Confidenze a uno sconosciuto – Ilaria Feole
Come accade che, a volte, ci pare di conoscere di persona gli attori sullo
schermo? Cosa c’era in William Hurt che ne ha fatto, per generazioni di
spettatori, una specie di lontano parente o amico di famiglia? Questa è la
sensazione diffusa a seguito della sua scomparsa precoce, il 13 marzo 2022,
pochi giorni prima di compiere i 72 anni, dopo una lotta col cancro alla
prostata. Non succede con tutti, e non ha a che fare col talento, che pure in
Hurt era cristallino, oltre che cesellato dalla preparazione alla prestigiosa
Julliard e da anni di lavoro sul palcoscenico, dove aveva recitato tutto il
recitabile, da Shakespeare a Čechov all’Hurlyburly diretto da Mike
Nichols che nel 1985 gli valse un Tony. Con quegli studi e quella gavetta
poteva fare letteralmente di tutto, perciò è ancor più significativo che al
cinema abbia esordito, trentenne, nel segno della sfida con un film come Stati
di allucinazione di Ken Russell, e con un ruolo magneticamente ostico,
affascinante e repulsivo, di scienziato prometeico. Un personaggio che ci
attrae tenendoci costantemente a distanza, con il carisma di chi non si lascerà
mai comprendere fino in fondo, ma non smetterà di invitarci a tentare: questa
era la danza fra il pubblico e il corpo attoriale di Hurt, una tensione
inesausta che ha raggiunto l’apice coi suoi memorabili ruoli degli anni 80. Una
forza attrattiva che scaturiva dalla sua paradossale immobilità, costringendo
comprimari e spettatori ad andare verso di lui: il veterano ferito
di Il grande freddo; lo scrittore di guide di Turista per caso e
quello di romanzi di Smoke; lo psicoanalista “in incognito”
di Un divano a New York e l’insegnante di Figli di un
dio minore; sono tutti personaggi che ardono di un’intensità statica e
frustrante, una sensualità cerebrale (perfino le sue scene erotiche di Brivido
caldo sono “ferme”) che trasmetteva contemporaneamente arroganza e
vulnerabilità (per Joshua Rothkopf è stato il volto «glaciale
dell’insoddisfazione yuppie»: in questo senso, davvero, l’icona di un
decennio). E che non chiedeva di essere risolta, come un enigma, ma di essere
accolta così com’era, nelle sottigliezze di una recitazione fatta molto spesso
di microespressioni, di tutte le angolazioni esistenti di un sorriso triste,
raffinata perfino quando andava sopra le righe (come con il Luis Molina
di Il bacio della donna ragno, non a caso l’unica prova premiata
con l’Oscar). Non era il tipo di attore che sembrasse “uno di noi”: bello di
una bellezza squisitamente cinematografica, atletico e biondo, proveniente
dall’alta borghesia statunitense, aveva una compostezza nobile e spesso algida,
una voce profonda e avvolgente, quasi mai messe al servizio di villain (tra le
eccezioni: i suoi nove minuti in A History of Violence), ma
piuttosto declinate in ruoli che facevano resistenza alla tradizionale
classificazione tra “amabile” e “sgradevole” (Dentro la notizia, Un
medico, un uomo e, apoteosi, il Rochester di Jane Eyre), e
che forse proprio per questo davano la sensazione di poter vedere la persona
dietro il personaggio. Come se l’avessimo conosciuto, e seguito fino
alla fine del mondo.
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