mercoledì 2 aprile 2025

El autor (Il movente) - Manuel Martín Cuenca

il film sembra comico, ma solo in parte, la realtà è tragicomica.

Javier Gutiérrez (già protagonista di Non ci resta che vincere e La isla minima, fra l'altro) è il bravissimo Alvaro, autore che scrive osservando quello che succede intorno a lui, all'inizio, e poi quello che lui fa succedere.

una sceneggiatura senza pause non fa annoiare un minuto e Alvaro scrive, scrive, come una droga.

un film da non perdere, promesso.

buona (letteraria) visione - Ismaele

 

 

 

Il protagonista di El autor è quindi un tipo invidioso, ambizioso e in crisi: professionale, esistenziale e di coppia. Un personaggio con tutti gli ingredienti per far piangere il pubblico, e che invece, con l’umorismo nero che distilla il film di Martín Cuenca, lo fa ridere: non solo si ride della sua goffaggine, della sua meschinità e delle sue manipolazioni, ma anche perché è facile riconoscervi la bassezza di ciascuno di noi. Siamo tutti Álvaro: sognatori, stupidi, audaci e ossessivi. Perché… chi non ha mai sognato di superare il prossimo, a qualsiasi prezzo?...

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Dentro c’è un po’ di tutto da Manhattan di Allen a Delitti e segreti di Soderbergh, da Il ladro di orchidee di Jonze a Vero come la finzione di Forster. Il tutto condito con una spruzzata di Polanski che non fa mai male. C’è inoltre un vago rimando metacinematografico a Le vite degli altri, ilm del 2006 di Florian Henckel von Donnersmarck di cui Manuel Martín Cuenca attinge nella fisicità del suo protagonista, uno straordinario Gutiérrez (già visto ne Crimen perfecto e La Isla Minima) che allude e non poco al compianto Ulrich Mühe nel celebre film tedesco.

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Film dalla trama metaletteraria alquanto originale presa in prestito da un romanzo di Cercas, che quando si tratta di giocare con le pagine bianche ancora da scrivere non è secondo a nessuno. Il piccolo Alvaro si affanna per cercare di acchiappare l'essenza dell'essere scrittore "de verdad", tanto che finirà per mischiare pericolosamente realtà e finzione. Regia senza fronzoli, buona prova di Gutiérrez. Se non fosse per il ritmo un po' troppo blando e perché si letteralmente sprecata la location sivigliana si potrebbe anche dare una mezza palla in più.

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El Autor es una película excepcional, uno de los mejores títulos españoles en lo que llevamos de año que te atrapa de principio a fin y no te suelta. La película consigue a través de unos giros sorprendentes hipnotizarte como hacia tiempo que no sentíamos y según avanza el film la intriga consigue meterse en el cuerpo creando una sensación de malestar hasta llegar a agobiar. La mediocridad es parte principal del film donde todos los personajes rebosan  imperfección  y conocedores de ello intentan sacar el máximo provecho manipulando al que tienen al lado. Todo ser es despreciable, unos más que otros, y se fuerza al máximo para que los hechos ocurran como algo natural  pero con un único propósito.

Manuel Martín Cuenca es un director de actores y quedó demostrado en Caníbal pero aquí en El Autor es todavía mas evidente con un Javier Gutiérrez que simplemente está soberbio y es el máximo candidato desde ya a llevarse todos los premios gordos del cine español. El actor asturiano es el alma del film esos no hay lugar a dudas sin el la película no seria la misma pero seria injusto no resaltar a los actores que acompañan la película como son Antonio De La Torre y sobre todo la revelación de la obra como es Adelfa Calvo.

En El Autor todo es maravilloso gracias a ese personaje ruin y malvado que a pesar de todo a veces empatizas y solo unos giros finales hacen que no estemos ante un guion y montaje perfecto.

