Alberto Sordi è sempre un gigante, che sia vedovo, scapolo o sposato non cambia la bravura di Alberto Sordi.
questa volta si innamora di una violoncellista, nel "pacchetto" sono comprese la suocera e la cognata, oltre che il complesso musicale di musica da camera della moglie.
la musica è un po' pallosa per il marito, e la suocera e la cognata sono odiose, povero marito.
un film da non perdere, vedere per credere.
buona (coniugale) visione - Ismaele
…Afflitto anche dalle
difficoltà economiche dei suoi parenti, Alberto è sull'orlo del baratro, quando
una vedova benestante, sembra prendere a cuore le sue sorti finanziarie,non del
tutto "disinteressatamente".Tuttavia mentre sta per partire in sua
"compagnia",la moglie ,mangiata la foglia,s'inventa un malore
inesistente,mandando all'aria il "progetto" non del tutto ortodosso
di Alberto, che dunque, sarà costretto a cambiare lavoro e a diventare
rappresentante di dolciumi,dopo un divertentissimo scontro in ospedale con
consorte e suocera.
Alberto Sordi è stato uno dei migliori attori di tutti i
tempi,soprattutto il più versatile,unico il suo istrionismo, che gli consentiva
di interpretare con successo qualsiasi personaggio,coprendo una gamma immensa
di tipologie umane e sociali.Attore drammatico,brillante, ma soprattutto comico
e in questa veste, ha prodotto le cose migliori. Questo film, gli consentì
di gigioneggiare alla grande, come solo lui sapeva e riusciva a fare.
Splendida commedia. Veloce, con dinamiche chiare, lascia a pensare
parecchio sull’istituto del matrimonio. Sordi è in una delle sue vette; inoltre
cura soggetto e sceneggiatura, e lo fa assieme a grandi del genere, come
Sonego, Maccari e Scola e ai due registi, gente di livello come Puccini e
soprattutto Loy. Da un florilegio di questo tipo facilmente poteva nascere un
prodotto molto ben riuscito, come questo: non c’è una battuta fuori posto.
Il film ha il merito di far emergere bene l’insopportabilità di certe
donne: invadenti, petulanti, capricciose, arroganti. Fanno di tutto, pur di
ottenere ciò che vogliono: la protagonista si finge malata sempre
all’occorrenza, per dar fastidio al marito e intralciarne i piani, quando non
collimano con i suoi.
Il matrimonio come gabbia: un tema pirandelliano, qua ripercorso con
più brio ma non minore autenticità…
un film sorprendente, sembra un film a episodi, in realtà è una storia unica, con i quattro disperati e un'ultima parte sorprendente e commovente.
appare anche Tomas Milian, nel ruolo di un cattivissimo.
non perdetevi questo film, sceneggiato anche da Ennio De Concini, se mai capitasse, per sbaglio. in qualche canale tv.
buona (maschile) visione - Ismaele
…Fulci
segue le orme di Sam Peckinpah e dei suoi western rivoluzionari ed anarchici:
addio antiche faide tipicamente a stelle e strisce tra indiani e cowboy; basta
duelli frontali a mezzogiorno in punto, baciati dal sole a picco e coperti
dalla polvere e dal sudore; basta lotte di liberazione in favore del popolo
messicano e alla loro causa rivoluzionaria; addio trielli e piani messicani
tesi, adesso si dà voce agli emarginati, alle figure che da sempre popolano il
sottobosco western ma che non hanno mai avuto ruoli alla ribalta. Il protagonista,
Stubby, è l’antieroe guascone e romantico, che da perfetto baro bugiardo
compie, attraverso l’arco narrativo del film, il suo viaggio interiore fino a
trasformarsi in un eroe atipico, un “cavaliere pallido”, un giustiziere
solitario dalla morale ambigua che prende il sopravvento sull’antagonista
effettivo della pellicola, Chaco, caratterizzato da Milian come una sorta di
rockstar maledetta dotata di un fascino perverso e magnetico tanto da rubare la
scena al personaggio di Stubby/ Testi, almeno finché i due compaiono insieme.
La sceneggiatura fu scritta da Ennio De Concini, che si
ispirò ad una serie di racconti del 1868 pubblicati da Francis Brett Harte con
il titolo di The luck of roaring camp.
