il film segue Stefano, per paura o per orgoglio non dice quello che è successo.
in una settimana lo lasciano morire, sembra che nessuno capisca quello che sta succedendo.
come alla scuola Diaz e a Bolzaneto, ma non solo, fra i tutori dell'ordine, fra chi deve proteggere tutti, ci sono assassini, sadici, e delinquenti violenti oltre ogni dire.
Alessandro Borghi si spegne come una candela, nell'indifferenza di tutti, non è un film urlato, anzi, spesso è solo sussurrato, le immagini parlano da sole.
il film non è perfetto, ma è necessario.
nonostante Netflix, buona visione al cinema - Ismaele
ps:
nel 2015 Costanza Quatriglio gira un film (che si può vedere QUI) sull'omicidio di Francesco Mastrogiovanni (qui e qui, per chi non si ricorda), che viene lasciato morire, come Stefano Cucchi.
…E tra i molti carnefici di questa orribile storia
italiana uno è sicuro oltre ogni ragionevole dubbio: la burocrazia. Ottusa,
feroce, letteralistica, disumana. Burocrazia che impedisce ai familiari di
vedere Stefano già quasi agonizzante: i genitori apprenderanno della sua morte
solo quando si sentiranno chiedere da un carabiniere l’autorizzazione per
l’autopsia. In questo dramma della disumanità, ma più ancora dell’indifferenza
e del cinismo, sono stati molti i responsabili, non solo i picchiatori. Il film
non è così piattamente veterotelevisivo come qualcuno tra i corridoi e le scale
dl festival di Venezia, dov’è stato presentato a Orizzonti, l’ha subito
bollato. Alessio Cremonini getta sulla tristissima storia uno sguardo che prima
che denunciante è di partecipazione e dolore, e privo di ogni voyeurismo e
sospetto di sensazionalismo. Imprimendo al racconto un andamento meditativo,
perfino solenne, che fa tornare alla mente il Pasolini di Accattone e ancora di più di Mamma Roma (soprattutto il finale). Ed è il
secondo film romano che nel giro di pochi mesi mi fa ricordare quel Pasolini,
l’altro era La terra dell’abbastanza dei
gemelli D’Innocenzo. Come in La terra dell’abbastanza anche
qui c’è come padre disorientato e travolto dagli eventi un misurato e dolente
Max Tortora. Jasmine Trinca è la sorella, colei che dopo la morte di Stefano
solleverà il caso e lo imporrà all’attenzione dei media. E c’è Alessandro
Borghi, impressionante per mimetismo, non tanto e non solo per l’aderenza
fisica, ma per come replica il malessere del suo personaggio di tagliato fuori,
e ormai morto tra i vivi, con la voce, la postura, il linguaggio del corpo. Un
corpo da martire da pittura seicentesca.
…Impossibilitato a incontrare i suoi genitori o anche
solo a parlare con l’avvocato, Stefano d’altronde trova conforto solo in brevi
dialoghi con altri detenuti, comunicando magari anche da una cella all’altra.
Ed è a loro che confessa la verità sul pestaggio, è solo con loro che trova un
terreno di condivisione e di empatia. E ciò connota ulteriormente Sulla mia pelle come un film umanista, molto
riuscito quando si concentra proprio sul dolore di Cucchi, un po’ meno in
alcune sequenze in cui mostra i genitori e la sorella, dove la regia appare un
po’ troppo scolastica. Ben più espressive sono invece quelle inquadrature che
mostrano Cucchi a letto, come dei quadri di morte e disperazione che possono
lontanamente ricordare una rappresentazione cristologica tra Pasolini e il
Mantegna. E Alessandro Borghi nel ruolo del protagonista si dona totalmente…
…Un
film del genere, oggi, non sarebbe stato possibile senza che ci fosse stata
prima la cruda e furiosa violenza mostrata in Diaz di
Daniele Vicari, come forse sarebbe stato più difficile avere casi come quello
di Stefano Cucchi se non ci fossero stati prima i massacri della scuola Diaz e
di Bolzaneto, e l’impunità che ne è seguita. Dove la legge e la giustizia non
sembrano riuscire a dare una risposta, il cinema ha ancora il coraggio e il
dovere di intervenire, per mostrare ciò che vorrebbe essere tenuto nascosto. Se
quello di Vicari era quasi un horror, quello di Cremonini è un dramma oscuro e
silenzioso, senza grandi pianti o urla, che si consuma in disparte.
Anzi,
se c’è una parola d’ordine in Sulla mia pelle, questa è
“disinteresse”. Il disinteresse di praticamente tutti i personaggi che Stefano
Cucchi incontra nella sua Passione e che sembrano ignorare i segni sul suo
volto, o almeno non concepire chi possa averglieli fatti. Dal carabiniere che
lo vede tumefatto, capisce, ma preferire stare zitto, ai poliziotti della
Penitenziaria, interessati solo a che non passi per colpa loro. Dai medici, che
preferiscono lasciar perdere invece di capire la situazione, al giudice, che lo
condanna senza nemmeno guardarlo in faccia. Dall’avvocato d’ufficio, che gli
sta faccia a faccia senza nemmeno accorgersi degli ematomi, fino al carabiniere
che ne notifica la morte alla madre e subito dopo le chiede la firma sui
documenti dell’autopsia. Tutti mossi da un unico pensiero: non è un mio
problema. Un mondo completamente disumanizzato, stretto nella morsa di una
malsana burocrazia – la stessa che impedisce ai genitori di Stefano di andarlo
a trovare in carcere – in cui un ingranaggio si è stortato, e una persona a
caso ci è rimasta schiacciata dentro.
…Cremonini
non fa di Stefano un santo, tantomeno un martire ma, con lucidità e senso della
misura, percorre le tappe del suo tormento che, giorno dopo giorno, lacera la
pelle di un corpo già fragile e provato. Non vi è, né vi può essere, alcuna lettura
“cristologica” in questa tribolazione (alla domanda “Sei credente?”, Stefano
risponde con un amaro “So’ sperante”) andata ben oltre il “semplice” fatto di
cronaca (anche se, disgraziatamente, non l’unico) per diventare lo scellerato
esempio di quelle spaventose crepe che si aprono su un apparato di giustizia
che dovrebbe garantire, ad ogni soggetto che le si affida, la tutela scevra dal
pregiudizio ma anche quella pietas, non nel senso religioso del
termine, intesa come espressione etica dei doveri che gli uomini hanno verso
gli uomini.
Se,
a causa della condotta di alcuni, si commette l’errore di generalizzare
colpevolizzando un’intera categoria è altrettanto dannoso non accorgersi del
modo in cui certi individui disonorano la divisa che indossano commettendo
azioni che, in rapporto ad essa, hanno lo sfrontato ardire di legittimare. Per
questo Sulla mia pelle non giudica, né condanna ma racconta,
alla luce plumbea dello svolgimento dei fatti, il decesso in carcere numero 148
dell’anno 2009, una cifra impressionante (che solo due mesi dopo salirà a 176)
tanto quanto il “trattamento” al quale Cucchi è stato sottoposto.
Un
film duro ma necessario in cui la disperazione è un grido sordo, senza catarsi,
né poesia. E le parole non bastano o, forse, non ci sono perché, come scriveva
Seneca, “il grande dolore è muto”.
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