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El filme tiene detalles sencillos pero ingeniosos, como tener de oído el baño de Álvaro que da a la cocina de una pareja de inmigrantes mexicanos, interpretados por Tenoch Huerta y Adriana Paz. En la pared observamos las conversaciones de la pareja, siluetas, sombras, a punto de convertirse en personajes de la obra magna de Álvaro. A medida que sabe más de sus vecinos y lo transcribe empieza a ser felicitado por éste demonio instigador que es el profesor de literatura, que valga la curiosidad tiene cenas opíparas que suelen acompañar éstas tertulias…

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lunedì 31 marzo 2025

Nonostante – Valerio Mastandrea

siamo nel limbo prima della morte definitiva.

nell'ospedale, dove quasi tutto il film è girato, convivono i malati, compresi quelli in coma, che sono i più vicini alla morte.

le anime dei malati in coma vagano, si conoscono, addirittura provano sentimenti che confinano con l'amore.

il film è questo, anime in volo, senza peso, come i personaggi dei quadri di Chagall, in attesa di uno sviluppo, quasi sempre tragico.

non c'è molto da ridere, solo da soffrire e sperare insieme ai personaggi.

un film da non perdere, con meno copie di Biancaneve e Follemente, ma un ottantina di cinema lo programmano, per fortuna.

buona (chagalliana) visione - Ismaele

 

 

 

 

È un film su cui aleggia lo spettro della morte, certo, la linea verticale della malattia. E soprattutto il terrore della perdita definitiva, quello della memoria che trascolora nell’indistinzione dell’oblio. È l’affanno del protagonista, che vuole lasciare una traccia impossibile nel suo nuovo amore e che rivede in questa condanna alla dimenticanza il riflesso di suo padre in riva al mare. Ed è significativo che Mastandrea dedichi il film al padre Alberto, scomparso nel 2014, a riprova di come questi argomenti non siano delle semplici tesi astratte. Eppure, nonostante questo, non si tratta di un film lugubre, funerario. Tutt’altro. Sin dalla scena iniziale, in cui Mastandrea attraversa gli spazi dell’ospedale in un movimento continuo che sembra suggerire le traiettorie di un musical, il film è animato da uno slancio, da un’urgenza di vita irriducibile. Quando nell’ultima scena, il medium involontario Giorgio Montanini chiede “Da dove comincio?”, Dolores Fonzi, da poco risvegliatasi dalla sua bolla, risponde: “Conviene sempre dalla fine”. Perché l’epilogo è fondamentale, sì, ma poi occorre risalire nella storia, ritrovare tutto un flusso infinito di cose, di sensazioni ed emozioni, di sentimenti accolti o fuggiti. È chiaro che in questo flusso si possono perdere le coordinate, gli equilibri, il baricentro. Ma è così che va la vita, forse. Va oltre la possibilità e la volontà di un controllo, oltre le difese e le abitudini. Chiede ogni tanto, l’assunzione di un rischio, un salto in lungo che assomiglia a un salto nel vuoto. Anche con l’affanno, con la disperazione, la paura. Qualcosa da fare, anche se non si sa esattamente il motivo, solo per rispondere all’imperativo di un sentimento. Ed è esattamente il rischio che si prende Valerio Mastandrea. Il suo film può mostrare ingenuità, difetti, impasse, giri a vuoto, ma ha il coraggio e la sensibilità di liberarsi, di volare in alto. Di tornare a vivere a cuore aperto.

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…Il "Ghost" di Valerio Mastandrea è in balia del fato, di risvegli improvvisi ed indesiderati, di morti inaspettate e irragionevoli ma ciò che più mi ha colpito dell'interpretazione che il film dà dei misteri dell'esistenza è la forza con cui il sentimento irrompe nei cuori. L'amore scardina convinzioni ed abitudini e spinge a spiccare il salto anziché fermarsi per paura sulla linea bianca dello stacco, linea dietro alla quale il piede dovrebbe inarcarsi lasciando esplodere, finalmente, l'energia di un balzo. Quante volte vediamo il "Lui" di Mastrandrea provare qual gesto e poi fermarsi di fronte alla sabbia, intimorito dalla felicità dell'abbandono?

Personalmente ho apprezzato questo film sia per la delicatezza dell'autore sia per motivi personali. Diciamo pure che mi sono sentito in coma per troppi anni, incapace di scrollarmi di dosso abitudini e illusorie certezze per spiccare il salto nel vuoto. Salto che infine è arrivato, elastico ed energico, nel momento in cui un'ospite improvvisa si è impossessata della mia "stanza d'ospedale" mettendola a soqquadro. Sentire il proprio animo volare in una danza di emozioni è stato un attimo ed è ancora emozionante dopo tanti anni.

