martedì 19 novembre 2024

Fuoricampo - Elio Bruno, Domenico Centrone, Joana de Freitas Ginori

gli autori del documentario seguono due ragazzi africani che giocano a calcio, ma non hanno i documenti giusti.

quei ragazzi sono oggetto delle politiche securitarie, burocratiche, poliziesche del governo, ragazzi umiliati e offesi.

davvero una vergogna...

buona (clandestina) visione - Ismaele



 

 

Un documentario firmato dal Collettivo MELKANAA, un'opera corale composta da tredici giovani autori provenienti da diversi ambiti artistici e accademici. La storia è quella di una squadra di calcio composta da rifugiati e richiedenti asilo che partecipa al campionato di terza categoria, ma visto che quasi tutti i giocatori sono privi dei documenti di identità richiesti dalla Federazione per poter concorrere al titolo, ne saranno esclusi. La mancata o ancora scarsa conoscenza della lingua italiana – oltre che la mancata e scarsa conoscenza della lingua inglese da parte degli italiani – rende difficile la comunicazione e aumenta il senso di isolamento e solitudine dei ragazzi. Spesso, fra le loro parole, ricorre il desiderio di incontrare gli amici, di parlare e raccontare a qualcuno la loro storia, il loro passato e il loro desiderio di un futuro migliore. Burocrazia infinita, labirintica e mal organizzata – come ben sanno anche gli italiani – passione per il calcio, sogni e speranze si fondono nelle parole di questi ragazzi un po' spaesati e smarriti fra gli ambienti asettici dei centri di accoglienza. Quello che viene descritto è il tempo sospeso dell'attesa, indefinito, in un non luogo, nel quale si allacciano amicizie occasionali, nella speranza che alcune non finiscano mai.

La squadra della Liberi Nantes Football Club non può concorrere al titolo, ma sogna di potersi fotografare accanto a Totti, il re di Roma, amato e rispettato da tutti. Come forse i componenti di questa squadra non sono e non saranno sempre, nella vita di ogni giorno. Costretti, i più fortunati, a lavoretti occasionali, possono davvero i giovani migranti mettersi in gioco in un paese straniero? 

La squadra è un punto di aggregazione, di forza, da dove prendono forma i sogni e le aspettative di ognuno, che poi dovranno scontrarsi con la realtà. I punti di vista sono molteplici, le storie diverse l'una dall'altra. 

Lo straniero, il diverso, l'immigrato, è tale e può fare paura, può trasformarsi in oggetto (anche di contesa politica) e perdere la sua identità singola e umanità solo fino a quando non lo si guarda davvero in faccia, non lo si ascolta. In fondo il pregio più grande di Fuoricampo è riuscire a mostrare i volti e le parole di questi ragazzi. Persone semplici e normali, che parlano di feste, donne e cucina, accomunati solo dalla giovane età, dalla paura del futuro e dal desiderio di costruire qualcosa. Nei quali chiunque, migrante o italiano, può identificasi, in quanto essere umano e cittadino del mondo.

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lunedì 18 novembre 2024

Giurato Numero 2 - Clint Eastwood

a 94 anni Clint Eastwood gira un altro film.

leggendo qui e là il film è piaciuto molto, anche a me è piaciuto, ma niente di speciale.

Giurato Numero 2 è un'ottima lezione di stile, ma non dice niente di nuovo, tutto è prevedibile, ci sono i buoni e i cattivi, la giustizia in un'aula di tribunale condanna il colpevole ideale, brutto, sporco e cattivo, peccato che il colpevole non sia lui.

ottimi attori, ottima confezione, ma sulla soglia del cinema, all'uscita, ti stai gia dimenticando della nuova opera di Clint Eastwood.

Beato chi non si aspetta nulla, perché non resterà mai deluso - Ismaele




 

 

 

Insomma, una specie di Delitto e Castigo screziato di alcolismo – su cui, per dire, un Woody Allen ci ha ricamato per anni le sue non proprio tarde motivate fortune – viene amalgamato dallo sceneggiatore Jonathan Abrams tra echi spettacolari alla Grisham e sottotrame socio-politiche più affini ai rovelli eastwoodiani.

