non è facile per un regista cambiare paese, solo perchè la produzione del nuovo paese finanzia il film.
non si parla di Billy Wilder, che cambiò paese, definitivamente.
penso a un regista iraniano che ha girato un film a Parigi (lì c'era un iraniano nella storia, almeno), nel film di Koreeda tutto il film è ambientato a Parigi, con personaggi francesi, nessuno giapponese.
non dico che è un brutto film, solo che ha perso l'anima, i ritmi, l'alito della storia nipponica.
non è facile fare un salto mortale così, pochi ci riescono, Denis Villeneuve, per esempio.
e però il film merita lo stesso, con due protagoniste bravissime - Ismaele
…Con Le verità il
regista dà vita a un film sospeso tra commedia e dramma, lieve in superficie ma
turbato nel profondo da inquietudini esistenziali sul punto di esplodere, in
cui il tema dominante è la riflessione sulla percezione della verità e della
menzogna, sul loro stretto legame, sulle loro ricadute indirette, quando esse
diventano ineluttabilmente strumento di equilibrio delle relazioni famigliari e
non. Crudeli verità e innocenti bugie si sovrappongono e confondono: la
famiglia come il regno della finzione, sembra suggerire sottovoce il regista, e
viceversa, con il cinema che sua volta trae linfa dal privato (non a caso una
buona parte del film si concentra sulle peripezie della lavorazione di una
pellicola a cui prende parte la diva protagonista).
Verità e menzogna che peraltro erano già state al centro di un altro film di Koreeda, The Third Murder, passato sempre a Venezia nel 2017, ma con esiti, pur nelle diversità di genere tra i due lavori, ben diversi. Perché sfortunatamente, per noi che amiamo il cinema di Koreeda, Le verità è un’opera minore nella filmografia del regista, la meno appagante tra quelle che portano la sua firma. Dimenticate la naturalezza dell’umanità raccontata per sottintesi, silenzi, non detti e quel continuo gioco di distanze tra lo sguardo del regista e i personaggi che hanno fatto grande il cinema di Koreeda: Le verità appare in tutto e per tutto un film francese per un pubblico europeo, molto parlato, con inquadrature per lo più schiacciate sui volti dei protagonisti, appiattito – per non dire annichilito – dalla presenza scenica della Deneuve (magnifica, non c'è dubbio) che come un magnete attira tutta su di sé l'attenzione dello spettatore dall’inizio alla fine. Si faticherebbe a riconoscere la mano del regista se non leggessimo il suo nome nei titoli di coda.
Verità e menzogna che peraltro erano già state al centro di un altro film di Koreeda, The Third Murder, passato sempre a Venezia nel 2017, ma con esiti, pur nelle diversità di genere tra i due lavori, ben diversi. Perché sfortunatamente, per noi che amiamo il cinema di Koreeda, Le verità è un’opera minore nella filmografia del regista, la meno appagante tra quelle che portano la sua firma. Dimenticate la naturalezza dell’umanità raccontata per sottintesi, silenzi, non detti e quel continuo gioco di distanze tra lo sguardo del regista e i personaggi che hanno fatto grande il cinema di Koreeda: Le verità appare in tutto e per tutto un film francese per un pubblico europeo, molto parlato, con inquadrature per lo più schiacciate sui volti dei protagonisti, appiattito – per non dire annichilito – dalla presenza scenica della Deneuve (magnifica, non c'è dubbio) che come un magnete attira tutta su di sé l'attenzione dello spettatore dall’inizio alla fine. Si faticherebbe a riconoscere la mano del regista se non leggessimo il suo nome nei titoli di coda.