…La scena per me più bella non è però legata a torture, spari
o morte, ma al loro opposto. La nascita di Lucky, che la prostituta Bunny porta
in grembo, è un momento emozionante, il momento che rende il film morte e vita
insieme. Il villaggio di montagna, abitato solo da uomini in cerca d'oro con
più di un problema con la giustizia alle spalle, si stringe attorno al parto, i
freddi e disillusi minatori ritrovano la loro umanità e un sincero affetto
verso il neonato che li porterà ad adottarlo. Un western che fonde così bene tanti aspetti,
sfumature e contorni non può passare inosservato, né essere bollato come
prodotto di scarso valore. Anzi, è un film da scoprire e custodire. Non a caso
inserito nella retrospettiva sul western all'italiana tenutasi a Venezia.
Imperfetto, erratico, indeciso; eppure il film possiede una sua
indubbia malia. A causa, forse, di quelle languide melodie folk? Per la simpatia
che ispirano i personaggi, tutti emarginati o diseredati o freak? Oppure per i
temi del viaggio e della perdita che soffondono la storia d'una tenera
malinconia? Fulci non risparmia scene forti, ma tutto è ammorbidito, come se lo
si osservasse dalla lontananza del ricordo. Adeguati tutti gli attori; un
plauso alle presunte seconde linee dei Lastretti e Corazzari, volti degni del
western maggiore.
Un giocatore d'azzardo, una prostituta, un alcolista, un nero
medium sono in prigione e sfuggono allo sterminio dell'intera cittadina. Inizia
poi il viaggio dei quattro, lungo il quale incontrano Chaco (Milian), un
messicano apparentemente amico. Il film è uno spaghetti western brutale e
psichedelico (musiche simil-primi Pink Floyd) e deve molto al carismatico
Milian (non doppiato), che interpreta un messicano sadico fatto di pejote.
Nella versione censurata sono tagliati lo stupro e lo sceriffo scuoiato vivo.
Un piccolo diamante grezzo.
…Il West di Lucio Fulci
è un west malinconico ma sognante, delirante quanto dolce. Allo stesso tempo sa
essere incantevole come un sogno, come un altrove che tutti vorremmo, ma sa
anche essere spietato e triste come un’inferno dal quale scappare. Anche la colonna
sonora e le sue canzoni anacronistiche, incidono sul film come in poche altre
occasioni, e sanno creargli quel lirismo difficile da raggiungere, senza però
scadere nella retorica di una grammatica ricattatrice. Come in “Pat Garret and
Billy the Kid” del Maestro Peckinpah, omaggiato da Fulci nella iperrealistica
sparatoria iniziale a Salt Flat, anche ne “I Quattro dell’Apocalisse” ci
troviamo in un west malinconico, e come in tutte le malinconie c’è un qualcosa
di sensuale che richiama l’abbandono dei sensi, i piaceri dell’alcova più
intima e segreta. Quei sogni ad occhi aperti, dell’adolescenza più sognatrice,
dove le passioni e le pulsioni sessuali sono irrefrenabili e ci si sente sempre
come ubriachi buttati sotto il sole di luglio. C’è un piacere, un orgasmo
silenzioso e lento, che pervade tutte le scene, tutte le inquadrature, grazie
alla sapiente fotografia e alle intuizioni registiche di Fulci stesso. “I Quattro dell’Apocalisse” è un sogno che vira
nell’incubo più volte, ma preserva sempre lo status di altrove onirico in cui
tutto e possibile, e in cui ogni sensazione è provabile.
Molto buono: Lucio Fulci realizza un western in cui il Mito dell'West
(classico o post-leoniano che sia) viene smitizzato, a partire dai personaggi.
I/la quattro dell'Apocalisse indicati/a dal titolo, infatti, non
possono essere considerati eroi/na, e l'omissione del termine
"cavalieri" sembra quasi evidenziare tale aspetto: infatti i/la
protagonisti/a di questa opera sono un ubriacone, un nero mezzo pazzo, una
prostituta incinta e un baro appena scarcerati/a.