Prendete l’avvocatessa dell’accusa – Toni Collette in tailleur tiratissimo – candidata al ruolo di procuratore generale che grazie a una leggera politicizzazione della sentenza del processo verrà eletta, ma rimarrà titubante nel riconoscere l’evidente colpevolezza di Justin. Perché è su questo latente senso di colpa individuale, su questa etica pubblica sfuggente in cui bene e male sembrano continuamente confondersi, che Giurato Numero 2 si libra cristallino tra il più classico impianto da thriller processuale e una sofisticata chicca autoriale del più grande vecchio autore della vecchia Hollywood…

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In conclusione Giurato Numero 2 è un film eccellente con un cast in totale stato di grazia guidato da un monumento della Settima Arte che non si stanca di veicolare i messaggi in cui crede attraverso il cinema nonostante le molte primavere sulle spalle. I legal drama sono un genere difficile da realizzare nel 2024, in quanto la loro natura spesso statica ed estremamente verbosa cozza con la frenesia e di una società sempre più iper cinetica. Eppure Clint riesce a stupire rendendo assolutamente godibile anche un’opera del genere. Se questo dovesse essere il suo ultimo film, di sicuro potremmo dire serenamente che avrebbe concluso la sua carriera con una nota altissima.

Ma ogni amante del cinema spera di vedere ancora un altro film. Perchè Clint è Clint.

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Hollywood conosce da sempre due soli modi di regolare i conti: a suon di pistolettate o all’interno di un’aula di tribunale. Vecchi cowboy e brillanti avvocati sono i due volti, le due più consuete manifestazioni, di una giustizia per lo più polverosa, ma efficace. Anime complementari della medesima astrazione che, forse inevitabilmente, convivono anche in quest’ultima creatura di Clint Eastwood. Segno di un cinema che, vissuto davanti e dietro la macchina da presa, prosegue fin dagli albori a fagocitare e rielaborare immaginari. A incarnare valori e significati alti, puntualmente offerti alla rigorosa rilettura poetica del suo autore. Implacabile, eppure immancabilmente lucida…

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venerdì 15 novembre 2024

Longlegs – Oz Perkins

il diavolo fa il suo lavoro, ha trovato un meccanismo implacabile, lui sceglie le vittime, Longlegs, il costruttore di giocattoli, fa consegnare la bambola a immagine della vittima alla famiglia prescelta e condannata.

non ci sono motivi o colpe, chi deve morire morrà.

l'agente Lee Harker arriva a capire la logica del Male, e il suo coinvolgimento nella storia.

il film non è male, anzi...

buona (diabolica) visione - Ismaele


 

 

 

 

…Lo spiegone finale l'ho trovato perfetto perchè benissimo raccontato, evocativo, inquietante e persino necessario visto che di cose che si faceva fatica a mettere in fila ce n'erano parecchie.
E lo scoprire che no, non c'era un "semplice" serial killer e le cose avvenute non potevano essere spiegate in maniera solo razionale e/o scientifica rende il film ancora più bello.
Proprio per il discorso di cui sopra, ovvero quello che Perkins sa raccontare il malefico, il soprannaturale in maniera perfetta. L'atmosfera dei suoi film ha "bisogno" di questa componente per cui c'è sempre un qualcosa più grande di noi, un Male assoluto, che ci rende semplicemente suoi manichini.
E quindi sì, che ci sia stato il "Signore del piano di sotto" l'ho adorato, specie perchè noi non lo vediamo mai (come in tutti gli horror standard) o in "persona" o attraverso i mostri (fisici) che genera, ma soltanto per le azioni che questo ci costringe a compiere…

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…Ma perché lode a Longlegs? Nella sua primogenita estetica che ribattezza l’horror degli anni ’70, il film si impone come traguardo del terrore per la sua discontinuità narrativa apostrofata da un’intenzione estetica spregevole. I toni sono sempre lividi e trasparenti, opachi e sfocati concettualizzando l’importanza dell’aspetto cinematografico di una determinata impresa ereditata da Mario Bava.

