mercoledì 16 ottobre 2019

Le verità - Hirokazu Koreeda

non tutte le ciambelle escono col buco, direbbe un pasticciere.
non è facile per un regista cambiare paese, solo perchè la produzione del nuovo paese finanzia il film.
non si parla di Billy Wilder, che cambiò paese, definitivamente.
penso a un regista iraniano che ha girato un film a Parigi (lì c'era un iraniano nella storia, almeno), nel film di Koreeda tutto il film è ambientato a Parigi, con personaggi francesi, nessuno giapponese.
non dico che è un brutto film, solo che ha perso l'anima, i ritmi, l'alito della storia nipponica.
non è facile fare un salto mortale così, pochi ci riescono, Denis Villeneuve, per esempio.
e però il film merita lo stesso, con due protagoniste bravissime - Ismaele




Con Le verità il regista dà vita a un film sospeso tra commedia e dramma, lieve in superficie ma turbato nel profondo da inquietudini esistenziali sul punto di esplodere, in cui il tema dominante è la riflessione sulla percezione della verità e della menzogna, sul loro stretto legame, sulle loro ricadute indirette, quando esse diventano ineluttabilmente strumento di equilibrio delle relazioni famigliari e non. Crudeli verità e innocenti bugie si sovrappongono e confondono: la famiglia come il regno della finzione, sembra suggerire sottovoce il regista, e viceversa, con il cinema che sua volta trae linfa dal privato (non a caso una buona parte del film si concentra sulle peripezie della lavorazione di una pellicola a cui prende parte la diva protagonista).
Verità e menzogna che peraltro erano già state al centro di un altro film di KoreedaThe Third Murder, passato sempre a Venezia nel 2017, ma con esiti, pur nelle diversità di genere tra i due lavori, ben diversi. Perché sfortunatamente, per noi che amiamo il cinema di KoreedaLe verità è un’opera minore nella filmografia del regista, la meno appagante tra quelle che portano la sua firma. Dimenticate la naturalezza dell’umanità raccontata per sottintesi, silenzi, non detti e quel continuo gioco di distanze tra lo sguardo del regista e i personaggi che hanno fatto grande il cinema di KoreedaLe verità appare in tutto e per tutto un film francese per un pubblico europeo, molto parlato, con inquadrature per lo più schiacciate sui volti dei protagonisti, appiattito – per non dire annichilito – dalla presenza scenica della Deneuve (magnifica, non c'è dubbio) che come un magnete attira tutta su di sé l'attenzione dello spettatore dall’inizio alla fine. Si faticherebbe a riconoscere la mano del regista se non leggessimo il suo nome nei titoli di coda.
Nel suo viaggio in Europa Koreeda perde quindi per strada molta della sua cifra autoriale, mostrandosi incapace di incidere con il suo stile in un contesto a lui nuovo. E così alla fine resta il mistero sul perché il regista abbia accettato di spostarsi per dirigere un film che avrebbe potuto tranquillamente realizzare in Giappone, evitando di doversi adattare – e forse scendere a compromessi – in una realtà sconosciuta. Non è il primo caso di regista asiatico che fallisce nelle mani del sistema delle produzioni o coproduzioni straniere: forse andrebbe aperto un dibattito sulle ragioni di questa tendenza. La lista di nomi è lunga, ma soprattutto i produttori francesi (forse per le loro maggiori ingerenze?) sono quelli che hanno inanellato le più cocenti delusioni: per restare al periodo più recente, pensiamo a cineasti come Lou Ye con Love and BruisesJohnnie To con VendicamiNaomi Kawase con VisionHong Sang-soo con Claire's Camera, film che sicuramente non sono da annoverare tra le migliori opere dei rispettivi autori.

Le verità tenta di replicare nel nuovo contesto le atmosfere all’insegna delle nuances, e la problematizzazione di sguardo, che hanno reso fondamentali lavori come Little Sister o Un affare di famiglia; ma la levità costantemente ricercata dal regista, i toni che si fermano a un passo dal dramma esplicito, andando poi a flirtare con la commedia, appaiono qui leggermente forzati. Si avverte che il soggetto, nato altrove e probabilmente con altre premesse, ha finito per adattarsi in modo troppo marcato ai gusti del “medio” pubblico mainstream europeo, fidando quasi completamente su una Deneuve che riempie lo schermo, e su una Binoche il cui personaggio richiama una catarsi emotiva che semplicemente non arriva.
Al di là dell’inconsistenza delle figure accessorie (tra queste inseriremmo anche il personaggio del marito di Lumir, interpretato da Ethan Hawke) il problema di Le verità sta proprio nella difficoltosa conciliazione tra i temi del regista con un contenitore narrativo che tende inevitabilmente a normalizzarne (e appiattirne) lo sguardo. In questo senso, la stessa ambientazione cinematografica, e il ragionamento sull’arte del recitare e sulle sue implicazioni, appaiono motivi pretestuosi, al di là della scontata identificazione tra la figura di Fabienne e la sua interprete al di qua dello schermo. D’altra parte, i segni e i riferimenti al suo cinema che il regista inserisce (la caduta delle foglie dagli alberi, il generale clima autunnale della storia, il poco invasivo commento musicale) sembrano più contentini dati al suo pubblico, riferimenti a una poetica che qui fatica ad adattarsi al nuovo contenitore. Un contenitore che ha portato il regista nipponico a quello che risulta finora l’episodio più debole della sua carriera, tenuto in piedi solo dal mestiere suo e da quello del cast: ma il cinema di Kore-eda, finora, aveva mostrato ben altra sostanza.

