mercoledì 6 novembre 2024

Il rossetto – Damiano Damiani

Pietro Germi sembra adottare lo stile di Simenon, sembra il commissario Maigret.

la testimone chiave dell'omicidio è una ragazzina di 14 anni, affidabile ma non troppo, tocca al commissario riuscire a capire cosa è successo e chi è stato l'assassino.

opera prima di Damiano Damiani.

buona visione - Ismaele

 

 

QUI si può vedere il film completo, su Raiplay

 

 

Ottimo esordio di Damiani, che dà vita ad un finto-giallo, in cui ad interessare non è tanto la scoperta del colpevole (abbastanza prevedibile) quanto lo spaccato dell'Italia dell'epoca, che viene dipinta come ipocrita e perbenista, nonché luogo in cui cominciava ad insinuarsi sempre più prepotentemente il dominio del "dio denaro". Semplice, asciutto e senza fronzoli, grazie anche alla sceneggiatura di Zavattini. Bravi gli attori ed ancora una volta bella la prova di Germi nel ruolo di commissario. Piccolo film che merita di essere riscoperto.

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Ottimo. Non un giallo nel classico stile "chi è stato", bensì "come lo incastro". Germi malinconico e ruvido è sempre fantastico, anche se già visto. Bene anche tutto il cast. Le morbosità e i moralismi che ruotano intorno alla vicenda sono invecchiati (per fortuna) ma restano come credibile documento d'epoca, da conoscere assolutamente. Affascinante bianco e nero per un film lontano dai ricchi e corrotti palazzi antichi di Un maledetto imbroglio, che mostra invece squarci di una Roma periferica e pasoliniana, piccolo (ma piccolo) borghese.

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Damiani esordisce nel lungometraggio con questo bel “giallo sociologico”, scritto con sapienza da lui stesso con Zavattini, e diretto con piglio sicuro e diritto all’obiettivo. Pur scegliendo un veicolo popolare, l’intento del regista è quello di far passare una critica alla società italiana del tempo e alla mentalità borghese che la domina(va?). Ponendosi nella scia, seppure con mire meno metaforiche, del Germi (che infatti interpreta anche qui il commissario di polizia) di “Un maledetto imbroglio”, tratto da Gadda, ed occhieggiando a SimenonDamiani mette l’accento sulla disgregazione della famiglia cittadina, sul sempiterno impulso dato dal denaro alle azioni umane, sulla necessità borghese di salvaguardare le apparenze a discapito della verità. Un film più coraggioso di quanto forse poté sembrare all’epoca; un sassolino gettato nello stagno dell’Italia democristiana che al cinema soffocava nella bambagia della censura il dissenso, preso invece a scelbiane manganellate sulle piazze.

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lunedì 4 novembre 2024

No il caso è felicemente risolto – Vittorio Salerno

l'assassino (Riccardo Cucciolla) di una prostituta denuncia un testimone (Enzo Cerusico) dell'assassinio e la polizia crede all'assassino.

la storia è originale e gli attori sono bravissimi, il professore assassino e l'impiegato testimone sono convincenti

un gioiellino da non perdere.

buona visione - Ismaele

 

 

 

QUI  si può vedere il film completo

 

 

Letta la trama questo film mi ha parecchio intrigato,sembra una riproposizione di un classico spunto hitchcockiano e la prima parte è sicuramente efficace a partire dalla lunga ed efferata sequenza dell'omicidio con annessa fuga dell'innocente testimone.Poi quando il gioco tra i due personaggi si fa chiaro e si conoscono in un lungo drammatico confronto la tensione cala irrimediabilmete e si imboccano i binari della prevedibilita'.il testimone va dalla polizia e subisce un incubo kafkiano ritrovandosi condannato a 24 anni di carcere....ma l'assassino,un professore,ha la bella idea di suicidarsi lasciando una confessione piena salvando capra e cavoli.Non nascondo che il finale non mi è piaciuto per niente,è frettoloso tirato via e stupiscono anche altri particolari sull'indagine che è abbastanza maccheronica e sul ruolo di Enrico Maria Salerno(fratello del regista)un po'fumoso e mal sfruttato.....bravo invece l'uomo qualunque Cerusico.