La visione è focalizzata sull’eccentricità dei personaggi completamenti asessuati, virtuosismi che non incidono sul senso umano ma li aspirano come entità soprannaturali. Eppure, il tema è quello religioso, la combinazione tra il sacro, la venerazione e la dedizione o – forse – adorazione dell’onnipresente. Uno scambio linguistico che preclude quella paura di essere avvolti dentro le braccia di qualcuno o qualcosa che non possiamo osservare, capire, delineare, decifrare…

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È proprio la sua natura inafferrabile, intangibile e sfocata, a renderlo di difficile decifrazione, accrescendone l’alone di mistero. Dal punto di vista delle definizioni di genere si tratterebbe di un procedural, con l’indagine che riguarda un serial killer, alla maniera di Se7enZodiac e Il silenzio degli innocenti. A quest’ultimo in particolare, è accostabile per finezza compositiva e per come ripropone lo schema detective-assassino in una chiave morbosa. In effetti il legame malignamente simbiotico tra l’agente dell’FBI Lee Harker e il serial serial killer noto solo come Longlegs, ricorda molto quella tra Clarice Starling e Hannibal Lecter ne Il silenzio degli innocenti. E se Maika Monroe interpreta una detective anche più traumatizzata di quella resa celebre da Jodie Foster, Nicolas Cage riesce a non far rimpiangere Anthony Hopkins dando vita a un personaggio altrettanto penetrante e sinistro. Là dove i due film divergono è nell’agone in cui giocano la partita, preferendo il lavoro di Jonathan Demme una chiave psicopatologica per lo scavo sul male e sulle paure, mentre Perkins abbraccia il versante più esoterico, dialogando con il cinema satanico maturo…

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mercoledì 13 novembre 2024

Fango bollente - Vittorio Salerno

uno dei film più violenti che si possono vedere il giro.

la polizia cerca tre giovani davvero cattivi, difficili da trovare, sono violenti come pochi, segno dei tempi.

alla fine è caccia all'uomo, la polizia non può girarsi da un'altra parte.

i tre, finita la giornata di lavoro, sembrano avere lo scopo di lasciare una traccia, a qualsiasi costo.

un'opera davvero inquietante, come poche.

vedere per credere.

buona visione - Ismaele

 

 

QUI si può vedere il film

  

 

Mantiene, nonostante il passar dei lustri, notevole provocatorietà cinematografica, scaturente paradossalmente dallo stesso crudo realismo spiccio che inficia tante pellicole del periodo. L'intuizione di Salerno jr. e Gastaldi è sottrarre la cifra stilistica della violenza reiterata al genere poliziottesco per innescarla in una rozza ma fruttuosa metafora metropolitana, che cita l'alienazione ferreriana e il grottesco di Petri. Non è un caso sia il ruolo più aderente del "ciclo" italiano di Dallesandro, capace di duettar con l'understatement di Salerno.

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Una domanda preventiva sul metodo d’analisi del film: si può condannare la dilagante violenza metropolitana dei ferrigni anni ‘70 girando un film traboccante di atrocità sadiche e saturo di violenza disturbante? Questa insincerità di fondo invalida, nel merito, la forza di denuncia civile e il vigore accusatorio della pellicola, che per il resto convince per l’interpretazione intensa ma allo stesso tempo meditativa di Enrico Maria Salerno e Joe Dallesandro, per una scrittura sbrigativa ma efficace, per un ritmo sostenuto e per la capacità di cogliere il clima culturale di un'epoca.

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Un noir crudo e violento, abbastanza avvincente, che per stile e struttura strizza l'occhio al cinema poliziottesco di genere tanto in voga in quegli anni. Ma soprattutto un film capace di indurci a più di una riflessione su quelle che sono le nevrosi, le ansie, le paranoie che si annidano - pronte ad esplodere come "Fango bollente" - all'interno dei nostri tessuti sociali.  La monotonia, l'ordinaria routine, le piccole e grandi frustrazioni provenienti da ambienti lavorativi; il cinismo, l'indifferenza sempre più preponderante nei rapporti affettivi, le ambizioni sfrenate possono, con il tempo, diventare logoranti e mandare in tilt i nostri equilibri arrivando a 'produrre' dei mostri.

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Cultissimo, un film dimenticato ma da riscoprire. Spietato, attualissimo nei temi si muove su binari di una violenza che ad un primo impatto può sembrare gratuita ma che nel suo grembo porta il male, che si materializza giorno per giorno, nella noia di una grande città che nei suoi rumori, nelle sue nevrosi, nei suoi giorni sempre uguali porta frustrazione. Il male non si annida solo nelle persone disperate, spesso si maschera in valvola di sfogo e dimostra la fragilità dell'essere umano. Grandi i protagonisti su cui spicca un Dallesandro e un E.Maria Salerno difficili da dimenticare.
Un rude poliziottesco ma anche un film attualissimo sul degrado della società che ora, come allora, provocava e provoca alienazione.
Cult!

