lunedì 28 marzo 2022

Spencer - Pablo Larraín

tre giorni nella vita di Diana Spencer, ostaggio della famiglia reale (che, come tutte le famiglie reali, speriamo che si estingua in fretta).

Diana è prigioniera di rituali, pranzi, appuntamenti, senza nessuna libertà.

è un film dell'orrore, spesso e (mal)volentieri, ottimi Kristen Stewart, Timothy Spall, Maggie (Sally Hawkins) e i due bambini, William e Henry, solo loro, vogliono bene a Diana.

ottima sceneggiatura di Steven Knight e ottima regia di Pablo Larraín, uno dei più grandi registi del pianeta.

buona (non regale) visione - Ismaele


 

 

Larraín dunque non cerca l'horror della Famiglia Reale («Non sono cattivi», si dice), l'horror del contesto, dei quadri, della realtà. Sarebbe fin troppo facile. Cerca invece e trova il materiale per un horror che sia horror cinematografico. Un film non dell'orrore, quindi, ma un film che è horror. Perché è inquadrato come un horror, è musicato (dallo stile e dalle note di Jonny Greenwood) come un horror, ha le cadenze di un horror. L'idea allora di replicare, rifare, ripensare lo Shining kubrickiano, talvolta alla lettera come neanche lo Spielberg di Ready Player One, non è meno che geniale, in quanto Spencer sembra andare alla matrice dell'horror: una preda, una casa (maledetta), il passato che ritorna, la serenità sempre più distante e sempre più irraggiungibile, la pazzia che respira accanto, l'insopportabilità e la sconnessione.

E come in buona parte degli horror della storia del cinema, la protagonista di questo horror probabilmente non spaventoso ma senza dubbio inquieto finisce per salvarsi. Salva sé e salva noi, gli spettatori. Sapete perché? Semplice, perché evadendo dalla casa maledetta, dai suoi fantasmi e dalle sue ricorrenze, dove tutto è già previsto (come in un film horror, appunto), Lady D. riconduce il suo essere-cinema, essere-(un e in-un)film, nella vita di tutti i giorni, su una panchina vicino al Tamigi. È qui, nella banalità che è anche la nostra, che ciò che è cinema può rincontrare una sostanza, la verità. Spencer diventa così uno straordinario e vertiginoso film di cinema e sul cinema; un film che si fa genere (horror) e che crede in modo deciso che a guarirci, guarire noi e loro, i film, debba essere prima di ogni cosa un semplice gesto di fede personalistica. Via dalla pazza folla. La fede che il cinema (ossia la fantasia, la favola, l'immaginazione) possa avere la meglio.

da qui

 

Kristen Stewart è protagonista assoluta ed espressiva di un ritratto che ha la misura di una collana di perle, le vesti di una principessa delle fiabe spogliata di libertà che le spettano, in un castello spettrale dove ogni colore acceso è un segnale di un decadimento psichico crescente. E’ la soundtrack a cura di Jonny Greenwood che parla per conto di Lady D, vuole incedere senza conoscere limiti in un crescendo di note furiose, che smontano una monarchia condotta da aguzzini e guardie giurate. I figli e la casa-rifugio di un passato roseo sono l’ancora di salvezza di una personalità diventata icona, ma resa un filo d’erba che tende spesso a spezzarsi; Kristen Stewart non si trattiene, non si sottrae alla cinepresa di Larraìn, e decide di occupare la scena con una compostezza e un controllo totale dello spazio che la circonda ammirabili.

E’ un ritratto di Lady D che assume valore nell’effetto che ha sullo spettatore, che non la vede più come un mito, ma come una donna che ha dovuto affrontare le sue paure più reali. Si elimina la necessità di essere all’altezza della sua importanza sociale e culturale, per entrare in un vortice emotivo e fragile di ciò che ha significato per questa donna confrontarsi con la stessa famiglia reale britannica. Per questo motivo, il peso drammatico del film è sostenuto quasi interamente da Stewart, che trionfa totalmente all’interno della cornice filmica ma, allo stesso tempo, il lavoro di Timothy Spall e Sally Hawkins, che bilanciano la squisita passione di Stewart con performance più razionali, è da lodare. Mentre Spall fa un lavoro impeccabile con la sua espressività, la Hawkins sfrutta al massimo tutta la naturalezza e la luminosità che contraddistingue il suo lavoro sullo schermo.

Il grande lavoro di artigianato dell’immagine, che ha caratterizzato le precedenti opere di Larraìn, fa splendere Spencer ancora di più: in questo caso, sfrutta le idiosincrasie legate alla regalità per mettere a punto una perfetta metafora della gabbia dorata. La fotografia non risparmia alcun dettaglio, con attenzione alla posizione, all’illuminazione e all’impatto che la figura di Diana ha sullo spettatore…

da qui

 

Spencer diventa allora un dramma angosciante che sfiora a tratti il thriller psicologico, dove la grandiosa (c’era da stupirsi?) regia di Pablo Larraín costruisce sequenze asfissianti, inseguendo costantemente Diana in claustrofobici corridoi per poi soffermarsi spesso sul volto algido di un'anima che sta lentamente morendo; funzionale a tal proposito è la fotografia tutta giocata sui toni freddi.