A loro si oppone, per carisma e ferocia, il personaggio di Chaco, un
personaggio tanto carismatico quanto sadico: in alcuni momenti sembra quasi una
sorta di figura messianica (la scena in cui droga i/la protagonisti/a ricorda,
almeno al sottoscritto, una sorta di "eucarestia" blasfema,
accentuata dai movimenti 'manuali' della macchina), in altri rivela una
spietatezza quasi inumana (la scena in cui si mostra il risultato della strage
della carovana cristiana incontrata precedentemente dal quartetto è spiazzante,
specialmente per la presenza di vittime infantili), ma alla fine, di fronte
all'approssimarsi della Morte, è la codardia e la bassezza che prendono il
sopravvento, ridimensionando notevolmente quello che può essere considerato
l'unico personaggio davvero "mitico" (in quanto è l'unico che segue
davvero i codici dettati dal Genere) del film.
Addio a Giorgio Ferrari: nel suo "Vicoletto" tanti film indimenticabili - Massimiliano Rais
Addio a
Giorgio Ferrari che amava
il cinema e le sale consacrate alla settima arte. Aveva 67 anni, era nato a
Cagliari. Ha contribuito allo sviluppo della cultura cinematografica nella
Città del Sole.
Il suo
avamposto è stato "Il Vicoletto”, la piccola sala in via San Giacomo, nel quartiere di
Villanova, lo spazio destinato alle pellicole di qualità, nel
solco di scelte originali, spesso alternative a quelle degli spazi più grandi.
Prime
visioni e retrospettive, Il Vicoletto, nato alla fine degli anni Settanta
del secolo scorso, ha sempre regalato belle sorprese agli spettatori. Il critico
cinematografico Gianni Olla, custode di tante memorie in celluloide, in un
articolo pubblicato sulla rivista Cinemecum, ricorda che «oltre alla sempre
presente Cineteca sarda, garante non solo dei dibattiti ma anche di una qualità
filmica basata sui classici della Settima arte, nacquero piccoli cineclub
“resistenti” come Il glorioso Vicoletto di Giorgio Ferrari che si appoggiava al
catalogo della San Paolo o alla normale distribuzione commerciale».
Ferrari era
il grande cerimoniere. Nel suo regno si muoveva con passo felpato, signorilità
e aplomb. Impegno totalizzante: dalla consegna delle tessere, secondo lo
spirito del cineclub, alla gestione delle apparecchiature per la proiezione
sino al garbato ed elegante saluto agli spettatori al termine del film.
Lo animava
il grande amore nei confronti del cinema, passione che ha arricchito la sua
vita e che in tempi più recenti lo ha portato a fondare il Greenwich
d’essai in via Sassari, che continua ad essere, in un ambito che ha subito
negli ultimi anni vorticosi cambiamenti, un punto di riferimento per tantissimi
cinefili in linea con l’esperienza del Vicoletto.
Giorgio
Ferrari, che ha ricevuto in dono una voce molto adatta per la
recitazione, è stato anche attore teatrale. È ancora vivo il
ricordo della sua Mandragola portata in palcoscenico, nei primi anni
Ottanta, con spettacoli destinati agli studenti. Schivo, per lui era
meglio costruire che apparire. Non ci sono sue foto sul web. Nell'immagine
pubblicata sui social dal figlio Andrea, musicista, leader del gruppo
Carovana Folk, si mostra sorridente.
Non resta
che ringraziarlo per l'impegno, per le scelte felici e per i
bellissimi film visti, anche più
volte per afferrarne tutti i significati, nel grande schermo suo Vicoletto.
Elio Germano e Toni Servillo (bravissimi) sono i due protagonisti del film, e tutti gli attori e attrici sono in ottima forma.
la storia è quella di Matteo Messina Denaro, che vive come un sorcio, perdendo potere e prestigio.
il boss si fida di Catello, con la morte sempre vicina.
i due sono personaggi tragici, senza futuro.
sembra una storia del passato, è solo dell'altroieri.
pizzini e puzzle sono il lavoro e la passione e il tormento di Matteo Messina Denaro.
un film cupo, oscuro, nel quale i due protagonisti hanno un rapporto quasi come quello di un padre con un figlio.
e poi c'è la polizia, e i servizi segreti, che proteggono il boss, nel film come nella realtà.
un film che riesce a coinvolgere, senza deludere.
buona (mafiosa) visione - Ismaele
…Iddu è
un’opera che, pur non priva di difetti, riesce a distinguersi grazie alla
straordinaria qualità delle interpretazioni e a una regia coraggiosa, capace di
mescolare realtà e finzione, creando una riflessione profonda sulla condizione
umana e sulle maschere che ognuno indossa. Nonostante le sue criticità, il film
merita attenzione per l’originalità del suo approccio e per la capacità di
offrire un ritratto inedito di una delle figure più enigmatiche e controverse
della storia contemporanea italiana.