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domenica 10 novembre 2024

Anora - Sean Baker

un film a cento all'ora, che ricorda un po' lo stile dei fratelli Safdie.

Palma d’Oro a Cannes, nel 2024.

Ani è una lavoratrice del sesso, come tante, sempre di corsa, e poi incontra il suo principe azzurro, sex ans drugs piacciono a entrambi, solo che lui è un tonto, un ricco tonto, e pauroso, della madre sopratutto.

i due si sposano, e da lì parte la missione della squadra di recupero di Vanya.

ottimi anche i componenti della squadra, da segnalare Jurij Borisov (Scompartimento n.6).

Ani (Mikey Madison) è una forza della natura, sex worker, ma non solo.

un film che non delude, promesso.

buona (sessuale) visione - Ismaele


 

 

il montaggio stacca per inquadrare Anora che si muove sicura tra le sale dell'HQ: è un processo di individuazione della macchina da presa che, attratta dalla protagonista, la lascerà raramente nel prosieguo del film. Quest'atto è una lunga corsa a perdifiato, stilizzata come uno spring-break di sesso ed eccessi, che esplode tra le luci dei night club, le enormi vetrate della magione dei Zacharov, i Led, i casinò e le suite degli alberghi di Las Vegas, i luoghi dove Anora e Vanya si frequentano e infine si sposano. Al vissero felici e contenti, subentrano dei nuovi personaggi, ossia Toros, il fixer della famiglia Zacharov, il quale, occupato con un battesimo, invia Garnick e il giovane Igor a verificare se Ivan abbia sposato una prostituta. È il turning point che amplia l'orizzonte, precipitando la fiaba nella realtà e spostando la forma della commedia romantica verso le traiettorie della screwball. Inizia infatti un lunghissimo ed estenuante inseguimento da parte di Anora, costretta ad aiutare Toros, Garnick (a cui ha rotto il naso) e Igor a ritrovare Ivan, prima dell'arrivo dei suoi genitori. Baker realizza in questa seconda parte il suo "Tutto in una notte" (Landis, 1985) o il suo "Qualcosa di travolgente" (Demme, 1986), seguendo questo manipolo di personaggi barcamenarsi da Coney Island a Brooklyn per ritrovare il viziato e immaturo rampollo dei Zacharov. Al contrario dei modelli, Baker lavora in chiave anticlimatica mettendo in scena gag slapstick e un umorismo isterico per alleggerire una situazione che ha le sembianze del sequestro di persona e che, di fatto, ritorna sui passi e sui luoghi vissuti da Ani e Ivan per cancellarne l'aura romantica. Ai campi lunghi (e agli zoom-out), si alternano i close-up che posseggono l'intensità di quelli di Jonathan Demme e rilevano la presenza di un volto umano nello spazio disumanizzato della contemporaneità. In tal senso è questa l'impresa di Baker, azzerare gli psicologismi ed esplorare un personaggio - di cui fino alla fine sapremo invero poco - soltanto tramite la sua posizione nell'inquadratura, la sua vicinanza all'obiettivo o il suo decentramento in riprese sempre più larghe di un mondo sempre più vasto…

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In Vania non solo si concentra tutto il vero grottesco del film, un grottesco davvero figlio della bruttezza umana, quello del grande capitalismo visto da vicino nella sua intimità familiare, ma allo stesso tempo un certo tipo di adolescente contemporaneo, incapace di maturità e afflitto da infantilismo. All’opposto, il proletario Igor, quasi senza accorgersene, riesce ad accogliere con un abbraccio un grande pianto liberatorio, a sobbarcarsi il dolore e la rabbia di Anora. E a non dare troppa importanza al sesso.

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L'eterogeneità delle ispirazioni di Baker si traduce in una profonda versatilità stilistica e narrativa, come dimostra la struttura in tre atti del film: se la prima parte è una rilettura contemporanea della rom-com, tra Cenerentola e Pretty Woman, la seconda parte è decisamente più frenetica, una one crazy night nel cuore di New York in sospeso tra Fuori Orario di Martin Scorsese e il cinema dei fratelli Safdie, mentre l'ultimo atto riporta lo spettatore bruscamente a terra dopo averlo prima fatto volare con la fantasia e poi portato su un ottovolante, regalando un finale tra i più struggenti visti al cinema negli ultimi anni, in cui Baker lega le molte anime del film insieme con incredibile controllo e maestria.

