Pietro Germi sembra adottare lo stile di Simenon, sembra il commissario Maigret.
la testimone chiave dell'omicidio è una ragazzina di 14 anni, affidabile ma non troppo, tocca al commissario riuscire a capire cosa è successo e chi è stato l'assassino.
Ottimo esordio di Damiani, che dà vita ad un finto-giallo, in
cui ad interessare non è tanto la scoperta del colpevole (abbastanza
prevedibile) quanto lo spaccato dell'Italia dell'epoca, che viene dipinta come
ipocrita e perbenista, nonché luogo in cui cominciava ad insinuarsi sempre più
prepotentemente il dominio del "dio denaro". Semplice, asciutto e
senza fronzoli, grazie anche alla sceneggiatura di Zavattini. Bravi gli attori
ed ancora una volta bella la prova di Germi nel ruolo di commissario. Piccolo
film che merita di essere riscoperto.
Ottimo. Non un giallo nel classico stile "chi è
stato", bensì "come lo incastro". Germi malinconico e ruvido è
sempre fantastico, anche se già visto. Bene anche tutto il cast. Le morbosità e
i moralismi che ruotano intorno alla vicenda sono invecchiati (per fortuna) ma
restano come credibile documento d'epoca, da conoscere assolutamente.
Affascinante bianco e nero per un film lontano dai ricchi e corrotti palazzi
antichi di Un maledetto imbroglio,
che mostra invece squarci di una Roma periferica e pasoliniana, piccolo (ma
piccolo) borghese.
Damiani esordisce
nel lungometraggio con questo bel “giallo sociologico”, scritto con sapienza da
lui stesso con Zavattini, e
diretto con piglio sicuro e diritto all’obiettivo. Pur scegliendo un veicolo
popolare, l’intento del regista è quello di far passare una critica alla
società italiana del tempo e alla mentalità borghese che la domina(va?).
Ponendosi nella scia, seppure con mire meno metaforiche, del Germi (che infatti interpreta anche qui il
commissario di polizia) di “Un maledetto imbroglio”, tratto da Gadda, ed occhieggiando a Simenon, Damiani mette
l’accento sulla disgregazione della famiglia cittadina, sul sempiterno impulso
dato dal denaro alle azioni umane, sulla necessità borghese di salvaguardare le
apparenze a discapito della verità. Un film più coraggioso di quanto forse poté
sembrare all’epoca; un sassolino gettato nello stagno dell’Italia democristiana
che al cinema soffocava nella bambagia della censura il dissenso, preso invece
a scelbiane manganellate sulle piazze.
Letta la trama questo film mi ha parecchio intrigato,sembra
una riproposizione di un classico spunto hitchcockiano e la prima parte è
sicuramente efficace a partire dalla lunga ed efferata sequenza dell'omicidio
con annessa fuga dell'innocente testimone.Poi quando il gioco tra i due
personaggi si fa chiaro e si conoscono in un lungo drammatico confronto la
tensione cala irrimediabilmete e si imboccano i binari della prevedibilita'.il
testimone va dalla polizia e subisce un incubo kafkiano ritrovandosi condannato
a 24 anni di carcere....ma l'assassino,un professore,ha la bella idea di
suicidarsi lasciando una confessione piena salvando capra e cavoli.Non nascondo
che il finale non mi è piaciuto per niente,è frettoloso tirato via e stupiscono
anche altri particolari sull'indagine che è abbastanza maccheronica e sul ruolo
di Enrico Maria Salerno(fratello del regista)un po'fumoso e mal
sfruttato.....bravo invece l'uomo qualunque Cerusico.
