venerdì 28 settembre 2018

BlacKkKlansman - Spike Lee

nel film non si fa fatica a vedere quanto sono deficienti quelli del KKK, forse questo è uno dei motivi per cui si nascondono.
Spike Lee racconta quanto sono razzisti i razzisti del suo paese,
un esempio per tutti gli altri.
protagonisti bravissimi, Adam Driver e John David Washington (figlio di Denzel), e bravi anche quelli del KKK, fanno i deficienti benissimo, e parlano come Trump (o Trump parla come loro?).
e come non ricordare il vecchio Harry Belafonte (che racconta una storia terribile e vera)?
gli anni '70 alla fine diventano questi anni, e non c'è niente da ridere.
non è il miglior film di Spike Lee, ma solo perché i migliori sono davvero grandissimi e inarrivabili.
e quindi buona visione, non vi deluderà - Ismaele 




i discorsi e la retorica dei confratelli dell’Organizzazione, come la definiscono dall’interno, sono spaventosamente attuali, si parla di restituire all’America la sua grandezza, e si declama spesso il celebre slogan “America first”.
In un qualsiasi altro contesto le candide dichiarazioni del Gran Maestro del Ku Klux Klan farebbero inorridire, ma se all’altro capo della cornetta c’è un poliziotto nero che si finge un bianco razzista, allora la risata scappa incontrollabile e l’abilità della regia sta proprio nel calibrare attentamente le tempistiche, dando allo spettatore un momento per ridere e uno per riflettere, per provare il suo stesso turbamento, la sua stessa rabbia, il suo stesso dolore.
Alla fine, l’amarezza, lo sconcerto prevalgono e rimangono, perché non c’è più niente da ridere, il male non viene sconfitto, il razzismo non è debellato e la sua minaccia incombe ancora sulla società odierna, in America come in qualunque altro posto del mondo.


Essendo un ottimo prodotto cinematografico, BlacKkKlansman può offrirsi anche solo come grande intrattenimento per la sala, dato il tono leggero, da commedia, come dicevamo, ma è chiaro che nasconde, neanche troppo velatamente, le intenzioni di un uomo contrariato da ciò che accade nel proprio Paese, adesso come negli anni Settanta.
Con un approccio lucido, innovativo per il suo solito stile, Spike Lee manifesta la sua rabbia verso una situazione sociopolitica rovinosa, quella della sua America. Ma non basta: il film, in chiusura, confermando il suo rivolgersi a tutto il mondo, e non solo alla comunità nera contro quella bianca, afferma con convinzione: “Power to all the people” (potere a tutte le persone). Un invito all’unione radicale, un appello a tutti gli uomini di ragione.

Quel che rende il film memorabile è un insieme di fattori, tra cui la geniale regia di Spike Lee, che ha collegato la storia alle vicende di razzismo attuali, confezionando quindi una pellicola politica e schierata ma allo stesso tempo dinamica e, sì, persino divertente.
L’impegno politico e sociale del regista non è una novità, e infatti in conferenza stampa non ha deluso le attese, criticando in modo colorito i leader mondiali, soprattutto il presidente americano Donald Trump – di cui non ha mai pronunciato il nome, sostituendolo con epiteti che non staremo qui a riportare.
A proposito del linguaggio, Lee ha precisato che voleva che l’odio fosse verbalizzato nel film, per questo ha scelto di far parlare i membri del KKK nel modo in cui parlano davvero, senza addolcire la pillola – ecco il motivo delle tante parolacce e insulti verso neri, ebrei e omosessuali.

L’idea del doppio, uno voce telefonica l’altro in azione, non sarebbe narrativamente male, se solo ci fosse una sceneggiatura in grado di sfruttarla adegutamente. Invece tutt’al più produce momenti farseschi non proprio finissimi, come il poliziotto black che fa battute infami sui neri per compiacere l’interlocutore klanico (risate in platea), o il black che istruisce il suo alter ego bianco su dizione e tono di voce da ghetto (altre risate). Ma la platea esplode in applausi tonanti quando i klanici infami, in una cerimonia di iniziazione più grottesca che spaventevole, urlano uno via l’altro ‘America first!’, e anche qui non c’è bisogno di spiegare il battimani. Non è che poi l’indagine porti a casa chissà quali risultati, anche perché quelli del KKK di Colorado Springs non sembrano proprio delle aquile in grado di organizzare chissà che. Ma vogliamo parlare dell’incredibile storia d’amore tra il poliziotto black fichissimo e la leader del Black Power della città?, storia che incredibilmente continua anche dopo che lui le ha confessato di essere un agente, e sono assurdità e incongruenze che in un film rispettabile non dovrebbero trovare posto. Il tono da commediaccia si alterna incongruamente a inserti di puro militantismo, che se non altro producono l’unico momento alto di tutto il film, con un meraviglioso Harry Belafonte, anni 91, a rievocare l’infame linciaggio di un nero. Ma è, letteralmente, un altro film che non si salda con il resto. E che fa rimpiangere che Spike Lee non sia dedicato a un progetto grande e credibile sul KKK. Adam Driver è l’alter ego bianco infitrato, e non lo si è mai visto tanto spaesato e perplesso.

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