Nel suo viaggio in Europa Koreeda perde quindi per strada molta della sua
cifra autoriale, mostrandosi incapace di incidere con il suo stile in un
contesto a lui nuovo. E così alla fine resta il mistero sul perché il regista
abbia accettato di spostarsi per dirigere un film che avrebbe potuto
tranquillamente realizzare in Giappone, evitando di doversi adattare – e forse
scendere a compromessi – in una realtà sconosciuta. Non è il primo caso di
regista asiatico che fallisce nelle mani del sistema delle produzioni o
coproduzioni straniere: forse andrebbe aperto un dibattito sulle ragioni di questa
tendenza. La lista di nomi è lunga, ma soprattutto i produttori francesi (forse
per le loro maggiori ingerenze?) sono quelli che hanno inanellato le più
cocenti delusioni: per restare al periodo più recente, pensiamo a cineasti
come Lou Ye con Love
and Bruises, Johnnie To con Vendicami, Naomi Kawase con Vision, Hong Sang-soo con Claire's Camera, film che sicuramente non sono da
annoverare tra le migliori opere dei rispettivi autori.
…Le verità tenta
di replicare nel nuovo contesto le atmosfere all’insegna delle nuances, e la
problematizzazione di sguardo, che hanno reso fondamentali lavori come Little Sister o Un
affare di famiglia; ma la levità costantemente ricercata dal regista,
i toni che si fermano a un passo dal dramma esplicito, andando poi a flirtare
con la commedia, appaiono qui leggermente forzati. Si avverte che il soggetto,
nato altrove e probabilmente con altre premesse, ha finito per adattarsi in
modo troppo marcato ai gusti del “medio” pubblico mainstream europeo, fidando
quasi completamente su una Deneuve che riempie lo schermo, e su una Binoche il
cui personaggio richiama una catarsi emotiva che semplicemente non arriva.
Al di là dell’inconsistenza delle figure accessorie (tra
queste inseriremmo anche il personaggio del marito di Lumir, interpretato da
Ethan Hawke) il problema di Le verità sta proprio
nella difficoltosa conciliazione tra i temi del regista con un contenitore
narrativo che tende inevitabilmente a normalizzarne (e appiattirne) lo sguardo.
In questo senso, la stessa ambientazione cinematografica, e il ragionamento
sull’arte del recitare e sulle sue implicazioni, appaiono motivi pretestuosi,
al di là della scontata identificazione tra la figura di Fabienne e la sua
interprete al di qua dello schermo. D’altra parte, i segni e i riferimenti al
suo cinema che il regista inserisce (la caduta delle foglie dagli alberi, il
generale clima autunnale della storia, il poco invasivo commento musicale)
sembrano più contentini dati al suo pubblico, riferimenti a una poetica che qui
fatica ad adattarsi al nuovo contenitore. Un contenitore che ha portato il
regista nipponico a quello che risulta finora l’episodio più debole della sua
carriera, tenuto in piedi solo dal mestiere suo e da quello del cast: ma il
cinema di Kore-eda, finora, aveva mostrato ben altra sostanza.
…Caratterizzato da una storia quasi tutta al femminile,
sebbene i personaggi maschili di contorno svolgano al meglio le proprie
funzioni, Le verità è un film gradevolissimo, lieve ma non
superficiale; capace di commuovere, anche e soprattutto grazie alle brillanti
interpretazioni delle due protagoniste, come anche della piccola Clémentine
Grenier, attrice che interpreta Charlotte. I tanti non detti di una vita, le
divergenze che in realtà legano due donne pienamente in grado di capirsi, si
concentrano nel tormentato ricordo di Sarah, amica, collega e rivale per
Fabienne e seconda madre per Lumir, la cui prematura scomparsa ha avuto un
impatto fortissimo su entrambe, tanto da essere ancora in qualche modo presente
nella vita delle due donne. L'amore e il rancore che legano Fabienne e Lumir
sono trattati da Hirokazu Koreeda secondo i dettami più tipici della
produzione francese, in modo così rigoroso da far perdere al regista giapponese
un po' del suo tocco. Lo stile di Koreeda resta ben evidente solo in alcuni
brevi inquadrature e in un finale che, forse in conseguenza di ciò, risulta
essere quasi accessorio rispetto alla perfetta scena conclusiva appena