…Il regista (alla sua prima opera in solitaria, dopo
aver co-diretto nel 1965 insieme ad Ernesto Gastaldi “Libido”) lavora con
intelligenza e vivacità sulla sceneggiatura articolata e riuscita di Augusto
Finocchi (un solo titolo di peso nel suo curriculum ma imprescindibile come “La
mala ordina”), azzecca un paio di momenti di tensione veramente notevoli (il
già citato incipit e un lungo inseguimento per le strade della città con Fabio
che tenta in ogni modo di non perdere di vista il professore), evita, quasi
sempre, sia la facile caricatura sia che il suo film si trasformi nella
consueta denuncia sul malfunzionamento della giustizia, a costo anche di un
finale eccessivamente buonista, rattoppato e sbrigativo (ma l’ultima spassosa
battuta di Fabio che, al compagno di cella che gli chiede se domenica andrà di
nuovo a pescare risponde: “Io a pesca’ non ce vado più manco coi carabinieri,
ma la volete capi’ si o no?” si fa perdonare una chiusa accomodante forse non
all’altezza che, va detto, è stata imposta dalla produzione, il film infatti
avrebbe dovuto concludersi in modo molto più cattivo con il dialogo fra il
giornalista ormai consapevole e il professore fuori dal Tribunale, dopo la
condanna di Fabio, come ha dichiarato in seguito lo stesso regista), non
rinuncia ad alcune pungenti, crudeli ma veritiere annotazioni sociali, sia pure
in una contrapposizione un tantino semplicistica e risaputa ma sincera,
privilegia saggiamente toni brillanti e divertiti (a partire dal titolo) a
smorzare con brio l’amaro dramma della vicenda raccontata per un film
classificabile più come salace e graffiante commedia di costume che non come
arrabbiata e rigorosa opera di impegno civile con velenose accuse incorporate
nello stile di Rosi, Petri o Damiani. Ottima colonna sonora di Riz Ortolani con
i Nomadi a cantare la sarcastica ed appropriata “Mamma giustizia”
Lo vidi una notte su una
televisione privata romana e mi colpì tantissimo. È uno di quei rari film in
cui la trama è al servizio di un messaggio di fondo ben chiaro. Praticamente
utilizza gli stilemi della classica commedia all'italiana (un apologo morale
che sottintende lo svolgimento dei fatti) ma innestando il tutto su un solido
(in alcuni punti macchinoso) impianto thrilling. Buonissima al solito
l'interpretazione del mitico Cerusico, attore che crea empatia immediata, poco
utilizzato dal cinema a causa della malattia che se lo portò via così giovane.
Fra la
commedia nera e il dramma di denuncia, il film di Salerno è una spietata
composizione accusatoria in cui nessuno si salva, né il borghese omicida con la
faccia da salvare (che "espia" il suo peccato vivendo come sempre),
né il meschinetto manipolabile che paga il pegno della propria omertà, né
ovviamente il fallace sistema giudiziario. Anche il giornalista che inquadra la
verità trova il senso di giustizia solo dietro lo scoop. Lodevoli prove
attoriali, diverse scene d'impatto incorniciate da buoni dialoghi (il confronto
fra Cerusico e Cucciolla) e ottime musiche. Meritevole.
Nonostante la partenza da puro thriller, “No Il
Caso E’ Felicemente Risolto” presto prende i connotati di un dramma legato alla
(s)fiducia nella giustizia e basato sugli equivoci, sugli errori e su una
critica di fondo che sembra voler colpire le classi agiate e le istituzioni.
Salerno non è certo Damiano Damiani, ma al di là di qualche forzatura nella
sceneggiatura e nella caratterizzazione di Fabio (un piccolo borghese divorato
dall’insicurezza), il film scivola discretamente bene per tutta la sua durata,
fino a culminare con una resa dei conti ovviamente amara e beffarda (da evitare
invece l’epilogo alternativo imposto dalla produzione, un brodino allungato di
taglio buonista). Come appena accennato sopra, rimaniamo
abbastanza basiti dal comportamento del protagonista, il quale una volta
riconosciutosi sui quotidiani e in televisione, inizia a recitare il ruolo del
ricercato (pur nella sua totale innocenza), tagliandosi i baffi e riverniciando
la sua automobile di blu. In questo caso la corda della verosimiglianza tende
quasi a spezzarsi, ma l’accusa del regista si rivolge anche alla vigliaccheria
di una borghesia omertosa e complice. E i conti, se chiudiamo un occhio,
tornano. Girato tra Roma e Anguillara Sabazia (comune che
si affaccia sul lago di Bracciano), “No Il Caso E’ Felicemente Risolto” si
avvale di uno score musicale firmato da Riz Ortolani (meno in forma del solito)
e di un brano dei Nomadi (“Mamma Giustizia”) il cui testo ovviamente si
riallaccia perfettamente alle tematiche del film. Una pellicola non
fondamentale, ma comunque meritevole di visione.
vedere Elio Germano nei panni di Berlinguer è una sorpresa positiva, e non era scontato.
