quando l'Impero, dopo la seconda guerra mondiale, ha deciso che il comunismo, o meglio, il rischio che in alcuni paesi le multinazionali a stelle a strisce potessero avere dei danni, o anche soltanto una diminuzione del loro strapotere, e che l'american way of life scadesse nell'immaginario della popolazione di quei paesi, si agì in modo flessibile, a seconda del livello di "civiltà", secondo gli standard dell'Impero, e della gravità della minaccia.
si passa in scioltezza dal milione di morti in Indonesia nel 1965 (in quell'anno il Presidente della Camera rifiutò di incontrare il serial killer Suharto, "per non dover stringere la mano a un assassino", parole di Sandro Pertini), alle centinaia di migliaia di morti in Congo, al regime dei colonnelli, per sette anni, in Grecia, dittature e terrore e migliaia di morti nell'America Latina.
in Italia le cose andarono diversamente, si iniziò con la strage di Portella delle Ginestra, con la manina degli Usa, e dei loro servi, capisce chi guarda il film, basato sulle solitarie ricerche di Danilo Dolci.
quel primo maggio fu il primo mattone di quella costruzione assassina che fu la strategia della tensione, e non solo (qui se ne legge qualcosa).
scusate la lunga premessa, sarò breve, non perdetevi questo film-inchiesta, buona visione - Ismaele
QUI il film completo
Come è nato il film Segreti di Stato, racconta il regista Paolo Benvenuti
La mia storia inizia nel ’68 quando a 22 anni, mentre
insegnavo educazione artistica in una scuola media, ho cominciato a occuparmi
di cinema. Vedevo i ragazzini vittime di brutti programmi televisivi e di
pessimi film e decisi che sarebbe stato utile far conoscere loro il linguaggio
cinematografico. Così presi ad insegnare ai ragazzi i metodi per riconoscere e
difendersi da immagini diseducative. Poi, anni dopo – siamo nell’’83 – pensai
di fare lo stesso anche con gli adulti ma, mentre fare cinema con i bambini era
una esperienza veramente divertente, con gli adulti trovavo grosse difficoltà:
il mio modo di insegnare creava tra gli adulti una strana conflittualità:
alcuni di loro si trasformavano in una sorta di cloni del sottoscritto mentre
altri si arroccavano in polemiche opposizioni.
Con questa mia difficoltà pedagogica inizia la seconda
parte della storia, datata 10 settembre 1996. Era la prima volta che mi recavo
a Palermo, due miei film erano stati invitati al festival cinematografico “Palermo
di scena”. Dopo la proiezione de Il bacio di Giuda,
una spettatrice dichiarò: “Questo film piacerebbe molto a Danilo Dolci!”. Negli
anni ’60 avevo sentito parlare di questo personaggio scomodo, delle sue
battaglie e dei suoi famosi scioperi della fame, così dissi alla ragazza che,
se lei lo conosceva, avrei avuto molto piacere incontrarlo.
Detto fatto! L’indomani, giunti a Tappeto, rimanemmo con
Dolci tutta la giornata. Alla fine, questo gigante dagli occhi azzurri e
profondi, nel congedarmi mi prese la mano tra le sue e disse: “Perché non vieni
a lavorare con me?” Ero spiazzato, confuso, ma dopo un istante accettavo
l’invito senza alcuna remora: “Va bene – gli dissi – vado a Pisa, chiudo casa e
torno.”
Danilo mi offriva l’occasione di risolvere il mio
quesito. Avevamo discusso tutto il giorno di problemi pedagogici e avevo capito
che quest’uomo aveva veramente molte cose da insegnarmi e volevo conoscere il
suo metodo. Gli avevo esposto le difficoltà che, come insegnante, trovavo con
gli adulti. “Il problema – mi disse – è che ti ostini a voler fare
l’insegnante. Non devi fare l’insegnante, devi fare l’educatore. L’insegnante
pensa che i suoi allievi siano serbatoi vuoti da riempire, da “inseminare”.
L’educatore fa esattamente il contrario: parte dal presupposto che ogni
persona, bambino o adulto che sia, possiede dentro di sé una ricchezza
sconosciuta. Bisogna solo tirargliela fuori.” – “E come si fa?” – chiesi. “Con
la maieutica; partecipa ai miei seminari e lo scoprirai da solo”.