precedente. Molto bello l'accompagnamento musicale, mai preponderante e sempre
puntuale nell'accompagnare le sequenze cui è accoppiato…
…Kore-eda ha ripreso per Le verità un soggetto che aveva scritto molti
anni fa. Ma è il cast la qualità essenziale che fa la differenza di un film in
cui la musa francese si interpreta per come pensiamo che sia, per come vorremmo
che fosse, per come presumiamo debba essere. Forte, dispotica, crudele,
menefreghista, sublime, elegante, superiore alla morale e alla realtà,
ignobile, una perciò superba, straordinaria Catherine Deneuve interpreta
Fabienne e “guida” – anche nelle scene in cui, come una chioccia egotica,
cammina sempre davanti a tutti – gli altri attori principali ossia Juliette
Binoche nella parte di sua figlia Lumir ed Ethan Hawke nella parte del marito
di Lumir. Ovviamente Fabienne, come da copione, è stata assente durante
l’infanzia della figliola (sebbene nelle sue memorie fresche di stampa
l’attrice sostenga il contrario), per la quale è stata ugualmente ingombrante
come pietra di paragone, monito costante, dover essere impossibile. Lumir (che
da ragazzina voleva recitare ma poi si è dedicata alla sceneggiatura) è
sospinta da recriminazioni di vario genere: tra le molte accuse mosse all’ormai
vecchia madre aleggia anche quella di aver “ucciso” almeno moralmente un’altra
attrice della sua epoca, Sarah, che per tutto il film sarà un fantasma
ricorrente, un rimosso occultato, un sacrificio necessario alla gloria di
Fabienne. La Binoche, grande attrice di una generazione in cui il cinema è meno
impattante sull’immaginario collettivo, si presta volentieri a far rifulgere il
narcisismo ontologico della Deneuve, l’originale cui è impossibile sottrarsi,
il modello che muove il sole e le altre stelle e soprattutto tutti quelli che
ha intorno cui in fondo (tralasciando apparenti moine) non importa mai nel film
se di verità o menzogna si tratti, se sia stato talento o fortuna o qualità
superiore o capacità di manipolazione. Quel che meno importa è proprio la
verità evocata dal titolo, tanto che la “riconciliazione” tra madre e figlia
avverrà nel finale attraverso recite e finzioni ma perfettamente funzionanti.
Ethan Hawke è Hank, il marito americano di Lumir, un attore di serie B negli
Usa, magari affascinato dal magnetismo potente di Fabienne ma un po’ più
scettico (del resto fa serie tv che passano anche su youtube) circa gli effetti
taumaturgici o traumatici che questo carisma può causare. In una parte
piccolissima quanto significativa, Hank – che capisce il francese ma non parla
francese e viene sempre tagliato fuori dalle conversazioni – è lo straniero sulla scena europea delle sacrali
dinamiche narrate: se non è il punto di vista di Kore-eda (e non lo è)
certamente il suo personaggio gode di una sana distanza rispetto a ciò che vede
ma che nessun altro vuole o può permettersi. Discorso a parte merita Charlotte
(Clémentine Grenier), la figlia di Lumir e Hank, che a differenza del padre
parla un perfetto francese e che immagina la nonna come una strega buona e
cattiva a un tempo, capace di sortilegi e incantesimi cui volentieri gli adulti
soccombono. Ma è un mondo di “magia” ancora infantile, primaria e ben diversa
dalla magia orchestrata degli adulti…
…Il personaggio interpretato da Catherine
Deneuve è diverso, difficile da collocare: Fabienne è magnetica, irrispettosa,
incapace di ammettere i propri errori, talmente grottesca da risultare
esilarante, capace di far sorridere anche solo con una posa, con uno sguardo
ingannevole, furbesco. Una donna un po’ fata e anche strega, talmente strana da
far credere a sua nipote di saper trasformare le persone in animali, come il
suo ex marito Pierre, che quando non è in forma umana diventa la tartaruga di
famiglia che si chiama, non a caso, Pierre. Un concetto quasi kafkiano, in cui
la metamorfosi assume il carattere proprio del romanzo epocale dello scrittore
praghese, in cui un personaggio si sente incongruente col suo contesto
familiare, talmente discordante da scegliere l’alienazione…
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