giovedì 17 ottobre 2024

Il marito - Nanni Loy, Gianni Puccini

Alberto Sordi è sempre un gigante, che sia vedovo, scapolo o sposato non cambia la bravura di Alberto Sordi.

questa volta si innamora di una violoncellista, nel "pacchetto" sono comprese la suocera e la cognata, oltre che il complesso musicale di musica da camera della moglie.

la musica è un po' pallosa per il marito, e la suocera e la cognata sono odiose, povero marito.

un film da non perdere, vedere per credere.

buona (coniugale) visione - Ismaele



 

 

Afflitto anche dalle difficoltà economiche dei suoi parenti, Alberto è sull'orlo del baratro, quando una vedova benestante, sembra prendere a cuore le sue sorti finanziarie,non del tutto "disinteressatamente".Tuttavia mentre sta per partire in sua "compagnia",la moglie ,mangiata la foglia,s'inventa un malore inesistente,mandando all'aria il "progetto" non del tutto ortodosso di Alberto, che dunque, sarà costretto a cambiare lavoro e a diventare rappresentante di dolciumi,dopo un divertentissimo scontro in ospedale con consorte e suocera.

Alberto Sordi è stato uno dei migliori attori di tutti i tempi,soprattutto il più versatile,unico il suo istrionismo, che gli consentiva di interpretare con successo qualsiasi personaggio,coprendo una gamma immensa di tipologie umane e sociali.Attore drammatico,brillante, ma soprattutto comico e in questa veste, ha prodotto le cose migliori. Questo film, gli consentì di gigioneggiare alla grande, come solo lui sapeva e riusciva a  fare.

Commedia divertentissima.

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Splendida commedia. Veloce, con dinamiche chiare, lascia a pensare parecchio sull’istituto del matrimonio. Sordi è in una delle sue vette; inoltre cura soggetto e sceneggiatura, e lo fa assieme a grandi del genere, come Sonego, Maccari e Scola e ai due registi, gente di livello come Puccini e soprattutto Loy. Da un florilegio di questo tipo facilmente poteva nascere un prodotto molto ben riuscito, come questo: non c’è una battuta fuori posto.

Il film ha il merito di far emergere bene l’insopportabilità di certe donne: invadenti, petulanti, capricciose, arroganti. Fanno di tutto, pur di ottenere ciò che vogliono: la protagonista si finge malata sempre all’occorrenza, per dar fastidio al marito e intralciarne i piani, quando non collimano con i suoi.

Il matrimonio come gabbia: un tema pirandelliano, qua ripercorso con più brio ma non minore autenticità…

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mercoledì 16 ottobre 2024

I quattro dell'apocalisse - Lucio Fulci

un film sorprendente, sembra un film a episodi, in realtà è una storia unica, con i quattro disperati e un'ultima parte sorprendente e commovente.

appare anche Tomas Milian, nel ruolo di un cattivissimo.

non perdetevi questo film, sceneggiato anche da Ennio De Concini, se mai capitasse, per sbaglio. in qualche canale tv.

buona (maschile) visione - Ismaele


 

 

Fulci segue le orme di Sam Peckinpah e dei suoi western rivoluzionari ed anarchici: addio antiche faide tipicamente a stelle e strisce tra indiani e cowboy; basta duelli frontali a mezzogiorno in punto, baciati dal sole a picco e coperti dalla polvere e dal sudore; basta lotte di liberazione in favore del popolo messicano e alla loro causa rivoluzionaria; addio trielli e piani messicani tesi, adesso si dà voce agli emarginati, alle figure che da sempre popolano il sottobosco western ma che non hanno mai avuto ruoli alla ribalta. Il protagonista, Stubby, è l’antieroe guascone e romantico, che da perfetto baro bugiardo compie, attraverso l’arco narrativo del film, il suo viaggio interiore fino a trasformarsi in un eroe atipico, un “cavaliere pallido”, un giustiziere solitario dalla morale ambigua che prende il sopravvento sull’antagonista effettivo della pellicola, Chaco, caratterizzato da Milian come una sorta di rockstar maledetta dotata di un fascino perverso e magnetico tanto da rubare la scena al personaggio di Stubby/ Testi, almeno finché i due compaiono insieme.

La sceneggiatura fu scritta da Ennio De Concini, che si ispirò ad una serie di racconti del 1868 pubblicati da Francis Brett Harte con il titolo di The luck of roaring camp.