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Il regista (alla sua prima opera in solitaria, dopo aver co-diretto nel 1965 insieme ad Ernesto Gastaldi “Libido”) lavora con intelligenza e vivacità sulla sceneggiatura articolata e riuscita di Augusto Finocchi (un solo titolo di peso nel suo curriculum ma imprescindibile come “La mala ordina”), azzecca un paio di momenti di tensione veramente notevoli (il già citato incipit e un lungo inseguimento per le strade della città con Fabio che tenta in ogni modo di non perdere di vista il professore), evita, quasi sempre, sia la facile caricatura sia che il suo film si trasformi nella consueta denuncia sul malfunzionamento della giustizia, a costo anche di un finale eccessivamente buonista, rattoppato e sbrigativo (ma l’ultima spassosa battuta di Fabio che, al compagno di cella che gli chiede se domenica andrà di nuovo a pescare risponde: “Io a pesca’ non ce vado più manco coi carabinieri, ma la volete capi’ si o no?” si fa perdonare una chiusa accomodante forse non all’altezza che, va detto, è stata imposta dalla produzione, il film infatti avrebbe dovuto concludersi in modo molto più cattivo con il dialogo fra il giornalista ormai consapevole e il professore fuori dal Tribunale, dopo la condanna di Fabio, come ha dichiarato in seguito lo stesso regista), non rinuncia ad alcune pungenti, crudeli ma veritiere annotazioni sociali, sia pure in una contrapposizione un tantino semplicistica e risaputa ma sincera, privilegia saggiamente toni brillanti e divertiti (a partire dal titolo) a smorzare con brio l’amaro dramma della vicenda raccontata per un film classificabile più come salace e graffiante commedia di costume che non come arrabbiata e rigorosa opera di impegno civile con velenose accuse incorporate nello stile di Rosi, Petri o Damiani. Ottima colonna sonora di Riz Ortolani con i Nomadi a cantare la sarcastica ed appropriata “Mamma giustizia”

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Lo vidi una notte su una televisione privata romana e mi colpì tantissimo. È uno di quei rari film in cui la trama è al servizio di un messaggio di fondo ben chiaro. Praticamente utilizza gli stilemi della classica commedia all'italiana (un apologo morale che sottintende lo svolgimento dei fatti) ma innestando il tutto su un solido (in alcuni punti macchinoso) impianto thrilling. Buonissima al solito l'interpretazione del mitico Cerusico, attore che crea empatia immediata, poco utilizzato dal cinema a causa della malattia che se lo portò via così giovane.

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Fra la commedia nera e il dramma di denuncia, il film di Salerno è una spietata composizione accusatoria in cui nessuno si salva, né il borghese omicida con la faccia da salvare (che "espia" il suo peccato vivendo come sempre), né il meschinetto manipolabile che paga il pegno della propria omertà, né ovviamente il fallace sistema giudiziario. Anche il giornalista che inquadra la verità trova il senso di giustizia solo dietro lo scoop. Lodevoli prove attoriali, diverse scene d'impatto incorniciate da buoni dialoghi (il confronto fra Cerusico e Cucciolla) e ottime musiche. Meritevole.

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Nonostante la partenza da puro thriller, “No Il Caso E’ Felicemente Risolto” presto prende i connotati di un dramma legato alla (s)fiducia nella giustizia e basato sugli equivoci, sugli errori e su una critica di fondo che sembra voler colpire le classi agiate e le istituzioni. Salerno non è certo Damiano Damiani, ma al di là di qualche forzatura nella sceneggiatura e nella caratterizzazione di Fabio (un piccolo borghese divorato dall’insicurezza), il film scivola discretamente bene per tutta la sua durata, fino a culminare con una resa dei conti ovviamente amara e beffarda (da evitare invece l’epilogo alternativo imposto dalla produzione, un brodino allungato di taglio buonista).
Come appena accennato sopra, rimaniamo abbastanza basiti dal comportamento del protagonista, il quale una volta riconosciutosi sui quotidiani e in televisione, inizia a recitare il ruolo del ricercato (pur nella sua totale innocenza), tagliandosi i baffi e riverniciando la sua automobile di blu. In questo caso la corda della verosimiglianza tende quasi a spezzarsi, ma l’accusa del regista si rivolge anche alla vigliaccheria di una borghesia omertosa e complice. E i conti, se chiudiamo un occhio, tornano.
Girato tra Roma e Anguillara Sabazia (comune che si affaccia sul lago di Bracciano), “No Il Caso E’ Felicemente Risolto” si avvale di uno score musicale firmato da Riz Ortolani (meno in forma del solito) e di un brano dei Nomadi (“Mamma Giustizia”) il cui testo ovviamente si riallaccia perfettamente alle tematiche del film. Una pellicola non fondamentale, ma comunque meritevole di visione.