Berlinguer è stato l'unico uomo politico amato dal popolo, e il film, anche con immagini storiche, lo dimostra bene.
il film non è un documentario classico, la parte di finzione non manca, moglie e figli e figlie hanno un ruolo importante.
quando Berlinguer sosteneva l'adesione alla Nato non sapeva che dietro le bombe a Piazza della Loggia, a Brescia, la Nato ebbe una parte attiva (qui). La Nato è una banda di assassini, che va eliminata il prima possibile.
nel film sembra a volte che Berlinguer sia un ingenuo, il Male è stato combattuto troppo poco, ha sottovalutato i nemici, quelli più potenti e nascosti.
non si scoprono novità rispetto alla storia, e però fa sempre piacere sapere che ancora non ci si dimentica di Enrico Berlinguer.
buona visione - Ismaele
…Il protagonista, il gigante Elio
Germano, è dentro in ogni ruga e solco sul viso, in ogni gesto, ma
soprattutto ce lo ricorda nelle intenzioni e nello spirito. Lo conferma anche
Elio nella conferenza stampa del Festival del Cinema di Roma: non è tanto una
questione di imitazione, quanto di animare un ideale. La bravura di Andrea
Segre è stata proprio quella di raccontare con equilibrio e profondo rispetto
la figura di un personaggio difficilmente gestibile. Perché nessuno lo ha
fatto, o avuto semplicemente il coraggio di farlo prima di lui.
…Ecco, la ricostruzione narrativa di
Andrea Segre e Marco Pettenello si muove tra la dimensione pubblica e quella
privata, tra la ricostruzione puntuale, a volte persino didascalica, delle
dinamiche politiche e storiche e la libertà dell’invenzione drammaturgica, che
vuole suggerire le infinite dimensioni del personaggio. Di qualsiasi
personaggio. Ma in ogni caso, l’intenzione non è indicare la contraddizione o
un possibile punto di rottura. Pur nei conflitti interiori, nei dubbi, nelle
ansie, nelle paure, il Berlinguer di Segre è un uomo dalla barra e dalla
schiena dritte, un esempio di vicinanza, se non di coincidenza, tra l’idea e la
realtà. Certo, in questa direzione, il rischio è quello dell’agiografia e della
celebrazione. Eppure, sebbene le scene familiari scontino alcune forzature di
scrittura, la figura resta umana, umanissima, anche grazie all’interpretazione
di Elio Germano, che cerca di porre l’accento su ogni gesto e reazione, persino
su ogni piccolo movimento di nervosismo.
Per il resto, la parte
più calda, vibrante di film non è negli interni in casa, né nelle stanze di
Botteghe Oscure o del Parlamento, dove l’atmosfera si fa plumbea e la voragine
del grottesco è sempre a un passo. Sta nelle scene “di strada”, nei momenti di
militanza attiva, negli incontri con gli operai e le operaie, con i lavoratori
e la gente delle periferie. Sta nell’energia di testa e cuore dei comizi, nel
nutrirsi alla radice popolare della lotta, nella rabbia e nella “festa
collettiva”. È soprattutto qui che interviene il lavoro sull’archivio,
straordinario. Che da un lato integra il racconto e risponde all’esigenza di
“economia” narrativa e di messinscena. Dall’altro, restituisce con una forza
più immediata i toni e i colori di un’epoca. Fino a vertigini di poesia, come
le scene dei balli sul battello lungo il Po. Quell’archivio è come una specie
di porta che apre al sogno. E del resto, è una delle tracce più interessanti di
un film che, apparentemente, è saldamente ancorato ai fatti, alle vicende,
dimensione concreta, materialista, della
realtà. Qui tutti sognano, hanno apparizioni, segni, fantasmi o premonizioni. Persino
Andreotti, nella maschera sovraccarica di Paolo Pierobon. E ogni sogno
raccontato è come una fenditura che apre varchi nella dittatura della Storia.
La traccia di un’altra strada possibile.