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…La scena per me più bella non è però legata a torture, spari o morte, ma al loro opposto. La nascita di Lucky, che la prostituta Bunny porta in grembo, è un momento emozionante, il momento che rende il film morte e vita insieme. Il villaggio di montagna, abitato solo da uomini in cerca d'oro con più di un problema con la giustizia alle spalle, si stringe attorno al parto, i freddi e disillusi minatori ritrovano la loro umanità e un sincero affetto verso il neonato che li porterà ad adottarlo. 
Un western che fonde così bene tanti aspetti, sfumature e contorni non può passare inosservato, né essere bollato come prodotto di scarso valore. Anzi, è un film da scoprire e custodire. Non a caso inserito nella retrospettiva sul western all'italiana tenutasi a Venezia.

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Imperfetto, erratico, indeciso; eppure il film possiede una sua indubbia malia. A causa, forse, di quelle languide melodie folk? Per la simpatia che ispirano i personaggi, tutti emarginati o diseredati o freak? Oppure per i temi del viaggio e della perdita che soffondono la storia d'una tenera malinconia? Fulci non risparmia scene forti, ma tutto è ammorbidito, come se lo si osservasse dalla lontananza del ricordo. Adeguati tutti gli attori; un plauso alle presunte seconde linee dei Lastretti e Corazzari, volti degni del western maggiore.

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Un giocatore d'azzardo, una prostituta, un alcolista, un nero medium sono in prigione e sfuggono allo sterminio dell'intera cittadina. Inizia poi il viaggio dei quattro, lungo il quale incontrano Chaco (Milian), un messicano apparentemente amico. Il film è uno spaghetti western brutale e psichedelico (musiche simil-primi Pink Floyd) e deve molto al carismatico Milian (non doppiato), che interpreta un messicano sadico fatto di pejote. Nella versione censurata sono tagliati lo stupro e lo sceriffo scuoiato vivo. Un piccolo diamante grezzo.

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Il West di Lucio Fulci è un west malinconico ma sognante, delirante quanto dolce. Allo stesso tempo sa essere incantevole come un sogno, come un altrove che tutti vorremmo, ma sa anche essere spietato e triste come un’inferno dal quale scappare. Anche la colonna sonora e le sue canzoni anacronistiche, incidono sul film come in poche altre occasioni, e sanno creargli quel lirismo difficile da raggiungere, senza però scadere nella retorica di una grammatica ricattatrice. Come in “Pat Garret and Billy the Kid” del Maestro Peckinpah, omaggiato da Fulci nella iperrealistica sparatoria iniziale a Salt Flat, anche ne “I Quattro dell’Apocalisse” ci troviamo in un west malinconico, e come in tutte le malinconie c’è un qualcosa di sensuale che richiama l’abbandono dei sensi, i piaceri dell’alcova più intima e segreta. Quei sogni ad occhi aperti, dell’adolescenza più sognatrice, dove le passioni e le pulsioni sessuali sono irrefrenabili e ci si sente sempre come ubriachi buttati sotto il sole di luglio. C’è un piacere, un orgasmo silenzioso e lento, che pervade tutte le scene, tutte le inquadrature, grazie alla sapiente fotografia e alle intuizioni registiche di Fulci stesso.
“I Quattro dell’Apocalisse” è un sogno che vira nell’incubo più volte, ma preserva sempre lo status di altrove onirico in cui tutto e possibile, e in cui ogni sensazione è provabile.

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Molto buono: Lucio Fulci realizza un western in cui il Mito dell'West (classico o post-leoniano che sia) viene smitizzato, a partire dai personaggi.

I/la quattro dell'Apocalisse indicati/a dal titolo, infatti, non possono essere considerati eroi/na, e l'omissione del termine "cavalieri" sembra quasi evidenziare tale aspetto: infatti i/la protagonisti/a di questa opera sono un ubriacone, un nero mezzo pazzo, una prostituta incinta e un baro appena scarcerati/a. 

 

A loro si oppone, per carisma e ferocia, il personaggio di Chaco, un personaggio tanto carismatico quanto sadico: in alcuni momenti sembra quasi una sorta di figura messianica (la scena in cui droga i/la protagonisti/a ricorda, almeno al sottoscritto, una sorta di "eucarestia" blasfema, accentuata dai movimenti 'manuali' della macchina), in altri rivela una spietatezza quasi inumana (la scena in cui si mostra il risultato della strage della carovana cristiana incontrata precedentemente dal quartetto è spiazzante, specialmente per la presenza di vittime infantili), ma alla fine, di fronte all'approssimarsi della Morte, è la codardia e la bassezza che prendono il sopravvento, ridimensionando notevolmente quello che può essere considerato l'unico personaggio davvero "mitico" (in quanto è l'unico che segue davvero i codici dettati dal Genere) del film.