Trasferitomi in Sicilia volli subito mettermi al lavoro.
Gli dissi che io insegnavo cinema e volevo capire come insegnarlo utilizzando
la maieutica. “Cinema!? Non mi parlare di cinema, non lo sopporto!
Né il cinema, né la televisione!” – “Ma perché? I mezzi di comunicazione di
massa sono importanti…” Mi fulminò con un’occhiata: “Non usare quel termine –
disse – la comunicazione di massa non esiste, è un imbroglio!
La parola comunicazione è usata impropriamente per indicare
mezzi diabolici come il cinema e la televisione! Sai che significa la
parola comunicare? Viene dal latino cum-munus,
e vuol dire: mettere insieme i doni, creare cioè delle relazioni,
degli scambi tra le persone. Secondo te, tra lo schermo cinematografico e il
pubblico si crea comunicazione o si stabiliscono processi
di trasmissione unidirezionale?”
Non ci avevo mai pensato, ma era vero: lo spettatore non
può interagire con un film, lo può solo subire. Che avessi sbagliato a dedicare
la mia vita al cinema? Raccontai a Danilo di come realizzavo i miei film e lui,
incuriosito, volle vederli. In principio pareva un po’ scettico, ma dopo aver
seguito in religioso silenzio Il bacio di Giuda mi
disse: “E’ trasmissivo e unidirezionale come tutti i film, ma ha una sua
particolarità: è maieutico, cioè produce il parto del
pensiero. Obbligando lo spettatore a pensare, a usare la propria mente, lo
costringe a riflettere su ciò che accade sullo schermo.” Allora, preso
coraggio, gli mostrai anche “Confortorio”. Questo film gli
piacque ancora più dell’altro. Disse: “Ha una grande forza, un forte impatto
visivo e costringe gli spettatori a riflettere sui temi che tratta.”
Quando seppe che per realizzarli avevo affrontato anni di
ricerche, disse: “Secondo me dovresti fare un film su Portella
della Ginestra.” – “Portella che!?” – risposi. Allora mi portò con la
sua auto in cima alla montagna – quel giorno a Portella c’era un tempo
terribile. “Questo è il sasso Barbato, – indicò – dal
nome dell’oratore socialista che nell’‘800, durante i fasci siciliani, invitava
i contadini alla lotta. Qui, Salvatore Giuliano e la
sua banda, il primo maggio del 1947 sparò sulla folla e fu una strage.” – Dopo
un istante aggiunse: “Con il sangue di questi morti fu battezzata la prima
Repubblica.” Poi, voltandosi, indicò il fondo valle: – “Vedi? Quella è
l’autostrada Palermo-Trapani. Laggiù c’è Capaci. Il 23 maggio del
1992, col sangue di quelle vittime, si è battezzata la seconda
Repubblica”.
Turbato da quelle parole, capii che quest’uomo aveva
molte cose da dirmi sulla storia d’Italia e su Portella. Mi dette da leggere
libri sui quali poi mi interrogava. Fu un periodo duro, frenetico, grazie al
quale scoprii come la Sicilia fosse stata un laboratorio politico
straordinario. Un giorno mi portò nel suo ufficio di Partinico, tirò fuori da
un armadio un grosso faldone con scritto “Portella della Ginestra” e mi fece
leggere il suo contenuto. Erano carte che parevano prese nella spazzatura.
Lessi in quei fogli un’inchiesta sui lati oscuri di quel primo maggio ‘47. Lui
mi raccontò la storia di quelle carte: nel ‘56 aveva organizzato uno sciopero
alla rovescia; aveva portato cioè 150 braccianti disoccupati a
riparare una trazzera, una strada impraticabile per i danni della
guerra. Vennero i carabinieri e sciolsero l’ adunata sediziosa”. Lui fu
arrestato e trascorse tre mesi all’Ucciardone. In carcere aveva conosciuto
alcuni membri della banda Giuliano. “Quelle sono interviste che ho fatto ai
banditi.” – mi disse – “Ma stai attento: ciò che è scritto su quei fogli non è
la verità: è il punto di vista dei banditi. Ti potrà servire come bussola per
orientarti quando leggerai altri documenti… Tienilo presente.”
