano in tono minore. Una vicenda si inserisce nell'altra per ritrovarsi a sua volta riproiettata all'interno di una dimensione imprevista così come accade nei più volte citati sogni o incubi. Che la bambina sia in realtà non tanto colei che guarda ma oggetto di visione (è lei che si chiama Reality) e che a sua volta sia spettatrice di situazioni che consideravamo del tutto aliene dalla sua vicenda poco importa.
Alla fine della visione ci si accorge di essere stati a nostra volta spettatori di un piccolo pamphlet sul mondo dei media che ci ha guidati per mano per strade obbligate impedendoci qualsiasi intervento di carattere individuale. Un gioco piacevole ma anche un po' sterile.

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…Le scénario est hypnotisant. Dupieux nous embarque aux confins de l’onirisme au-delà de toute logique temporelle. Les personnages se croisent comme les réalités. Ils se rencontrent aussi. Tout est logique sans le paraître, ou inversement. Peu importe. Le voyage est entier. Mais la magie du film est d’être empli de sarcasme. Trouvant dans le personnage de Jason Tantra un double de lui-même, le réalisateur propose une caricature jouissive de plusieurs pans du cinéma : la production d’une part avec le fantasque Bob Marshall (interprété avec brio par Jonathan Lambert), la création de l’autre en proposant un grand écart entre le cinéma de série B (voire Z) et un film d’auteur qui tient de l’expérimentation. Ce dernier est aussi l’occasion de faire la satire de l’exploitation médiatique des enfants et de la manipulation du réel livré comme tel à ceux prêts à le gober.

Le réalisateur virevolte entre les genres, toujours avec humour. Il offre à REALITY un climat singulier en en soignant la photographie tout en travaillant le son qui électrise nos sens. Plus encore il lui confère une réelle coloration – musicale et visuelle – qui se retrouve d’ailleurs proprement à l’écran, les décors et les costumes se fondant en un superbe camaïeux camel ou se dissipent quelques touches gris perle ou bleues. Ce soin du détail se retrouve en chaque élément (du nom des personnages au moindre accessoire) et participe à la dé-temporalisation de l’ensemble. Les époques se mélangent asseyant peu à peu une seule réalité, celle qui veut qu’aucune n’a effectivement sens.

Si Alain Chabat excelle dans son interprétation de Jason Tantra – Dupieux n’hésitant pas à exploiter les gimmicks du comédien –, Elodie Bouchez dans le rôle de son épouse est éblouissante. Notons encore que le film se redécouvre – et se savoure – de vision en vision, les détails se révélant alors peu à peu

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