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lunedì 14 ottobre 2024

ricordo di Giorgio Ferrari

 


Addio a Giorgio Ferrari: nel suo "Vicoletto" tanti film indimenticabili - Massimiliano Rais


Addio a Giorgio Ferrari che amava il cinema e le sale consacrate alla settima arte. Aveva 67 anni, era nato a Cagliari. Ha contribuito allo sviluppo della cultura cinematografica nella Città del Sole.

Il suo avamposto è stato "Il Vicoletto”, la piccola sala in via San Giacomo, nel quartiere di Villanova, lo spazio destinato alle pellicole di qualità, nel solco di scelte originali, spesso alternative a quelle degli spazi più grandi.

Prime visioni e retrospettive, Il Vicoletto, nato alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, ha sempre regalato belle sorprese agli spettatori. Il critico cinematografico Gianni Olla, custode di tante memorie in celluloide, in un articolo pubblicato sulla rivista Cinemecum, ricorda che «oltre alla sempre presente Cineteca sarda, garante non solo dei dibattiti ma anche di una qualità filmica basata sui classici della Settima arte, nacquero piccoli cineclub “resistenti” come Il glorioso Vicoletto di Giorgio Ferrari che si appoggiava al catalogo della San Paolo o alla normale distribuzione commerciale».

Ferrari era il grande cerimoniere. Nel suo regno si muoveva con passo felpato, signorilità e aplomb. Impegno totalizzante: dalla consegna delle tessere, secondo lo spirito del cineclub, alla gestione delle apparecchiature per la proiezione sino al garbato ed elegante saluto agli spettatori al termine del film.

Lo animava il grande amore nei confronti del cinema, passione che ha arricchito la sua vita e che in tempi più recenti lo ha portato a fondare il Greenwich d’essai in via Sassari, che continua ad essere, in un ambito che ha subito negli ultimi anni vorticosi cambiamenti, un punto di riferimento per tantissimi cinefili in linea con l’esperienza del Vicoletto.

Giorgio Ferrari, che ha ricevuto in dono una voce molto adatta per la recitazione, è stato anche attore teatrale. È ancora vivo il ricordo della sua Mandragola portata in palcoscenico, nei primi anni Ottanta, con spettacoli destinati agli studenti. Schivo, per lui era meglio costruire che apparire. Non ci sono sue foto sul web. Nell'immagine pubblicata sui social dal figlio Andrea, musicista, leader del gruppo Carovana Folk, si mostra sorridente.

Non resta che ringraziarlo per l'impegno, per le scelte felici e per i bellissimi film visti, anche più volte per afferrarne tutti i significati, nel grande schermo suo Vicoletto.

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Dalla propaganda nazista al film maledetto di Jerry Lewis - Federico Greco

 

domenica 13 ottobre 2024

Iddu - L'ultimo Padrino - Fabio Grassadonia e Antonio Piazza

Elio Germano e Toni Servillo (bravissimi) sono i due protagonisti del film, e tutti gli attori e attrici sono in ottima forma.

la storia è quella di Matteo Messina Denaro, che vive come un sorcio, perdendo potere e prestigio.

il boss si fida di Catello, con la morte sempre vicina.

i due sono personaggi tragici, senza futuro.

sembra una storia del passato, è solo dell'altroieri.

pizzini e puzzle sono il lavoro e la passione e il tormento di Matteo Messina Denaro.

un film cupo, oscuro, nel quale i due protagonisti hanno un rapporto quasi come quello di un padre con un figlio.

e poi c'è la polizia, e i servizi segreti, che proteggono il boss, nel film come nella realtà.

un film che riesce a coinvolgere, senza deludere.

buona (mafiosa) visione - Ismaele



 

Iddu è un’opera che, pur non priva di difetti, riesce a distinguersi grazie alla straordinaria qualità delle interpretazioni e a una regia coraggiosa, capace di mescolare realtà e finzione, creando una riflessione profonda sulla condizione umana e sulle maschere che ognuno indossa. Nonostante le sue criticità, il film merita attenzione per l’originalità del suo approccio e per la capacità di offrire un ritratto inedito di una delle figure più enigmatiche e controverse della storia contemporanea italiana.