Poco prima di morire mi disse: “E’ una storia complicata
quella di Portella, ma tu dovrai fare un film semplice, che lo possano capire
tutti, perché se la gente capisce cos’è successo quel giorno, avrà in mano uno
strumento per cogliere il senso di tutte le stragi che, dalla fine degli anni
’60, hanno insanguinato l'Italia”.
Allora non compresi la portata di ciò che mi stava
dicendo. Iniziai la ricerca su Portella raccogliendo in sei anni di indagini
oltre 20 mila documenti. Grazie alle carte che mi aveva mostrato Danilo – che
in parte avevo ricopiato – è stato possibile orientarmi nel ginepraio di
depistaggi, menzogne e mezze verità con le quali gli apparati dello Stato
avevano occultato le vere ragioni di quella strage.
Dopo la morte di Dolci, con uno dei suoi figli, visitammo
le stanze di Borgo di Dio, scoprendo che qualcuno aveva distrutto l’archivio,
bruciato le carte e infestato i muri di scritte fasciste. Nei giorni successivi
scoprimmo che anche l’ufficio di Partinico era stato manomesso e molti
documenti, compreso il fascicolo con le testimonianze dei banditi, erano
scomparsi.
Il film Segreti di Stato sulla
strage di Portella della Ginestra, realizzato nel 2003, è dedicato “alla
memoria di Danilo Dolci”.
Durante il
processo per la strage di Portella della Ginestra, tenutosi nel ’51 a Viterbo
contro i membri della banda Giuliano, un avvocato non convinto dei risultati
dell’inchiesta decide di condurre segretamente una popria indagine
sull’eccidio. Da un piccolo particolare – il calibro delle pallottole estratte
dai corpi delle vittime – l’avvocato risale la china di un lungo percorso
d’indagine, alla ricerca di tracce nuove e testimonianze inascoltate. Questo
percorso lo conduce in Sicilia, sul luogo della strage. Portella della
Ginestra, in provincia di Palermo, è un enorme pianoro incolto e sassoso
racchiuso tra i monti Pizzuta e Kumeta. Questo secondo rilievo ha una
propaggine avanzata che incombe sulla piana: il Cozzo Dxuhait, che in albanese
significa “punto d’osservazione”. Al centro del pianoro vi è un masso: il sasso
Barbato, podio naturale degli oratori socialisti fin dai tempi dei “fasci
siciliani”. Il quadro geografico risulterà particolarmente importante per
l’avvocato, consentendogli di avanzare poco a poco verso un’ipotesi totalmente
differente da quella ufficiale.
LA RICERCA STORICA
Il Primo Maggio del 1947, a Portella della Ginestra in Sicilia, qualcuno spara
sulla folla: 11 morti e 27 feriti. Poche ore dopo la strage gli inquirenti
fanno già un nome: il bandito Giuliano. Ma, stranamente, la rapida inchiesta
sul massacro di uomini donne e bambini avvenuto durante la Festa del Lavoro e
la misteriosa uccisione del famoso bandito che avrebbe causato tale misfatto,
verranno dichiarati dal Governo Italiano. Dopo anni di ricerche e studi
dell’ampia bibliografia pubblicata sull’argomento, delle testimonianze raccolte
da Danilo Dolci, dei documenti desegretati dalla Commissione Parlamentare
Antimafia, degli incartamenti relativi al processo depositati presso il
Tribunale di Roma, e soprattutto grazie all’analisi sistematica della
documentazione rinvenuta negli archivi dell’Office of Strategic Services di
Washington (un materiale i mpressionante e tuttora
inedito), siamo in grado di presentare oggi una ricostruzione nuova e originale
dei fatti e delle cause di quel tragico evento.Il film intende accompagnare gli
spettatori dentro la complessità di una oscura vicenda, per combattere
l’omissione storiografica prodotta ai danni delle nuove generazioni.
LE RAGIONI DI UN FILM
Il primo a parlarmi della strage di
Portella della Ginestra fu il sociologo Danilo Dolci nel settembre del 1996.