…Fatto sta
che nella visione di Grassadonia e Piazza, la Sicilia è una terra in cui la
linea genealogica è impazzita, i padri hanno abdicato e i figli hanno smarrito
la rotta. La trasmissione è stata spezzata
o meglio è stata inquinata dalle logiche malate del sopruso e del potere,
quelle della mafia e delle istituzioni oscure e corrotte. Come sempre la loro
scrittura rimodella il dato di realtà, la storia, con la forza dell’invenzione.
Ma se in Sicilian
Ghost Story la
chiave fantastica era una specie di rivolta contro l’orrore della cronaca, qui
la deformazione romanzesca piega verso il
grottesco, in un’ironia che si fa sarcasmo e che disegna una galleria di
maschere ottuse e inquietanti. Però non è un semplice ritorno a registri e
schemi di certo cinema politico italiano. Perché lo sguardo di Grassadonia e
Piazza ha un’originalità autentica, sa costruire la tensione nei momenti
dell’azione, ma soprattutto gioca su una molteplicità di prospettive: un
realismo di fondo che si coniuga a una specie di astrazione nella gestione
degli spazi, del décor, dei costumi e dei colori, che si stratifica di simboli,
di rimandi a un orizzonte mitico, ancestrale. Certo, a differenza del film
precedente, non sembra esserci molto margine di sovversione. E qualcosa, ogni tanto, sembra andare
verso l’eccesso, sfuggire dalle mani. Eppure in Iddu c’è la libertà di una rilettura, di
un’interpretazione, di un pensiero che può rischiare anche il tradimento. Ma
che è soprattutto un sano atto di coraggio.
…Se i primi minuti sono
quelli fondanti rispetto a ciò che viene dopo, non c’è dubbio che “Iddu” sia un
film di morte e di morti. Non solo perchè la storia si apre all’interno di un
casolare dove Messina Denaro assiste agli ultimi attimi di vita del genitore
per poi sostituirlo scavandosi da solo la propria tomba con un’esistenza che
tale non è. Lo stesso Catello (interpretato in maniera superba da Toni
Servillo), interlocutore privilegiato di Messina Denaro, attraverso un rapporto
epistolare orchestrato dai servizi segreti per scovare il famoso latitante, ne
è una delle sue tante versioni: magari più vitale di altre per il desiderio di
non abdicare al sogno della vita - quella di costruire un albergo che gli
consenta di pagare i suoi debiti e assicurare ai familiari una vita tranquilla
- ma comunque mortifera (“sei un ex in tutto” gli ricorda la moglie in maniera
sprezzante) per i fallimenti che lo hanno portato prima in prigione e poi a
tradire se stesso consegnandosi al nemico. Tombale - alla pari dell’abitazione
in cui si rifugia Messina Denaro - è l’appartamento dove Catello ritrova la
famiglia dopo essere uscito di prigione e ancora è la morte che invoca quando
sostiene che per riuscire a convincere il boss a eleggerlo a interlocutore
privilegiato si dovrà evocare dall’oltretomba la figura del padre a cui
peraltro lui stesso cercherà di sovrapporsi nelle parole rivolte al potente
latitante…
Film di Zampa che sa di neorealismo (piuttosto ovvio, visto che
si è nel 1947), si regge soprattutto sulla grande professionalità di Fabrizi e
sulla linearità della storia, che miscela dramma e commedia. Forse eccessiva la
scena del tedesco e dell'americano che fraternizzano, specie pensando al
"dopo". Un film che meriterebbe di essere anche proiettato nelle
scuole per capire il clima di allora. Di puro mestiere le interpretazioni degli
altri attori. Valido.
A metà tra neorealismo e commedia, il film di Luigi Zampa
rapresenta un interessante terza via nel cinema italiano del dopoguerra. Anche
se gli aspetti più crudi e violenti del conflitto non mancano, dalle
rappresaglie fino alla paura di essere cacciati dal proprio paese, le vicende
di una famiglia di contadini umbri (con il pater familias Aldo Fabrizi che
cerca di barcamenarsi tra una parvenza di normalità e la necessità di difendere
i propri cari) si intrecciano con quelle di due soldati americani a cui danno
ospitalità. La risalita dei tedeschi, in fuga ma ancora pronti a vendicare il
collaborazionismo verso gli Alleati, cambierà le carte in tavola e stravolgerà
la vita di tutti. La lunga parte centrale, con il soldato tedesco ed il nero
americano che fraternizzano, complice una sonora sbronza, stempera i toni
drammatici di un film che comunque non si esime dal raccontare tutte le
storture e le atrocità dell'ultimo conflitto mondiale.