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Fatto sta che nella visione di Grassadonia e Piazza, la Sicilia è una terra in cui la linea genealogica è impazzita, i padri hanno abdicato e i figli hanno smarrito la rotta. La trasmissione è stata spezzata o meglio è stata inquinata dalle logiche malate del sopruso e del potere, quelle della mafia e delle istituzioni oscure e corrotte. Come sempre la loro scrittura rimodella il dato di realtà, la storia, con la forza dell’invenzione. Ma se in Sicilian Ghost Story la chiave fantastica era una specie di rivolta contro l’orrore della cronaca, qui la deformazione romanzesca piega verso il grottesco, in un’ironia che si fa sarcasmo e che disegna una galleria di maschere ottuse e inquietanti. Però non è un semplice ritorno a registri e schemi di certo cinema politico italiano. Perché lo sguardo di Grassadonia e Piazza ha un’originalità autentica, sa costruire la tensione nei momenti dell’azione, ma soprattutto gioca su una molteplicità di prospettive: un realismo di fondo che si coniuga a una specie di astrazione nella gestione degli spazi, del décor, dei costumi e dei colori, che si stratifica di simboli, di rimandi a un orizzonte mitico, ancestrale. Certo, a differenza del film precedente, non sembra esserci molto margine di sovversione. E qualcosa, ogni tanto, sembra andare verso l’eccesso, sfuggire dalle mani. Eppure in Iddu c’è la libertà di una rilettura, di un’interpretazione, di un pensiero che può rischiare anche il tradimento. Ma che è soprattutto un sano atto di coraggio.

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Se i primi minuti sono quelli fondanti rispetto a ciò che viene dopo, non c’è dubbio che “Iddu” sia un film di morte e di morti. Non solo perchè la storia si apre all’interno di un casolare dove Messina Denaro assiste agli ultimi attimi di vita del genitore per poi sostituirlo scavandosi da solo la propria tomba con un’esistenza che tale non è. Lo stesso Catello (interpretato in maniera superba da Toni Servillo), interlocutore privilegiato di Messina Denaro, attraverso un rapporto epistolare orchestrato dai servizi segreti per scovare il famoso latitante, ne è una delle sue tante versioni: magari più vitale di altre per il desiderio di non abdicare al sogno della vita - quella di costruire un albergo che gli consenta di pagare i suoi debiti e assicurare ai familiari una vita tranquilla - ma comunque mortifera (“sei un ex in tutto” gli ricorda la moglie in maniera sprezzante) per i fallimenti che lo hanno portato prima in prigione e poi a tradire se stesso consegnandosi al nemico. Tombale - alla pari dell’abitazione in cui si rifugia Messina Denaro - è l’appartamento dove Catello ritrova la famiglia dopo essere uscito di prigione e ancora è la morte che invoca quando sostiene che per riuscire a convincere il boss a eleggerlo a interlocutore privilegiato si dovrà evocare dall’oltretomba la figura del padre a cui peraltro lui stesso cercherà di sovrapporsi nelle parole rivolte al potente latitante…

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venerdì 11 ottobre 2024

Vivere in pace – Luigi Zampa

commedia e tragedia s'incontrano in questo film, in una storia ambientata durante l'occupazione nazista.

in un paese dell'Appennino la guerra arriva quando due statiunitensi appaiono in una casa del paese.

Aldo Fabrizi è straordinario, fa ridere e poi fa piangere.

un film sottovalutato, e poco visto.

non perdetevelo.

buona (resistente) visione - Ismaele


 

 

QUI si può vedere il film completo, su Raiplay

 

 

Film di Zampa che sa di neorealismo (piuttosto ovvio, visto che si è nel 1947), si regge soprattutto sulla grande professionalità di Fabrizi e sulla linearità della storia, che miscela dramma e commedia. Forse eccessiva la scena del tedesco e dell'americano che fraternizzano, specie pensando al "dopo". Un film che meriterebbe di essere anche proiettato nelle scuole per capire il clima di allora. Di puro mestiere le interpretazioni degli altri attori. Valido.

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A metà tra neorealismo e commedia, il film di Luigi Zampa rapresenta un interessante terza via nel cinema italiano del dopoguerra. Anche se gli aspetti più crudi e violenti del conflitto non mancano, dalle rappresaglie fino alla paura di essere cacciati dal proprio paese, le vicende di una famiglia di contadini umbri (con il pater familias Aldo Fabrizi che cerca di barcamenarsi tra una parvenza di normalità e la necessità di difendere i propri cari) si intrecciano con quelle di due soldati americani a cui danno ospitalità. La risalita dei tedeschi, in fuga ma ancora pronti a vendicare il collaborazionismo verso gli Alleati, cambierà le carte in tavola e stravolgerà la vita di tutti. La lunga parte centrale, con il soldato tedesco ed il nero americano che fraternizzano, complice una sonora sbronza, stempera i toni drammatici di un film che comunque non si esime dal raccontare tutte le storture e le atrocità dell'ultimo conflitto mondiale.