Il "Ghost" di Valerio Mastandrea ha la sua Whoopi Goldberg, un medium che lavora in ospedale e mette il mondo dei vivi in comunicazione con quello dei "non vivi". Il suo compito è fondamentale nel racconto, fondamentale come l'innamoramento, che altrettanto irrazionale ed inspiegabile congiunge gli amanti in un solo essere, senza logiche apparenti, senza spiegazioni plausibili, senza perché rasserenanti. L'amore obbliga a giocare a carte scoperte e ribaltare le regole della ragione. "Nonostante" ci prova con il linguaggio simbolico dell'uomo che muore all'apatia per risvegliarsi, si spera, all'interno della dimensione intima ed accogliente di una storia d'amore. La speranza c'è ed è per tutti. 

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…A partire da una trama non troppo originale, il film racchiude tutta la brillantezza nel modo fantasioso di rappresentare la morte. Quando gli alter ego attivi dei personaggi in coma si avvicinano a qualcuno che sta rischiando di morire vengono travolti da una bufera di vento. A quel punto devono ancorarsi saldamente a qualcosa o qualcuno, ovvero tenersi forte alla vita.

Il ricorrere delle folate di vento assomiglia agli estratti di musica classica che, in Figli, venivano fatte risuonare quando i neonati iniziavano a piangere disperatamente. La trama realistica, con questa trovata, si fa fantastica – a tratti onirica. Come direbbe Dino Buzzati, attraverso la fantasia “si intensifica il concetto” della morte e della vita. Una versione della copertina del film, non a caso, vede Mastandrea tenere salda Fonzi che fluttua in aria, imitando il quadro La passeggiata di Marc Chagall. È un’immagine vincente perché esprime la commistione tra concretezza reale e fantasia impossibile che dà la cifra più brillante e vincente a NonostanteUn approccio poetico alla narrazione della morte, che fa sorridere anche quando sta accadendo qualcosa di propriamente triste…

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Il registro espressivo si apre così a una serie di libertà che altrimenti sarebbe stato più arduo maneggiare, anche se sotto il punto di vista strettamente narrativo Mastandrea e il suo co-sceneggiatore Enrico Audenino (già al lavoro su Ride) scelgono di non allontanarsi mai dalla prassi, e soprattutto dalle regole. Ed è questo uno degli elementi che contribuiscono ad appesantire la visione di Nonostante: se la scelta della classicità permette una pulizia del racconto esemplare, spingendo lo spettatore verso un canovaccio che già conosce, e può dunque affrontare semplicemente, la pressoché totale mancanza di scarti rendono il film prevedibile, senza che la verve di un gruppo di attori affiatato sia in grado di ravvivare l’interesse per vicende che si sa già dove andranno a parare, in un modo o nell’altro. Anche l’irruzione in scena di un personaggio femminile che fa breccia nel cuore di Mastandrea, costringendolo per la prima volta a riflettere con serietà sul suo ruolo “inanimato”, appare meccanico, come se fosse indispensabile oliare gli ingranaggi di quando in quando. Lo certifica anche la necessità di ricorrere a una figura pienamente viva, un uomo (Giorgio Montanini) che chissà perché e per come riesce a percepire la presenza di queste anime in attesa, e a parlarci: deus ex machina fin troppo esibito, nonostante un ingresso in scena roboante – canta al microfono Non voglio mica la luna, portata al successo da Fiordaliso – si tramuta a sua volta in un personaggio ovvio, cui verrà riservato il compito che è poi l’interrogativo dell’intero film: cosa lasciano dietro di sé le persone che non sono ancora morte ma non possono relazionarsi con i viventi? In questa riflessione sulla morte, sulla sua (non) accettazione, e su cosa significhi “sentirsi vivi” Mastandrea non riesce a infondere la vita, se non dovendo ricorrere alle sue arcinote qualità attoriali. Si percepisce l’apprezzabile volontà di ricercare una leggiadria in aperta opposizione all’ambientazione ospedaliera, e se si fosse osato di più attraverso il grottesco forse alcuni dei passaggi a vuoto del racconto sarebbero stati compensati. Si ha l’impressione che Mastandrea possegga un proprio sguardo, o sia almeno agitato da sussulti e ossessioni non necessariamente conformi alla prassi, ma deve ancora trovare la quadra del proprio discorso espressivo, tra uno svolazzo poetico e una battuta sapida.