Eravamo nella sua casa a Trappeto presso Palermo e lui aveva appena visto la
cassetta del mio film Confortorio. Dolci non amava il cinema, lo riteneva
veicolo di “trasmissione” e non oggetto di “comunicazione”, e pertanto
strumento facilmente utilizzabile dal Dominio per condizionare e asservire le
coscienze. Ma dopo aver visto anche Il bacio di Giuda Dolci dichiarò che questo
mio modo di fare cinema era maieutico, produceva cioè un vero parto del
pensiero. Si mostrò subito entusiasta e mi confessò che cercava da tempo un
modo efficace per rivelare quanto aveva scoperto quarant’anni prima sul primo
inquietante mistero d’Italia: la strage di Portella della Ginestra. Per lui il
mio modo di narrare con le immagini poteva essere lo strumento idoneo per
mostrare, di quell’oscuro episodio, la verità nascosta. Mi condusse nel suo
Centro Studi a Partinico, dove aprì alcuni vecchi faldoni pieni di carte,
archiviati con la dicitura “Portella della Ginestra – testimonianze”. Per aver
capeggiato nel 1956 uno sciopero “alla rovescia” di contadini affamati, facendo
riparare una vecchia “trazzera” dissestata, Dolci, accusato di sedizione, era
stato tradotto al carcere dell’Ucciardone di Palermo. Durante la sua detenzione
ebbe modo di avvicinare gli uomini della banda di Salvatore Giuliano e di
intervistarli. Da quelle testimonianze, raccolte dalla viva voce dei banditi,
iniziò una ricerca sistematica che Dolci e i suoi collaboratori condussero per
anni sul territorio della Sicilia occidentale, intervistando testimoni, vittime
della strage e quanti avevano visto cose che non avrebbero mai dovuto vedere…Mi
misi di buon grado a decifrare quegli scritti che per me risultarono, allora,
totalmente incomprensibili. Non conoscevo nulla della storia di Salvatore
Giuliano, nulla della Sicilia del dopoguerra, nulla del Separatismo, delle
lotte contadine, del banditismo, degli intrighi politici, della fame, dei morti
ammazzati sui cigli delle strade. Dolci, evidentemente, si aspettava qualcosa
da me che allora non potevo offrire. Gli confessai la mia ignoranza. Prima di
affrontare quel materiale, avrei dovuto studiare la storia della Sicilia del
dopoguerra. Danilo, annuiva in silenzio. Poi prese uno dei suoi libri dallo
scaffale e me lo porse: – “Leggilo,” – disse – “poi ne parliamo”. Quel libro
s’intitolava Banditi a Partinico.Dopo quel libro ho letto molto di quanto è
stato pubblicato sulla storia siciliana e italiana del dopoguerra, volumi che
Dolci mi segnalava continuamente e dei quali chiedeva sempre critica e
giudizio. Quello che si andava svelando ai miei occhi era una storia di legami
inconfessabili tra criminalità organizzata e politica, tra pezzi dello Stato
italiano agli albori della Repubblica e il banditismo più efferato e
sanguinario. Quando Danilo sentì di essere prossimo alla fine, mi fece
promettere che avrei portato a termine questo lavoro, traendone un film. “Un
film semplice,” – disse – “alla portata di tutti.” Poi aggiunse: – “Gli
italiani devono sapere che Portella della Ginestra è la chiave per comprendere
la vera storia della nostra Repubblica. Le regole della politica italiana di
questo mezzo secolo sono state scritte con il sangue delle vittime di quella
strage”. Il film è nato da quella promessa.
…Benvenuti si è messo sulle orme delle ricerche del
sociologo siciliano Danilo Dolci sulla strage di Portella della Ginestra e ha
raccolto tutti i documenti disponibili – vengono elencati fra i titoli di testa
del film – in grado di smentire la verità ufficiale e processuale e di dare
fondamento alla tesi della "strage di Stato", collocando l'eccidio
all'interno della politica anticomunista delle istituzioni italiane e dei
servizi segreti americani. Per uno scrupolo filologico, tuttavia, Benvenuti non
ha tradotto il suo materiale in una nuova messa in scena della strage,
riscrivendo la corrispettiva pagina del Salvatore Giuliano di
Rosi. Ha costruito invece l'azione di Segreti di stato attorno
a un'indagine condotta dall'avvocato di Gaspare Pisciotta, sulla scorta del
film poliziesco americano degli anni Quaranta e Cinquanta.