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domenica 3 novembre 2024

Berlinguer – La grande ambizione – Andrea Segre

vedere Elio Germano nei panni di Berlinguer è una sorpresa positiva, e non era scontato.

Berlinguer è stato l'unico uomo politico amato dal popolo, e il film, anche con immagini storiche, lo dimostra bene.

il film non è un documentario classico, la parte di finzione non manca, moglie e figli e figlie hanno un ruolo importante.

quando Berlinguer sosteneva l'adesione alla Nato non sapeva che dietro le bombe a Piazza della Loggia, a Brescia, la Nato ebbe una parte attiva (qui). La Nato è una banda di assassini, che va eliminata il prima possibile. 

nel film sembra a volte che Berlinguer sia un ingenuo, il Male è stato combattuto troppo poco, ha sottovalutato i nemici, quelli più potenti e nascosti.

non si scoprono novità rispetto alla storia, e però  fa sempre piacere sapere che ancora non ci si dimentica di Enrico Berlinguer.

buona visione - Ismaele



 

 

 

 

…Il protagonista, il gigante Elio Germano, è dentro in ogni ruga e solco sul viso, in ogni gesto, ma soprattutto ce lo ricorda nelle intenzioni e nello spirito. Lo conferma anche Elio nella conferenza stampa del Festival del Cinema di Roma: non è tanto una questione di imitazione, quanto di animare un ideale. La bravura di Andrea Segre è stata proprio quella di raccontare con equilibrio e profondo rispetto la figura di un personaggio difficilmente gestibile. Perché nessuno lo ha fatto, o avuto semplicemente il coraggio di farlo prima di lui.

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Ecco, la ricostruzione narrativa di Andrea Segre e Marco Pettenello si muove tra la dimensione pubblica e quella privata, tra la ricostruzione puntuale, a volte persino didascalica, delle dinamiche politiche e storiche e la libertà dell’invenzione drammaturgica, che vuole suggerire le infinite dimensioni del personaggio. Di qualsiasi personaggio. Ma in ogni caso, l’intenzione non è indicare la contraddizione o un possibile punto di rottura. Pur nei conflitti interiori, nei dubbi, nelle ansie, nelle paure, il Berlinguer di Segre è un uomo dalla barra e dalla schiena dritte, un esempio di vicinanza, se non di coincidenza, tra l’idea e la realtà. Certo, in questa direzione, il rischio è quello dell’agiografia e della celebrazione. Eppure, sebbene le scene familiari scontino alcune forzature di scrittura, la figura resta umana, umanissima, anche grazie all’interpretazione di Elio Germano, che cerca di porre l’accento su ogni gesto e reazione, persino su ogni piccolo movimento di nervosismo.

Per il resto, la parte più calda, vibrante di film non è negli interni in casa, né nelle stanze di Botteghe Oscure o del Parlamento, dove l’atmosfera si fa plumbea e la voragine del grottesco è sempre a un passo. Sta nelle scene “di strada”, nei momenti di militanza attiva, negli incontri con gli operai e le operaie, con i lavoratori e la gente delle periferie. Sta nell’energia di testa e cuore dei comizi, nel nutrirsi alla radice popolare della lotta, nella rabbia e nella “festa collettiva”. È soprattutto qui che interviene il lavoro sull’archivio, straordinario. Che da un lato integra il racconto e risponde all’esigenza di “economia” narrativa e di messinscena. Dall’altro, restituisce con una forza più immediata i toni e i colori di un’epoca. Fino a vertigini di poesia, come le scene dei balli sul battello lungo il Po. Quell’archivio è come una specie di porta che apre al sogno. E del resto, è una delle tracce più interessanti di un film che, apparentemente, è saldamente ancorato ai fatti, alle vicende, dimensione concreta, materialista, della realtà. Qui tutti sognano, hanno apparizioni, segni, fantasmi o premonizioni. Persino Andreotti, nella maschera sovraccarica di Paolo Pierobon. E ogni sogno raccontato è come una fenditura che apre varchi nella dittatura della Storia. La traccia di un’altra strada possibile.

