giovedì 24 marzo 2022

ricordo di William Hurt

 

Confidenze a uno sconosciuto – Ilaria Feole

Come accade che, a volte, ci pare di conoscere di persona gli attori sullo schermo? Cosa c’era in William Hurt che ne ha fatto, per generazioni di spettatori, una specie di lontano parente o amico di famiglia? Questa è la sensazione diffusa a seguito della sua scomparsa precoce, il 13 marzo 2022, pochi giorni prima di compiere i 72 anni, dopo una lotta col cancro alla prostata. Non succede con tutti, e non ha a che fare col talento, che pure in Hurt era cristallino, oltre che cesellato dalla preparazione alla prestigiosa Julliard e da anni di lavoro sul palcoscenico, dove aveva recitato tutto il recitabile, da Shakespeare a Čechov all’Hurlyburly diretto da Mike Nichols che nel 1985 gli valse un Tony. Con quegli studi e quella gavetta poteva fare letteralmente di tutto, perciò è ancor più significativo che al cinema abbia esordito, trentenne, nel segno della sfida con un film come Stati di allucinazione di Ken Russell, e con un ruolo magneticamente ostico, affascinante e repulsivo, di scienziato prometeico. Un personaggio che ci attrae tenendoci costantemente a distanza, con il carisma di chi non si lascerà mai comprendere fino in fondo, ma non smetterà di invitarci a tentare: questa era la danza fra il pubblico e il corpo attoriale di Hurt, una tensione inesausta che ha raggiunto l’apice coi suoi memorabili ruoli degli anni 80. Una forza attrattiva che scaturiva dalla sua paradossale immobilità, costringendo comprimari e spettatori ad andare verso di lui: il veterano ferito di Il grande freddo; lo scrittore di guide di Turista per caso e quello di romanzi di Smoke; lo psicoanalista “in incognito” di Un divano a New York e l’insegnante di Figli di un dio minore; sono tutti personaggi che ardono di un’intensità statica e frustrante, una sensualità cerebrale (perfino le sue scene erotiche di Brivido caldo sono “ferme”) che trasmetteva contemporaneamente arroganza e vulnerabilità (per Joshua Rothkopf è stato il volto «glaciale dell’insoddisfazione yuppie»: in questo senso, davvero, l’icona di un decennio). E che non chiedeva di essere risolta, come un enigma, ma di essere accolta così com’era, nelle sottigliezze di una recitazione fatta molto spesso di microespressioni, di tutte le angolazioni esistenti di un sorriso triste, raffinata perfino quando andava sopra le righe (come con il Luis Molina di Il bacio della donna ragno, non a caso l’unica prova premiata con l’Oscar). Non era il tipo di attore che sembrasse “uno di noi”: bello di una bellezza squisitamente cinematografica, atletico e biondo, proveniente dall’alta borghesia statunitense, aveva una compostezza nobile e spesso algida, una voce profonda e avvolgente, quasi mai messe al servizio di villain (tra le eccezioni: i suoi nove minuti in A History of Violence), ma piuttosto declinate in ruoli che facevano resistenza alla tradizionale classificazione tra “amabile” e “sgradevole” (Dentro la notizia, Un medico, un uomo e, apoteosi, il Rochester di Jane Eyre), e che forse proprio per questo davano la sensazione di poter vedere la persona dietro il personaggio. Come se l’avessimo conosciuto, e seguito fino alla fine del mondo.

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