Aldo Fabrizi negli anni '40 era il piu' bravo attore italiano
in circolazione. I migliori registi dell'epoca lo sapevano e lo scritturavano
per i loro Capolavori (Roma Citta' Aperta, Mio figlio professore, Guardie e
Ladri...). Qualunque interpretazione facesse, lasciava un segno indelebile:
poteva passare dalla scenetta comica con un S.S. nazista ubriaco, ad immolarsi
stoicamente per salvare un soldato nemico redento, e risultare credibile, in
una manciata di minuti. Nel film neorealista di Luigi Zampa del 1946, insieme
ad un'altra grande attrice del passato Ave Ninchi, ci fa commuovere e ci fa
sorridere anche quando "vivere in pace", in tempo di guerra,
risultava davvero difficile per chiunque, anche a chi si e' sempre fatto gli
affari propri... Da vedere assolutamente.
E'
un film per nulla datato che ancora oggi risulta bello, toccante, poetico e
commovente. Fabrizi, nel ruolo del protagonista, è davvero straordinario e dà
vita a un personaggio ricco di sfaccettature, in grado di passare dalle
tonalità della commedia a quelle del dramma. Zampa, infine, dirige con
maestria, poesia e ispirazione.
un gruppo di evasori fiscali diventa una banda contro l'agenzia delle entrate
il direttore dell'ufficio è Ugo Tognazzi, che appare poco.
la banda, un po' come ne I soliti ignoti, cerca di riprendersi i soldi "ingiustamente" versati all'Ufficio delle Imposte.
la lotta fra gli evasori e l'amministrazione è spesso divertente,
buona (evasiva) visione - Ismaele
Michele
Lupo sa sempre come si fa per mantenere alto il ritmo di un film. In questo
ripropone il tema del furto tecnologico organizzato da ladri improvvisati ma
ingegnosi e lo fa senza grande originalità ma con onesto divertimento. La parte
sul western che sta tramontando e su Sartana che fa le cadute... su un noto
materasso per una pubblicità è divertente ma anche amara. E Pisacane, vecchio
ma sempre bravo, è quasi commovente.
Purtroppo
Ugo Tognazzi, nonostante l'ottima performance e il suo gustosissimo
personaggio, appare davvero troppo poco (circa 20 minuti). Il film comunque è
un ibrido piuttosto riuscito tra giallo e commedia, con spunti davvero
divertenti ed interessanti. Il cast è ottimo: Gastone Moschin e Franco Fabrizi
primeggiano, mentre inferiori al loro standard appaiono invece Leroy e Stander.
Alla fine il film non è malaccio, anche tenuto conto del gustoso finale.
…Concludo dicendo che si tratta di un film riuscito, a cui non
mancano le trovate comiche ed originali.
Provvisto inoltre di una trama ben costruita che non annoia
mai e di attori bravi nell'aver saputo interpretare i loro personaggi.
A parer mio merita quindi di essere rivalutato, sebbene sia
cosciente del fatto che è difficile riuscirci con dei film che hanno raccolto
in prevalenza giudizi negativi. Ma un'opportunità gli va senz'altro data perchè
riesce ad intrattenere in maniera intelligente e soprattutto originale. Insomma
è in possesso di quelle qualità che gli permettono di farsi rispettare nel
genere di cui fa parte. Lo consiglio.
Qui Lupo cerca di salire la china per passare ad un cinema di
serie A deciso, ci riesce in parte, anche avvalendosi di una partecipazione
straordinaria e ben caratterizzata di Tognazzi, Sceneggia lui steso in coppia
con Sergio Donati, nome altilenante ma non male del nostro cinema. La traccia
sarebbe forte e calzante, ma sono troppe le macchiette dove si disperde il
gusto del racconto, il personaggio di Tognazzi è la chiave di volta, ma viene
sfruttato fino ad un certo punto. La trovata gialla del colpo avrebbe dato più
risultati se si fosse inserita e montata più intelligentemente. Un cast di
rispetto e ben impiegato fa il giusto coro.