martedì 18 ottobre 2016

Les Héritiers (Una volta nella vita) - Marie-Castille Mention-Schaar

come a volte succede il titolo italiano è fedele a quello originale allo 0%.
e però il film non è male, una storia di scuola dove i reietti emergono e riescono a fare qualcosa di inimmaginabile, per tutti.
il film è in certi momenti retorico, ma ci sta.
bravi gli attori studenti, e anche Ariane Ascaride, ma di lei si sapeva.
non resterà nella storia del cinema, ma una visione ci sta tutta, senza rimpianti - Ismaele







En la película hay muchos temas complejos y muchos personajes que hablan de ellos con voces sinceras. Y, sin embargo, nada parece escaso. En 105 minutos transcurre todo un curso académico, que en realidad parece toda una vida (y que vuelve a empezar en la magnífica secuencia con la que se cierra el filme), y han sucedido tantas cosas a tantos personajes diferentes que da la impresión de haberles conocido más profundamente de lo que en realidad hemos visto. Esa es la maravillosa labor que hacen su directora, que con muy poco cuenta muchísimo. Eso hace que la película sea espléndida. Sus mensajes, además, son inspiradores. Habla del trabajo en equipo, de la integración, del respeto al diferente, de la empatía, de los sueños y de la enorme capacidad que casi todos llevamos dentro para llegar lo más lejos posible. Y sale triunfante por su sinceridad. Casi nada.

 il titolo originale Les Héritiers tiene proprio conto di questa funzione di raccolta della memoria storica dei fatti in questione, tant’è che in un’emozionante sequenza assistiamo all’intervento di un anziano signore che testimonia della sua sventurata esperienza ad Auschwitz, provocando commozione nei giovani ascoltatori, i quali per la prima volta dimostrano un sincero interesse per quelle vicende, inondando di domande l’inatteso ospite. E poi, torna la questione, molto spesso affrontata dal cinema francese contemporaneo, della convivenza delle diversità culturali che abbondano nel tessuto sociale, anzi il concorso che la professoressa propone ai suoi alunni diviene il collante per tenere insieme armoniosamente quelle differenze che tanto spesso degenerano in conflitto. Ma il tema del multiculturalismo meriterebbe una trattazione a parte, nella misura in cui si rivela troppo spesso essere un’invenzione nominalistica per promuovere, attraverso l’elogio della differenza, uno sfruttamento indiscriminato dei soggetti interessati. Insomma non basta la laicità dello stato per gestire una faccenda che culturale in realtà non è, ma in ultima analisi ascrivibile alla sempre operativa legge dei rapporti di produzione.
Una volta nella vita è un buon film e, nonostante scivoli talvolta in qualche patetismo per fare breccia sull’emotività dello spettatore, fornisce, per i motivi sopra elencati, l’occasione per tornare a meditare sulla Storia e soprattutto sul rapporto che intratteniamo con essa. Da vedere.

Una volta nella vita ha due compiti: da una parte è un film sugli orrori dell’Olocausto che deve “ricordare e spaventare”, dall’altra è un film sullo statuto della scuola e quindi deve “raccontare la società contemporanea”. Incredibilmente non riesce a portare a termine nessuno dei due. Attraverso la metafora della classe e delle interazioni tra ragazzi si racconta come di consueto cosa sia la nuova Francia, un’unità multirazziale in cui a confliggere non sono più le etnie e i colori ma le religioni (che da questi sono indipendenti). I ragazzi sono le antenne che recepiscono e ripetono i segnali della società dei genitori, i conflitti delle loro famiglie e quindi della nazione. Dalla loro situazione e dai loro problemi poi si parte per andare a finire nel mondo dell’Olocausto.
I compiti di questo genere di film sono di “non dimenticare” andando a ribadire ciò che gli altri film hanno già spiegato, in questo caso lo si fa attraverso il racconto di alcuni ragazzi che apprendono essi stessi i veri orrori nazisti per una ricerca finalizzata ad un concorso nazionale, una che li unirà da che erano un gruppo allo sbando. Ma come al solito è tutto troppo dolce, tutto troppo favolistico, edulcorato e manicheo per poter essere anche duro e realista come si vorrebbe…
Appesantito inizialmente da un prologo a tesi sul muro contro muro tra la legge francese e l'identità culturale in materia di velo sul capo delle donne, con il tramite tenero e serio allo stesso tempo di una grande attrice, Ariane Ascaride, Una volta nella vita diventa in corso d'opera un film più che riuscito, anche perché perfettamente adeguato alle ambizioni di partenza. C'è un momento preciso che decreta la vittoria del film sul rischio di scivolare nel cliché, ed è il momento in cui l'ex deportato Léon Ziguel parla al gruppo di attori e comparse, tutti studenti. In quel momento, girato per forza di cose in un'unica ripresa, la finzione che struttura il film e la realtà storica che lo sostanzia raggiungono la simbiosi e la classe si apre ad annettere il pubblico tutto, in sala o altrove. 
La scuola, origine e destinatario ideale di questo lavoro, è ritratta, con ottimismo e speranza, come il luogo possibile della trasmissione, non solo del sapere, ma ancor più del saper imparare.

Determinante per volgere in positivo l’iniziale disinteresse degli studenti, oltre all’incontro con Ziguel, sicuramente la volontà e il carisma della professoressa promotrice dell’iniziativa, che nel film ha l’autorevolezza di un’interprete sensibile come Ariane Ascaride, capace di dare fiducia ai suoi allievi ponendoli al centro del percorso didattico. Per raggiungere il suo scopo la regista non abbandona quasi mai le aule scolastiche, resta sui volti dei giovani interpreti e cerca di rendersi trasparente. Facilmente attaccabile come buonista (ma è il soggetto stesso ad esserlo), il film affronta tematiche universali con onestà: il conflitto tra la libertà di espressione e il principio della laicità, la necessità di mantenere viva la memoria della Storia in modo da comprendere il passato per vivere con consapevolezza il presente e il bisogno dei giovanissimi di sentirsi percepiti come individui. Se gli intenti sono quindi lodevoli e il punto di vista prezioso, non mancano però eccessive sottolineature (quei palloncini colorati in volo a illuminare il grigiore del paesaggio, la signora sull’autobus che non accetta il posto offerto da una donna musulmana), alcuni stereotipi (la ragazza più ritrosa che diventa una delle più partecipi, lo studente introverso ai limiti del mutismo che trova poi modo di dare voce al proprio sentire, in generale l’equità dei caratteri all’interno della classe) e semplificazioni. Resta infatti piuttosto brusca, al di là della pacatezza dell’approccio, la maturazione dei ragazzi, troppo rapidamente in grado di capire l’importanza del progetto in cui sono coinvolti. Titolo italiano anonimo rispetto all’originale Les héritiérs, cioè gli eredi, che va invece dritto all’essenza.

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