… È lodevole l’intenzione che c’è alla base del progetto,
quella di andare a indagare l’uomo dietro alcuni degli
elementi-chiave di uno dei periodi più turbolenti della Storia recente italiana,
ancora oggi materia di studio e di rielaborazione cinematografica (una curiosa
coincidenza vuole che il film di Segre sia arrivato nelle sale un mese dopo
l’edizione 2024 del Festival di San Sebastián, che ha dedicato la sua
retrospettiva al crime movie italiano
ambientato e/o girato negli anni Settanta). Ma quando la Storia nel senso più
ampio comincia a imporsi nella seconda metà, a discapito del delicato lavoro
fatto sulla psicologia di Berlinguer e sugli aspetti meno pubblici della sua
grande ambizione, il tutto si fa più schematico,
più scolastico, regredendo al tipo di operazione che il film
stesso, come il suo protagonista in ambito politico, annunciava di non voler
emulare.
…Per questa
interpretazione, Elio Germano sceglie una chiave minimalista, che si adatta al carattere schivo
del leader politico in questione. La somiglianza fisica non ne è il punto di
forza e l’accento sardo non è impeccabile. Da apprezzare invece la capacità di
tratteggiare con piccoli cenni la parte emotiva: dall’aspetto ironico alla
passione politica stessa, che non è urlata, né platealmente esibita, ma emerge
ugualmente con forza. Berlinguer – La grande ambizione restituisce
l’immagine di un uomo di grande rigore, innanzitutto con sé stesso, ancora
prima che nel dettare la linea del partito, e al tempo stesso aperto e
dialogante in modo autentico…
Franca Valeri, che a Roma fa la prostituta e strozzina, con stile, decide di andare a Parigi, come se fosse una scoperta e un miglioramento rispetto a Roma.
in realtà è un postaccio grigio e triste, niente a che vedere con Roma.
bravissima Franca Valeri, e anche Vittorio Caprioli, regista del film e marito di Franca Valeri.
Gioiellino camp che non a caso ha il suo fulcro in una Franca
Valeri in stato di grazia e nella sua prostituta-strozzina sciccosa, che va in
Francia sognando inopinatamente un futuro radioso. Battute fulminanti
nell'originale parlata cafona-snob, calate in situazioni paradossali, sono il
sale di una storia che dai fasti iniziali mostra man mano le crepe della
disillusione che affondano un personaggio amaramente perdente. Una decadenza
anche cromatica dai vivaci fasti romani al grigiore della periferia parigina.
Teneramente implacabile.
Il film di una vita per la Valeri; nel senso che davvero qui è
in assolo e sceglie un personaggio sgradevole e meschino (mai condannabile
però): una prostituta non bellissima e un po' sfiorita che cova acredine verso
la vita. Il marito regista la mette in piena luce, permettendole virtuosismi
nei monologhi eccezionali e non illuminando mai la tiepida, mesta luce sotto la
quale è messa sin dall'inizio. Una perla di due artisti anomali anche se
popolari.
Ho scoperto questo film solo poco tempo fa,su Iris in seconda
serata.Un piccolo gioiellino,per me che adoro Franca Valeri,e qui lei la fa da
unica padrona.Infatti il film è fatto su sua misura,ed è un vero tripudio di
battute e doppi sensi,situazioni improbabili e ridicole.La Valeri è l'unico
esempio in Italia di attrice e autrice di testi cinematografici e
teatrali,nella maggior parte dei film dove recita lei compartecipa alle sceneggiature,di
solito non è mai la sola protagonista,ma è spalleggiata da grandi attori come
Sordi o De Sica.Qui invece tutto il film gira attorno a lei e alla sua
bravura,il regista è Vittorio Caprioli,all'epoca suo marito,che si ritaglia un
piccolo ruolo per se,ma lascia alla Valeri tutto lo spazio dovuto.Molto bella
la visione che il film da prima di Roma e poi di Parigi:non si vedono ,ne nella
prima ne nella seconda,monumenti o piazze famose,ma periferie squallide e
sconosciute...Ricordo che si tratta di un film del 1962,e soprattutto nei film
americani,si aveva delle città europee sempre una visione da cartoline,molto
fasulle.Lo consiglio a chi vuole farsi due risate "intelligenti".
…Commedia spassosa con retrogusto amaro, dalla comicità intelligente
costruita su situazioni al limite del paradosso, è girata in un technicolor sfavillante che fa risaltare i colori
sgargianti delle mises appariscenti
e delle tinte ed acconciature che Delia cambia ad un ritmo indiavolato.