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È lodevole l’intenzione che c’è alla base del progetto, quella di andare a indagare l’uomo dietro alcuni degli elementi-chiave di uno dei periodi più turbolenti della Storia recente italiana, ancora oggi materia di studio e di rielaborazione cinematografica (una curiosa coincidenza vuole che il film di Segre sia arrivato nelle sale un mese dopo l’edizione 2024 del Festival di San Sebastián, che ha dedicato la sua retrospettiva al crime movie italiano ambientato e/o girato negli anni Settanta). Ma quando la Storia nel senso più ampio comincia a imporsi nella seconda metà, a discapito del delicato lavoro fatto sulla psicologia di Berlinguer e sugli aspetti meno pubblici della sua grande ambizione, il tutto si fa più schematico, più scolastico, regredendo al tipo di operazione che il film stesso, come il suo protagonista in ambito politico, annunciava di non voler emulare.

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Per questa interpretazione, Elio Germano sceglie una chiave minimalista, che si adatta al carattere schivo del leader politico in questione. La somiglianza fisica non ne è il punto di forza e l’accento sardo non è impeccabile. Da apprezzare invece la capacità di tratteggiare con piccoli cenni la parte emotiva: dall’aspetto ironico alla passione politica stessa, che non è urlata, né platealmente esibita, ma emerge ugualmente con forza. Berlinguer – La grande ambizione restituisce l’immagine di un uomo di grande rigore, innanzitutto con sé stesso, ancora prima che nel dettare la linea del partito, e al tempo stesso aperto e dialogante in modo autentico…

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sabato 2 novembre 2024

Parigi, o cara – Vittorio Caprioli

Franca Valeri, che a Roma fa la prostituta e strozzina, con stile, decide di andare a Parigi, come se fosse una scoperta e un miglioramento rispetto a Roma.

in realtà è un postaccio grigio e triste, niente a che vedere con Roma.

bravissima Franca Valeri, e anche Vittorio Caprioli, regista del film e marito di Franca Valeri.

film dimenticato e sottovalutato.

buona (puttanesca) visione - Ismaele

 

 

QUI si può vedere il film completo



Gioiellino camp che non a caso ha il suo fulcro in una Franca Valeri in stato di grazia e nella sua prostituta-strozzina sciccosa, che va in Francia sognando inopinatamente un futuro radioso. Battute fulminanti nell'originale parlata cafona-snob, calate in situazioni paradossali, sono il sale di una storia che dai fasti iniziali mostra man mano le crepe della disillusione che affondano un personaggio amaramente perdente. Una decadenza anche cromatica dai vivaci fasti romani al grigiore della periferia parigina. Teneramente implacabile.

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Il film di una vita per la Valeri; nel senso che davvero qui è in assolo e sceglie un personaggio sgradevole e meschino (mai condannabile però): una prostituta non bellissima e un po' sfiorita che cova acredine verso la vita. Il marito regista la mette in piena luce, permettendole virtuosismi nei monologhi eccezionali e non illuminando mai la tiepida, mesta luce sotto la quale è messa sin dall'inizio. Una perla di due artisti anomali anche se popolari.

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Ho scoperto questo film solo poco tempo fa,su Iris in seconda serata.Un piccolo gioiellino,per me che adoro Franca Valeri,e qui lei la fa da unica padrona.Infatti il film è fatto su sua misura,ed è un vero tripudio di battute e doppi sensi,situazioni improbabili e ridicole.La Valeri è l'unico esempio in Italia di attrice e autrice di testi cinematografici e teatrali,nella maggior parte dei film dove recita lei compartecipa alle sceneggiature,di solito non è mai la sola protagonista,ma è spalleggiata da grandi attori come Sordi o De Sica.Qui invece tutto il film gira attorno a lei e alla sua bravura,il regista è Vittorio Caprioli,all'epoca suo marito,che si ritaglia un piccolo ruolo per se,ma lascia alla Valeri tutto lo spazio dovuto.Molto bella la visione che il film da prima di Roma e poi di Parigi:non si vedono ,ne nella prima ne nella seconda,monumenti o piazze famose,ma periferie squallide e sconosciute...Ricordo che si tratta di un film del 1962,e soprattutto nei film americani,si aveva delle città europee sempre una visione da cartoline,molto fasulle.Lo consiglio a chi vuole farsi due risate "intelligenti".

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…Commedia spassosa con retrogusto amaro, dalla comicità intelligente costruita su situazioni al limite del paradosso, è girata in un technicolor sfavillante che fa risaltare i colori sgargianti delle mises appariscenti e delle tinte ed acconciature che Delia cambia ad un ritmo indiavolato. Un'opera che dimostra anche un certo coraggio per essere un film dei primi 60, nell'affrontare temi allora certamente scabrosi come la prostituzione e l'omosessualità del fratello (personaggio secondario, ma non apparizione fulminea come erano i pochissimi ruoli gay nel cinema di quel decennio).