Caratterizzato da una storia quasi tutta al femminile, sebbene i personaggi maschili di contorno svolgano al meglio le proprie funzioni, Le verità è un film gradevolissimo, lieve ma non superficiale; capace di commuovere, anche e soprattutto grazie alle brillanti interpretazioni delle due protagoniste, come anche della piccola Clémentine Grenier, attrice che interpreta Charlotte. I tanti non detti di una vita, le divergenze che in realtà legano due donne pienamente in grado di capirsi, si concentrano nel tormentato ricordo di Sarah, amica, collega e rivale per Fabienne e seconda madre per Lumir, la cui prematura scomparsa ha avuto un impatto fortissimo su entrambe, tanto da essere ancora in qualche modo presente nella vita delle due donne. L'amore e il rancore che legano Fabienne e Lumir sono trattati da Hirokazu Koreeda secondo i dettami più tipici della produzione francese, in modo così rigoroso da far perdere al regista giapponese un po' del suo tocco. Lo stile di Koreeda resta ben evidente solo in alcuni brevi inquadrature e in un finale che, forse in conseguenza di ciò, risulta essere quasi accessorio rispetto alla perfetta scena conclusiva appena precedente. Molto bello l'accompagnamento musicale, mai preponderante e sempre puntuale nell'accompagnare le sequenze cui è accoppiato…

Kore-eda ha ripreso per Le verità un soggetto che aveva scritto molti anni fa. Ma è il cast la qualità essenziale che fa la differenza di un film in cui la musa francese si interpreta per come pensiamo che sia, per come vorremmo che fosse, per come presumiamo debba essere. Forte, dispotica, crudele, menefreghista, sublime, elegante, superiore alla morale e alla realtà, ignobile, una perciò superba, straordinaria Catherine Deneuve interpreta Fabienne e “guida” – anche nelle scene in cui, come una chioccia egotica, cammina sempre davanti a tutti – gli altri attori principali ossia Juliette Binoche nella parte di sua figlia Lumir ed Ethan Hawke nella parte del marito di Lumir. Ovviamente Fabienne, come da copione, è stata assente durante l’infanzia della figliola (sebbene nelle sue memorie fresche di stampa l’attrice sostenga il contrario), per la quale è stata ugualmente ingombrante come pietra di paragone, monito costante, dover essere impossibile. Lumir (che da ragazzina voleva recitare ma poi si è dedicata alla sceneggiatura) è sospinta da recriminazioni di vario genere: tra le molte accuse mosse all’ormai vecchia madre aleggia anche quella di aver “ucciso” almeno moralmente un’altra attrice della sua epoca, Sarah, che per tutto il film sarà un fantasma ricorrente, un rimosso occultato, un sacrificio necessario alla gloria di Fabienne. La Binoche, grande attrice di una generazione in cui il cinema è meno impattante sull’immaginario collettivo, si presta volentieri a far rifulgere il narcisismo ontologico della Deneuve, l’originale cui è impossibile sottrarsi, il modello che muove il sole e le altre stelle e soprattutto tutti quelli che ha intorno cui in fondo (tralasciando apparenti moine) non importa mai nel film se di verità o menzogna si tratti, se sia stato talento o fortuna o qualità superiore o capacità di manipolazione. Quel che meno importa è proprio la verità evocata dal titolo, tanto che la “riconciliazione” tra madre e figlia avverrà nel finale attraverso recite e finzioni ma perfettamente funzionanti. Ethan Hawke è Hank, il marito americano di Lumir, un attore di serie B negli Usa, magari affascinato dal magnetismo potente di Fabienne ma un po’ più scettico (del resto fa serie tv che passano anche su youtube) circa gli effetti taumaturgici o traumatici che questo carisma può causare. In una parte piccolissima quanto significativa, Hank – che capisce il francese ma non parla francese e viene sempre tagliato fuori dalle conversazioni – è lo straniero sulla scena europea delle sacrali dinamiche narrate: se non è il punto di vista di Kore-eda (e non lo è) certamente il suo personaggio gode di una sana distanza rispetto a ciò che vede ma che nessun altro vuole o può permettersi. Discorso a parte merita Charlotte (Clémentine Grenier), la figlia di Lumir e Hank, che a differenza del padre parla un perfetto francese e che immagina la nonna come una strega buona e cattiva a un tempo, capace di sortilegi e incantesimi cui volentieri gli adulti soccombono. Ma è un mondo di “magia” ancora infantile, primaria e ben diversa dalla magia orchestrata degli adulti…

Il personaggio interpretato da Catherine Deneuve è diverso, difficile da collocare: Fabienne è magnetica, irrispettosa, incapace di ammettere i propri errori, talmente grottesca da risultare esilarante, capace di far sorridere anche solo con una posa, con uno sguardo ingannevole, furbesco. Una donna un po’ fata e anche strega, talmente strana da far credere a sua nipote di saper trasformare le persone in animali, come il suo ex marito Pierre, che quando non è in forma umana diventa la tartaruga di famiglia che si chiama, non a caso, Pierre. Un concetto quasi kafkiano, in cui la metamorfosi assume il carattere proprio del romanzo epocale dello scrittore praghese, in cui un personaggio si sente incongruente col suo contesto familiare, talmente discordante da scegliere l’alienazione…

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