 

Ne emerge prepotentemente il tema principale di Anora e di tutto il Cinema di Baker, ovvero il contrasto tra il sogno di una vita migliore, di una scorciatoia per il paradiso e il brusco risveglio in una realtà fatta di ostacoli e sacrifici.

 

Questo dualismo è ben espresso nella riluttanza dei due improbabili sposi nell'usare il loro nome di nascita.

 

Anora ripudia un nome che svela le proprie origini di migrante come una zavorra che la trascina nella mediocrità, preferendo il più solare Ani, mentre Vanya (Mark Eidelstein) rifiuta il suo nome in quanto scelto da dei genitori dalla quale influenza vuole liberarsi, scegliendo di farsi chiamare Ivan come a illudersi di avere un'identità che non sia legata a doppio filo a quel nido dorato in cui si richiude per far festa e giocare ai videogame. 

L'unico personaggio a non vivere di questa ambiguità è il "gorilla" Igor (un fantastico Jurij Borisov, che aveva folgorato Baker in Scompartimento n. 6), dal nome semplice, che significa "guerriero", e che Ani trova invece orribile; la dinamica tra i due personaggi è tra le più interessanti del film e crea momenti di solidarietà tra i più potenti messi in scena da Baker.

 

Il casting di Anora è perfetto e i personaggi che ruotano attorno alla protagonista sono tutti vividi e ben caratterizzati: tra questi spicca una prova da show stealer del fedelissimo caratterista del Cinema di Baker Karren Karagulian, qui finalmente in una parte importante ed esilarante…

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venerdì 8 novembre 2024

Fantasma d’amore – Dino Risi

Marcello Mastroianni ormai un uomo affermato, incontra una donna che era stata il suo grande amore.

lei (Romy Schneider) è vecchia e malata, chiede l'elemosina, lui si ricorda, e si commuove.

lei è un fantasma, è l'unica spiegazione.

un film d'amore, amaro e tristissimo.

buona (fantasmatica) visione - Ismaele

 

 

QUI si può vedere il film completo


 

Il primo amore è difficile da dimenticare.Parafrasando un titolo dello stesso Risi si può dire che questo film è basato sulla speranza di ritornare a vivere quella passione,quell'amore così intenso che è sempre stato sognato da ognuno di noi.I primo amore,quello che ti segna per tutta la vita.E Risi per raccontare questa bramosia usa termini non ovvi,costruisce una sorta di gotico padano illuminato fiocamente dalla fotografia di Tonino Delli Colli ,giusto per dare colore all'atavica, sempre presente nebbia che avvolge costantemente i luoghi in cui è ambientato questo film.L'atmosfera che viene creata è un atmosfera strana,silenziosa di una freddezza pari quasi al mistero che viene celato fin quasi alla fine.Il maturo commercialista di Pavia che rivede il suo primo amore prima sfigurato dalla vecchiaia e dalla malattia,poi ritrovandola nell'antico splendore,vede il suo mondo di certezze sgretolarsi progressivamente ,arriva a confondere realtà con sogno e Risi è ben attento a non spiegare troppo quello che si vede.Il dato di fatto esiste(la donna che lui rivede è morta tre anni prima) ma il mondo vetusto e spento in cui lui vive assume una dimensione quasi metafisica,sicuramente antirealistica.E ci si ferma qui.A parte gli indubbi meriti formali conferiti da una fotografia di gran pregio e da una regia attenta alle sfumature c'è da sottolineare la grande prova di Mastroianni e delle Schneider in due parti difficili,da modulare,in cui bisogna lavorare di cesello per non risultare poco credibili....

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Una tenebrosa e silente Pavia invernale d’antan fa da cornice all'allora scommessa cinematografica di un Risi in pieno smalto che, avvalendosi dell’omonimo romanzo di Mino Milani, abbraccia noir, sentimentale e storia di fantasmi... d’amore! Per farlo attinge al “gigione” Mastroianni (magistrale come sempre) e al volto tormentato della Schneider (a un passo dalla morte). Un capolavoro allora - e forse anche oggi - non capito, che merita di essere rivalutato o scoperto.

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