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Aldo Fabrizi negli anni '40 era il piu' bravo attore italiano in circolazione. I migliori registi dell'epoca lo sapevano e lo scritturavano per i loro Capolavori (Roma Citta' Aperta, Mio figlio professore, Guardie e Ladri...). Qualunque interpretazione facesse, lasciava un segno indelebile: poteva passare dalla scenetta comica con un S.S. nazista ubriaco, ad immolarsi stoicamente per salvare un soldato nemico redento, e risultare credibile, in una manciata di minuti. Nel film neorealista di Luigi Zampa del 1946, insieme ad un'altra grande attrice del passato Ave Ninchi, ci fa commuovere e ci fa sorridere anche quando "vivere in pace", in tempo di guerra, risultava davvero difficile per chiunque, anche a chi si e' sempre fatto gli affari propri... Da vedere assolutamente.

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Toccante, poetico e commovente.

E' un film per nulla datato che ancora oggi risulta bello, toccante, poetico e commovente. Fabrizi, nel ruolo del protagonista, è davvero straordinario e dà vita a un personaggio ricco di sfaccettature, in grado di passare dalle tonalità della commedia a quelle del dramma. Zampa, infine, dirige con maestria, poesia e ispirazione.

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giovedì 10 ottobre 2024

Stanza 17-17 palazzo delle tasse, ufficio imposte - Michele Lupo

un gruppo di evasori fiscali diventa una banda contro l'agenzia delle entrate

il direttore dell'ufficio è Ugo Tognazzi, che appare poco.

la banda, un po' come ne I soliti ignoti, cerca di riprendersi i soldi "ingiustamente" versati all'Ufficio delle Imposte.

la lotta fra gli evasori e l'amministrazione è spesso divertente,

buona (evasiva) visione - Ismaele


 

 

Michele Lupo sa sempre come si fa per mantenere alto il ritmo di un film. In questo ripropone il tema del furto tecnologico organizzato da ladri improvvisati ma ingegnosi e lo fa senza grande originalità ma con onesto divertimento. La parte sul western che sta tramontando e su Sartana che fa le cadute... su un noto materasso per una pubblicità è divertente ma anche amara. E Pisacane, vecchio ma sempre bravo, è quasi commovente.

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Purtroppo Ugo Tognazzi, nonostante l'ottima performance e il suo gustosissimo personaggio, appare davvero troppo poco (circa 20 minuti). Il film comunque è un ibrido piuttosto riuscito tra giallo e commedia, con spunti davvero divertenti ed interessanti. Il cast è ottimo: Gastone Moschin e Franco Fabrizi primeggiano, mentre inferiori al loro standard appaiono invece Leroy e Stander. Alla fine il film non è malaccio, anche tenuto conto del gustoso finale.

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…Concludo dicendo che si tratta di un film riuscito, a cui non mancano le trovate comiche ed originali.

Provvisto inoltre di una trama ben costruita che non annoia mai e di attori bravi nell'aver saputo interpretare i loro personaggi.

A parer mio merita quindi di essere rivalutato, sebbene sia cosciente del fatto che è difficile riuscirci con dei film che hanno raccolto in prevalenza giudizi negativi. Ma un'opportunità gli va senz'altro data perchè riesce ad intrattenere in maniera intelligente e soprattutto originale. Insomma è in possesso di quelle qualità che gli permettono di farsi rispettare nel genere di cui fa parte. Lo consiglio.

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Qui Lupo cerca di salire la china per passare ad un cinema di serie A deciso, ci riesce in parte, anche avvalendosi di una partecipazione straordinaria e ben caratterizzata di Tognazzi, Sceneggia lui steso in coppia con Sergio Donati, nome altilenante ma non male del nostro cinema. La traccia sarebbe forte e calzante, ma sono troppe le macchiette dove si disperde il gusto del racconto, il personaggio di Tognazzi è la chiave di volta, ma viene sfruttato fino ad un certo punto. La trovata gialla del colpo avrebbe dato più risultati se si fosse inserita e montata più intelligentemente. Un cast di rispetto e ben impiegato fa il giusto coro.

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