I frammenti di verità e le
ipotesi sulla dinamica dei fatti che di volta in volta emergono vengono offerti
allo sguardo dello spettatore attraverso forme alternative di mimesi, che
ricorrono all'oralità o a procedimenti didascalici, a elementi insomma
extra-cinematografici, dai disegni dell'avvocato al plastico del perito balistico,
il cui fine – come ha rivelato il regista in un'intervista di grande interesse – è quello di contraddistinguere con una marca linguistica il campo delle
ipotesi non ancora accertate. Il passaggio alla messa in scena tradizionale,
alla rappresentazione realistica, viene evitato perché in esso – secondo
Benvenuti – si rischia di annullare il metodo critico e di fornire allo
spettatore una verità univoca e cristallizzata, mentre Segreti di Stato vuole
essere "un film sul pensiero e sull'interpretazione, non sulla
realtà". Non a caso il regista ha inserito nel montaggio del film alcuni
spezzoni tratti da cinegiornali d'epoca, formalmente realistici ma
sostanzialmente falsi: in un caso la mdp si sofferma con un dettaglio su un
proiettore, alludendo all'ambiguità e alle potenzialità falsificatorie della
rappresentazione cinematografica.
Non so quanto abbia giovato alla
riuscita della pellicola questa "rinuncia al cinema" a favore di una
scoperta didascalicità. In una sequenza, in particolare, per altro oggetto di
molte polemiche, un professore siciliano (interpretato da Sergio Graziani)
illustra la rete di mandanti che si celerebbe dietro la strage, disponendo su
un tavolo le fotografie dei personaggi citati, da De Gasperi a Scelba e
Andreotti, da papa Pacelli a Truman. Il procedimento escogitato dal regista –
la messa in scena alternativa – sembra non funzionare: l'espediente
didascalico, invece di smorzare, amplifica l'evidenza oggettiva dei
ragionamenti del professore. Ipotesi e verità finiscono per confondersi; più il
racconto si fa didascalico e scoperto, più rischia di diventare assertivo.
Benvenuti deve essersi accorto di questo rischio e ha inserito nella scena un
elemento in funzione attenuante: una folata di vento entra dalla finestra e
manda all'aria le carte, quasi a ricordare che si tratta di una costruzione
ipotetica, di una verità indiziaria…
…Partendo dalle
confessioni raccolte in carcere dal professore di pedagogia Dolci, dopo anni di
studi e ricerche e dopo aver raccolto documenti ed ulteriori testimonianze,
Paolo Benvenuti espone, con semplicità rosselliniana, i fatti di Portella della
Ginestra. Seguendo il metodo d’insegnamento del professore siciliano e con un
occhio rivolto al cinema didattico del regista di Roma città aperta, l’autore di Gostanza da Libbiano affronta di petto il rimosso della Storia d’Italia con uno spirito
combattivo e con un’autentica passione civile. Nella minuziosa ricostruzione
dei fatti, Benvenuti ha il coraggio di non rappresentare il non-rappresentabile (ovvero gli eventi tragici
oggetto di indagine) e di lasciare che le sole vignette suggeriscano
avvenimenti ancora avvolti nel mistero e dunque impossibili da rendere
cinematograficamente senza scadere nel ricattatorio e senza evitare di
replicare su pellicola le immorali figure della
sprezzante retorica manipolatoria del mezzo televisivo. Non vediamo e vedremo
mai, magari in prevedibili ed ingannevoli flash-back, la
strage. Il cinema, quando/se vuole essere atto morale, non può rappresentare
visivamente un’ipotesi, una congettura, quand’anche suffragata da prove e documenti,
perché la sola rappresentazione, secondo quello che è lo statuto ontologico
dell’immagine cinematografica, costituirebbe un atto di violenza, un’arbitraria
imposizione dall’alto, annullerebbe il dubbio, imporrebbe allo spettatore la
verità. Il regista preferisce suggerire allo spettatore, piuttosto che urlare,
la strada interpretativa da percorrere. Il suo è un cinema metonimico più che
iperbolico e ridondante, che sottrae e riduce all’essenziale gli elementi
narrativi al fine di lasciare allo spettatore il compito di partorire, maieuticamente, la verità…
Filmone e Benvenuti è un grande. E grande Dolci a porre l'accento sul "far pensare" che si ottiene con certe tecniche. Ne avevo parlato varie volte con mio padre e ora glielo posso far vedere.
RispondiEliminaqui (https://www.youtube.com/watch?v=BM_Ftk1r9jM) non sono d'accordo, mi sembra un giudizio ingeneroso
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