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domenica 30 marzo 2025

Berlino, estate '42 - Andreas Dresen

A un gruppo di giovani antinazisti che inviavano segretamente messaggi in Unione Sovietica la Gestapo diede il nome di Orchestra rossa.

Il regista segue tutti, ma sopratutto il martirio di Hilde Coppi nella sua permanenza in prigione, dove partorì un bambino, Hans.

Hilde finirà ghigliottinata come tutti gli altri, come negli stessi anni accadde al gruppo della Rosa bianca.

Film di amore, resistenza, coraggio, violenza e morte, c'è un tempo per l'amore, quello per Hans padre e Hans figlio, ed è un tempo che durerà per sempre.

E' un film necessario, per ricordare il passato e temere il futuro.

Si può trovare solo in una quarantina di sale in tutta Italia, cercatelo, non deluderà nessuno (tranne i nazisti).

Buona (resistente) visione - Ismaele


ps1: per questi tempi tristi nei quali chi dice qualche parola contro la enormemente costosa militarizzazione dei paesi europei viene tacciato (da Giorgia Meloni) di volere l'Europa come una comunità hippie (chissà se lo direbbe ancora se la figlia crepasse, fra qualche anno, non glielo auguriamo, per portare la democrazia nel mondo)

ps2: mutatis mutandis, nel nostro piccolo, mi sono venuti in mente i giovani di Ultima Generazione, spesso persone laureate in università pubbliche italiane (mica come quella ministra impresentabile e insopportabile che si compra la laurea da fuorilegge autorizzati), alle quali si cerca di rovinare la vita in tutti i modi, a partire dai fogli di via, come a tutti gli altri sotto minaccia del DDL 1660, misura abbastanza fascista (da parte di un governo impresentabile e insopportabile).


 

  

Apparentemente freddo in una ricostruzione che guarda al martirio della protagonista sul modello di Dreyer (Hilde che volge lo sguardo verso la luce chiudendo gli occhi prima di essere ghigliottinata), Berlino, Estate ’42 trova invece nei momenti più privati una coinvolgente intensità, a cominciare dal legame con il figlio appena nato fino a rapporto con la sua carceriera, Miss Kuhn, ottimamente interpretata da Lisa Wagner, che non scende mai in un inutile sentimentalismo ma nel quale si percepisce una complicità nascosta e un rispetto autentico. Evidentemente quella di Hilde Coppi è una storia che Dresen sentiva particolarmente. La voce fuori-campo oggi del figlio ottantenne sulla madre dimostra quanto queste lettere d’amore (scritte proprio dalla protagonista) hanno ancora lo stesso impatto nel corso del tempo. Potrebbe sembrare un finale di troppo, invece sottolinea ancora di più l’eredità lasciata da Hilde Coppi.

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La qualità migliore del film (presentato a Berlino) è la finezza con cui mette in scena la "normalità" della vita sotto un regime, avvicinandosi alla complessità di anni fa, portata ai massimi livelli dal primo Heimat di Reitz. Di contro, con l'avvicinarsi dell'arresto dei Coppi, la fotografia da luminosa si fa cupa, addensando le ombre e i grigi, e porta a una parte finale che mostra in maniera classica soprattutto il destino tragico di Hilde, arrestata all'ottavo mese di gravidanza, costretta a partorire in prigione e poi decapitata nel 1943. Ma quando l'attrice Liv Lisa Fries si muove con un vestito rosso fuoco nel carcere in cui è detenuta, da una semplice apparizione si percepisce la forza della sua esistenza e di conseguenza la necessità di questo film.
Berlino, estate '42 è un ritratto dolce e malinconico di un'esperienza di militanza dimenticata dalla storia ma rivivificata dal cinema. In particolare, Dresen trasforma la cronaca storica nell'elegia di una donna indomita, spaventata e per questo umanissima, confermandosi autore capace di comporre ritratti femminili di notevole impatto, dopo Una mamma contro G.W. Bush. Nell'incontro tra storia e finzione, il regista sa fare del solido cinema drammatico, trasformando un episodio minore in un monito universale sulla necessità di resistere contro un potere abnorme.

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è il fulcro della vicenda, con una narrazione che alterna in continuazione i tetri ambienti della galera al sole che benedice la voglia di vivere dei protagonisti. 

Dresen è molto bravo a rendere tutti i suoi personaggi estremamente veritieri, senza scadere nella retorica del nazista brutale e dell’antinazista puro e senza paura. 