Una piacevole sorpresa è stata la regia inventiva e personale del marito della Valeri, Vittorio Caprioli (anche interprete del personaggio del pizzaiolo) che non conoscevo come autore, che non si limita a riprendere staticamente le girandole della moglie, bensì le accompagna con la danza della sua macchina da presa estremamente mobile.

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mercoledì 30 ottobre 2024

Un maledetto imbroglio - Pietro Germi

ispirato a Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, di Carlo Emilio Gadda, a cui piacque il film, Pietro Germi è regista e protagonista del film.

le investigazioni del commissario Ingravallo sono difficili, ma lui e la sua squadra sono all'altezza.

ottimi interpreti ti tengono legato alla poltrona, provare per credere.

buona visione - Ismaele

 

 

QUI si può vedere il film completo

 

Pur ispirandosi solo nell'assunto iniziale al capolavoro di Gadda, il film, grazie all'ottima regia di Germi, è perfettamente riuscito nel disvelare miserie e decadenze della borghesia romana e nel saper riproporre in celluloide il tono del geniale romanzo. Splendida la prova attoriale dello stesso Germi, che dà vita ad un personaggio (quello del commissario) che non si dimentica e che verrà "bissato" nel primo film di Damiani (Il rossetto). Un film sottolutato, cui non sono stati tributati gli onori che avrebbe meritato.

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Germi dà vita al primo poliziesco italiano, descrivendo con occhio distaccato una realtà quotidiana costituita di personaggi dalla coscienza più o meno sporca. Germi stesso interpreta una figura di commissario dal polso ferreo e fortemente caratterizzata, anche dal punto di vista fisico: astuto, occhiali scuri, metodi rudi e inquisitori, indagatore instancabile e distaccato e con una fidanzata che trascura (elemento tipico dei futuri poliziotteschi). Buon intreccio e ottimi interpreti.

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Un film giallo, per funzionare bene, deve non solo riservare al finale i fuochi d'artificio più alti e coreografici, ma anche saper dosare strada facendo ritmo e tensione nella giusta misura, come un'alchimia dove una dose eccessiva (o una troppo scarsa) di un ingrediente finisca per far saltare tutta la bontà di una ricetta. Pietro Germi, regista ed interprete senza fronzoli (quasi un Eastwood da Italia post-bellica) era così forse l'autore più indicato per uno dei primi polizieschi italiani, un film dove non ci sono tempi morti, distrazioni, vuoti narrativi, e tutto sembra procedere all'unisono verso l'inevitabile colpo di scena finale. Ottimo l'amalgama tra gli attori, soprattutto il team di poliziotti che non fa nessun torto al romanzo ispiratore, "Quer pasticciaccio brutto di via Merulana", tanto che lo stesso Gadda (pur riconoscendo le parziali distanze rispetto al romanzo) finì per apprezzare la giusta commistione di humor nero e tensione.

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…Alfredo Giannetti, Ennio De Concini e lo stesso Pietro Germi adattano molto liberamente lo stravagante, innovativo romanzo "sperimentale" di Carlo Emilio Gadda, "Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana", concentrandosi sulla vicenda noir e sul reticolo variegato di personaggi coinvolti, tra l'ispettore cinico e astuto come un incallito, spietato predatore, e i vari indiziati, tutti in qualche modo un po' colpevoli o portatori di una verità proibita che, qualora svelata, porterebbe a mettere a repentaglio la loro già fragile posizione.

Per Germi è nuovamente l'occasione per dedicarsi a dipanare scenari di malessere da vita di coppia, che finiscono per creare dei mostri, o comunque ad alimentare un disagio tra conviventi che finisce talvolta per spingere ad azioni inimmaginabili. La verità poi, verrà a galla quasi per caso, grazie ad una fatale e risolutiva, brillante intuizione di Ingravallo stesso, uomo duro, sin spietato, ma brillante e tenace come uno squalo, e sarà molto più semplice e quasi naturale rispetto al polverone che l'indagine riuscirà a sollevare, facendo emergere la condizione precaria e moralmente discutibile di ogni personaggio in qualche modo vicino alla vittima.