Il viso, il fisico e l’immagine di Lady D. sono, all’interno del film, posti a un’attenzione mediatica senza pari - simbolico il non potersi cambiare con le tende aperte - da cui scaturisce la distruzione della sofferenza in ambito privato, deturpando anche di questo aspetto la madre di William e Henry.

Tutto ciò non sarebbe possibile ovviamente se come attrice protagonista ci fosse stata un'interprete senza la fisicità e la bravura adatta.

Per fortuna Kristen Stewart ci regala quella che è probabilmente la miglior prova della sua carriera.

Grazie a una presenza scenica strabordante e alla capacità di creare malinconia solo attraverso uno sguardo, l’interpretazione della Stewart - che lavora benissimo per sottrazione - si adatta perfettamente al racconto, in un ballo con la morte, sulle note della colonna sonora ammaliante di Jonny Greenwood, che può rivelarsi liberatorio o tombale a seconda di come si è vissuto Spencer.

A Larraín non è mai interessato creare un biopic, anche se la storia segue la realtà, quanto creare un’opera in grado di far vivere allo spettatore tutta l’angoscia di una vita sulla carta da favola, dove i pochi sprazzi di luce all’interno del film - vedasi quasi tutti i momenti con William e Henry - commuovono istantaneamente.

Forse perché sono perfetti nella loro normalità.

da qui

 

Man mano che ci si addentra nella profonda intimità delle lacerazioni e dei rimossi dell’universo personale di Diana, tra ricordi infantili, sogni e desideri, Spencer diventa infatti un’allegorica fiaba nera su un corpo sacrificale vittima di un potere assoluto, misterico e insondabile. Che cerca di fuggire al di là del bosco nella notte, verso la casa d’infanzia come fonte di regressione salvifica, culla di una purezza dimenticata nel tempo, ma anche cripta foriera di ombre oscure. Un corpo rapito in un’inquietante ghost story di apparizioni fantasmatiche e venature horror in cui tutti parlano sussurrando a bassa voce, ammantando l’atmosfera di suggestioni oniriche. Dove il ritiro a Sandringham più che una riunione di famiglia si trasforma presto in una spiritica seduta di sonnambulismo, un consesso di spettri radunato all’ora di cena da servi sussiegosi (ancora Shining), e che nel silenzio più penetrante si concedono alla vista sotto i pastosi bagliori della luce delle candele: straordinario l’apporto della DOP Claire Mathon (Ritratto della giovane in fiamme), che con esasperanti grandangoli e un uso raffinato del 16 mm richiama il lavoro pittorico e plastico di Barry Lyndon (1975). In un ritratto avvolgente, al tempo stesso austero ed esangue, di un’umanità di manichini imbellettati sottratti allo scorrere del tempo, su cui si staglia la mobilità nervosa, disarmonica e non conforme di Diana. In un impianto scenico in cui dominano la distorsione percettiva e gli spiazzanti scarti dal reale, l’interpretazione di Kristen Stewart rifugge dal calco mimetico da museo delle cere, dalla perfetta replica somatica e fisiognomica di Diana (non è ciò che conta). Puntando a restituirne la fragile vulnerabilità e il coraggio ribelle con le espressioni tremolanti e stirate, le pose sghembe e scomposte di una figura minuta e reclinata (un certo modo di piegare la testa sul collo, un lieve incurvamento delle spalle), esposta alle intemperie umane e sociali della sua corte ostile. Lavorando soprattutto sui toni bassi della voce e sull’accento (più che mai indispensabile la visione in versione originale)…

da qui

 

…E c’è la musica, tanta musica. Larraín non sbaglia un colpo e, dopo aver chiamato Mica Levi per Jackie, stavolta si è affidato a Jonny Greenwood (Radiohead), che lo ha ripagato della fiducia firmando probabilmente la sua miglior colonna sonora a oggi. Le partiture di Greenwood – eseguite dalla London Contemporary Orchestra, da un quartetto d’archi e da una band alla quale contribuiscono Byron Wallen alla tromba, Alexander Hawkins ai tasti e Tom Skinner dei Sons Of Kemet alla batteria – coadiuvano orchestrazioni classiche e free jazz prossimo all’improvvisazione, aderendo come un guanto al setting quando maestoso quando terrorizzante nonché agli sbalzi di mood di Diana. Inoltre, è la musica ad accompagnare idealmente Diana nei flash di danza che ne sprigionano l’essenza. Diana si eleva, trascende, corre altrove, torna a casa e torna a sperare.

Tutti abbiamo bisogno di un miracolo, per collegarsi alla conclusiva, spiazzante All I Need Is a Miracle dei Mike + The Mechanics. Qui il miracolo è sia la bellezza straordinaria del film, sia la via d’uscita che Diana si meritava e che ora le viene finalmente concessa.

da qui

 

 

 


1 commento:

  1. Beh, leggendo tutte queste recensioni mi è venuta voglia di vederlo anche se sono sincera Larrain non è proprio il mio regista preferito. Voglio quindi darmi una chance per non perdere qualcosa che merita a detta di tanti.

    Nel frattempo finalmente ho visto "One second", giorni fa ti ho lasciato un commento.
    Ciao!

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