Un'opera che dimostra anche un certo coraggio per essere un film dei primi 60,
nell'affrontare temi allora certamente scabrosi come la prostituzione e
l'omosessualità del fratello (personaggio secondario, ma non apparizione
fulminea come erano i pochissimi ruoli gay nel cinema di quel decennio).
Una piacevole sorpresa è stata la regia inventiva e personale
del marito della Valeri, Vittorio Caprioli (anche interprete del personaggio
del pizzaiolo) che non conoscevo come autore, che non si limita a riprendere
staticamente le girandole della moglie, bensì le accompagna con la danza della
sua macchina da presa estremamente mobile.
Pur ispirandosi solo nell'assunto iniziale al capolavoro di
Gadda, il film, grazie all'ottima regia di Germi, è perfettamente riuscito nel
disvelare miserie e decadenze della borghesia romana e nel saper riproporre in
celluloide il tono del geniale romanzo. Splendida la prova attoriale dello
stesso Germi, che dà vita ad un personaggio (quello del commissario) che non si
dimentica e che verrà "bissato" nel primo film di Damiani (Il rossetto). Un film sottolutato, cui non sono stati tributati gli
onori che avrebbe meritato.
Germi dà vita al primo poliziesco italiano, descrivendo con
occhio distaccato una realtà quotidiana costituita di personaggi dalla
coscienza più o meno sporca. Germi stesso interpreta una figura di commissario
dal polso ferreo e fortemente caratterizzata, anche dal punto di vista fisico:
astuto, occhiali scuri, metodi rudi e inquisitori, indagatore instancabile e
distaccato e con una fidanzata che trascura (elemento tipico dei futuri
poliziotteschi). Buon intreccio e ottimi interpreti.
Un film
giallo, per funzionare bene, deve non solo riservare al finale i fuochi
d'artificio più alti e coreografici, ma anche saper dosare strada facendo ritmo
e tensione nella giusta misura, come un'alchimia dove una dose eccessiva (o una
troppo scarsa) di un ingrediente finisca per far saltare tutta la bontà di una
ricetta. Pietro Germi, regista ed interprete senza fronzoli (quasi un Eastwood
da Italia post-bellica) era così forse l'autore più indicato per uno dei primi
polizieschi italiani, un film dove non ci sono tempi morti, distrazioni, vuoti
narrativi, e tutto sembra procedere all'unisono verso l'inevitabile colpo di
scena finale. Ottimo l'amalgama tra gli attori, soprattutto il team di
poliziotti che non fa nessun torto al romanzo ispiratore, "Quer
pasticciaccio brutto di via Merulana", tanto che lo stesso Gadda (pur
riconoscendo le parziali distanze rispetto al romanzo) finì per apprezzare la
giusta commistione di humor nero e tensione.
…Alfredo Giannetti, Ennio De Concini e lo stesso Pietro Germi
adattano molto liberamente lo stravagante, innovativo romanzo
"sperimentale" di Carlo Emilio Gadda, "Quer pasticciaccio brutto
de Via Merulana", concentrandosi sulla vicenda noir e sul reticolo
variegato di personaggi coinvolti, tra l'ispettore cinico e astuto come un
incallito, spietato predatore, e i vari indiziati, tutti in qualche modo un po'
colpevoli o portatori di una verità proibita che, qualora svelata, porterebbe a
mettere a repentaglio la loro già fragile posizione.
Per Germi è nuovamente l'occasione per dedicarsi a dipanare scenari
di malessere da vita di coppia, che finiscono per creare dei mostri, o comunque
ad alimentare un disagio tra conviventi che finisce talvolta per spingere ad
azioni inimmaginabili. La verità poi, verrà a galla quasi per caso, grazie ad
una fatale e risolutiva, brillante intuizione di Ingravallo stesso, uomo duro,
sin spietato, ma brillante e tenace come uno squalo, e sarà molto più semplice
e quasi naturale rispetto al polverone che l'indagine riuscirà a sollevare,
facendo emergere la condizione precaria e moralmente discutibile di ogni
personaggio in qualche modo vicino alla vittima.
Da considerarsi come una cosa a parte o parallela rispetto
all'elaborato, audace romanzo di Gadda, il film di Germi rimane un noir
stupendo, capace di trattenere lo spettatore, arricchendo l'indagine di
personaggi complessi ed emotivamente sfaccettati come è estremamente difficile
trovare in un giallo o noir fine a se stesso, concentrato esclusivamente o
quasi sul suo mistero portante…
Già dal titolo si capisce che la protagonista del film non poteva non essere Napoli, filmata in modo innamorato e indimenticabile da Sorrentino.