Da considerarsi come una cosa a parte o parallela rispetto all'elaborato, audace romanzo di Gadda, il film di Germi rimane un noir stupendo, capace di trattenere lo spettatore, arricchendo l'indagine di personaggi complessi ed emotivamente sfaccettati come è estremamente difficile trovare in un giallo o noir fine a se stesso, concentrato esclusivamente o quasi sul suo mistero portante…

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lunedì 28 ottobre 2024

Parthenope – Paolo Sorrentino

Già dal titolo si capisce che la protagonista del film non poteva non essere Napoli, filmata in modo innamorato e indimenticabile da Sorrentino.

La storia viene raccontata da Parthenope (Celeste Della Porta da giovane, Stefania Sandrelli da anziana), una storia d'amore che ricorda a tratti Jules e Jim di François Truffaut. 

Nella seconda parte del film appaiono due interpreti (e interpretazioni) memorabili, il professore universitario Silvio Orlando e il vescovo Peppe Lanzetta.

Silvio Orlando è il maestro di Parthenope, il professore che la sceglie come successore, e ha un segreto, un figlio malato, e lo mostra a Parthenope (il figlio ha qualche somiglianza con Charlie, il professore super obeso di The Whale).

Peppe Lanzetta è perfetto per il suo ruolo, il vescovo alle prese con il sangue di san Gennaro.

Un film che è una gioia per gli occhi, tra l'altro.

Buona (partenopea) visione - Ismaele

 


 

 

 

Che Sorrentino ci abbia abituato alla dismisura, è un dato di fatto. Che Sorrentino abbia un universo intimo e che spesso questo universo resti aggrappato al suo interno pur illudendosi di darsi completamente al pubblico, è un altro incontestabile dato di fatto. Che poi Sorrentino abbia una qualità visiva eccezionale, che parte proprio da quell’universo intimo, da quella particolare propensione a vedere le cose attraverso un filtro tra il levigato e il mostruoso, tra luci iperrealistiche scintillanti e l’oscurità grottesca di Francisco Goya, è altrettanto incontestabile.

Parthenope è questo. È un distillato di Sorrentino, che torna ancora a Napoli e la omaggia attraverso la parabola esistenziale di una donna attraente, amata da tutti ma che poco si concede, pur dispensando a chiunque la sua attenzione. Parthenope, interpretata dalla pressoché esordiente Celeste Della Porta, è creatura immersa in sostanza metaforica, è la ovvia prosopopea (non la superba presunzione, la figura retorica) di una città che nasce dall’acqua per sedurre, per soffrire, per convivere con i fantasmi rimossi del passato e per allontanarsi inesorabilmente da se stessa, continuando a coltivare il proprio rifiuto affascinato e nostalgico…

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Paolo Sorrentino non è nuovo all’utilizzo della metafora e del simbolismo. Con E’ stata la mano di Dio aveva già percorso le strade di Napoli, che però erano principalmente scenario alla vicenda personale di Fabietto, il protagonista, e poi si è scoperto alter ego del regista stesso. Con Parthenope, Sorrentino rimane a Napoli ma fa della città un personaggio nel corpo e nel viso splendido di Celeste Della Porta. La prima parte del film è più legata al classico viaggio di formazione, che si esaurisce e conclude (forse) di fronte al primo grande dolore di questa giovane donna. Da quel momento in poi che non specifichiamo ma che sarà chiaro a chiunque vedrà il film, Parthenope prende una strada accidentata, quella appunto metaforica e simbolica in cui la fanciulla si fa città e, man mano che procede nella sua ricerca di senso della vita, entra in contatto con ogni aspetto di Napoli stessa.

Parthenope entra in contatto con l’ambiente dell’arte, e si avvicina alla recitazione, arrivando a ricevere consigli da una grande attrice, una diva di origini napoletane che nel look e nei modi ricorda vagamente Sofia Loren. Si avvicina all’occultismo e alla magia della fede folkloristica tipica della città: il Miracolo e il Tesoro di San Gennaro, il Vescovo intermediario tra la città e il popolo, che vuole “fottere” la città per il suo tornaconto. Entra addirittura in contatto con le viscere mafiose del capoluogo campano, quando assiste a un “matrimonio” tra famiglie di camorra. Si immerge nell’ambito accademico, aspetto forse meno noto di Napoli, ma importante e significativo a livello internazionale, dopotutto è a Napoli l’Università più antica d’Europa, la Federico II. E’ lì che Parthenope “si ferma” e mette radici. Il riprendere canonico del racconto monografico di questa non più giovane donna la ritrova docente in via di pensionamento, mentre dice addio alla sua cattedra di Antropologia…

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