La storia viene raccontata da Parthenope (Celeste Della Porta da giovane, Stefania Sandrelli da anziana), una storia d'amore che ricorda a tratti Jules e Jim diFrançois Truffaut.
Nella seconda parte del film appaiono due interpreti (e interpretazioni) memorabili, il professore universitario Silvio Orlando e il vescovo Peppe Lanzetta.
Silvio Orlando è il maestro di Parthenope, il professore che la sceglie come successore, e ha un segreto, un figlio malato, e lo mostra a Parthenope (il figlio ha qualche somiglianza con Charlie, il professore super obeso di The Whale).
Peppe Lanzetta è perfetto per il suo ruolo, il vescovo alle prese con il sangue di san Gennaro.
Un film che è una gioia per gli occhi, tra l'altro.
Buona (partenopea) visione - Ismaele
Che Sorrentino ci abbia abituato alla dismisura, è un
dato di fatto. Che Sorrentino abbia un universo intimo e che spesso questo
universo resti aggrappato al suo interno pur illudendosi di darsi completamente
al pubblico, è un altro incontestabile dato di fatto. Che poi Sorrentino abbia
una qualità visiva eccezionale, che parte proprio da quell’universo intimo, da
quella particolare propensione a vedere le cose attraverso un filtro tra il
levigato e il mostruoso, tra luci iperrealistiche scintillanti e l’oscurità
grottesca di Francisco Goya, è altrettanto incontestabile.
Parthenope è
questo. È un distillato di Sorrentino, che torna ancora a Napoli e la omaggia
attraverso la parabola esistenziale di una donna attraente, amata da tutti ma
che poco si concede, pur dispensando a chiunque la sua attenzione. Parthenope,
interpretata dalla pressoché esordiente Celeste Della Porta, è
creatura immersa in sostanza metaforica, è la ovvia prosopopea (non la
superba presunzione, la figura retorica) di una città che nasce dall’acqua per
sedurre, per soffrire, per convivere con i fantasmi rimossi del passato e per
allontanarsi inesorabilmente da se stessa, continuando a coltivare il proprio
rifiuto affascinato e nostalgico…
…Paolo
Sorrentino non è nuovo
all’utilizzo della metafora e del simbolismo. Con E’ stata la mano di
Dio aveva già percorso le
strade di Napoli, che però erano principalmente scenario alla vicenda personale
di Fabietto, il protagonista, e poi si è scoperto alter ego del regista stesso.
Con Parthenope, Sorrentino rimane a Napoli ma fa della città un personaggio nel
corpo e nel viso splendido di Celeste Della Porta. La
prima parte del film è più legata al classico viaggio di formazione, che si
esaurisce e conclude (forse) di fronte al primo grande dolore di questa giovane
donna. Da quel momento in poi che non specifichiamo ma che sarà chiaro a
chiunque vedrà il film, Parthenope prende una strada accidentata, quella
appunto metaforica e simbolica in cui la fanciulla si fa città e, man mano che procede
nella sua ricerca di senso della vita, entra in contatto con ogni aspetto di
Napoli stessa.
Parthenope entra in contatto con l’ambiente dell’arte, e
si avvicina alla recitazione, arrivando a ricevere consigli da una grande
attrice, una diva di origini napoletane che nel look e nei modi ricorda
vagamente Sofia Loren. Si avvicina all’occultismo e alla magia della fede
folkloristica tipica della città: il Miracolo e il Tesoro di San Gennaro, il
Vescovo intermediario tra la città e il popolo, che vuole “fottere” la città
per il suo tornaconto. Entra addirittura in contatto con le viscere mafiose del
capoluogo campano, quando assiste a un “matrimonio” tra famiglie di camorra. Si
immerge nell’ambito accademico, aspetto forse meno noto di Napoli, ma importante
e significativo a livello internazionale, dopotutto è a Napoli l’Università più
antica d’Europa, la Federico II. E’ lì che Parthenope “si ferma” e mette
radici. Il riprendere canonico del racconto monografico di questa non più
giovane donna la ritrova docente in via di pensionamento, mentre dice addio
alla sua cattedra di Antropologia…