Infatti, se da un lato mostra una Hilde intimorita e piena di paura per la sorte sua e del piccolo Hans, il bambino chiamato con lo stesso nome del padre, in cui riesce a trovare la forza per non abbandonarsi alla disperazione, dall’altro descrive i suoi carcerieri senza i cliché di genere. Riuscendo anche a donare alla secondina Anneliese Kühn (Lisa Wagner) una parvenza di umanità.

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A partire da Hilde, minuta e volitiva neomamma all’ombra del patibolo, capace di consolare tutti senza risultare patetica, che pare essere attraversata per alcuni istanti decisivi dal dolore profondo e ancestrale di una madre come una protagonista di diversi film di Ken Loach. I rari, misconosciuti e volontariamente a lungo taciuti episodi di resistenza antinazista definiti dalla Gestapo come la cosiddetta “Orchestra rossa” sono stati occultati alle masse tedesche occidentali fino agli anni settanta in quanto i resistenti erano perlopiù comunisti, orientati e in contatto con l’URSS. Il sessantenne Dresen che proviene dalla Turingia, quindi dalla ex Germania Est, ha come provato a scostare l’alone di propaganda eroica (ma più attinente al vero) che su queste ragazze e ragazzi ammazzati dai nazisti è pesata nelle rievocazioni storiche delle autorità sovietiche nel tempo. Ponendo Hilde, Hans, Harro, Libertas, ecc… sul formato del grande schermo: esistenze normali, qualunque, la cui etica, passione, giustizia sociale riprende finalmente a vivere.

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giovedì 27 marzo 2025

mercoledì 26 marzo 2025

Sinfonia per un massacro - Jacques Deray

Josè Giovanni e Claude Sautet, oltre a Jacques Deray firmano una sceneggiatura praticamente perfetta, interpreti bravissimi, Jean Rochefort primus iter pares.

un film nerissimo, senza scampo per nessuno.

da non perdere, se ci si vuol bene.

buona visione - Ismaele


 

QUI si può vedere il film completo in italiano

 

 

Avvincente e spietato. Personaggi scolpiti con secchezza e astuzia drammaturgica, montaggio senza tempi morti, dialoghi essenziali. Serrato nello svolgere una trama criminale senza concessioni redentive. La matematica delle interazioni (quella della teoria dei giochi, intendo) trova qui un esempio di come basta un niente a far quadrare o saltare tutto... Ciò che in questa pellicola non salta (ma quadra) è la qualità. Da vedere, senza distrarsi un attimo.

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Guardarsi sempre le spalle. E' questa la "morale" costante, in particolare, dei "polar" francesi. Jacques Deray, uno degli specialisti del genere, qui al suo terzo lungometraggio, è coadiuvato in sceneggiatura da José Giovanni che si ritaglia anche un ruolo nel film. La sceneggiatura è pressoché perfetta e nonostante in questo genere cinematografico sia sempre l'intimismo dei personaggi a prevalere sull'azione, lo si riesce a seguire fino alla fine. Più che buono.

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Questo noir a tinte fosche è imperdibile per gli amanti del genere. Tutto è ad alto livello la regia, la fotografia in bn algido e ripeto l’ottima ambientazione e la recitazione di alto livello. Un film anche malinconico e sottilmente ironico in modo beffardo dove estate solo IL DIO DENARO, la crusca del Diavolo, che fa diventare ingordi e famelici quelli senza valore umano e morale. Dove la fiducia è un optional ed esiste solo la dura legge del profitto e del guadagno illecito. Sono i classici “Affari sporchi”. Attori ed interpreti Jean Rochefort: Christian Jabeke Daniela Rocca: Hélène Valoti Claude Dauphin: Maurice Valoti Charles Vanel: Paoli José Giovanni: Moreau Michel Auclair: Clavet Michèle Mercier: Madeleine Clavet

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Deray ha debuttato qualche anno prima, e dimostra con questo film che la sua vena discreta è tutta dedita al noir e lo dimostrerà anche più avanti, anche se le sue possibilità spesso sono state offuscate dal divo del momento, a cui si è troppo dedicato. Qui la sceneggiatura è in mano anche a nomi come Claude Sautet e José Giovanni e ne vien fuori un film pieno di pathos coinvolgente con quell'atmosfera tipica del grande noir alla francese. Una storia intricata e particolare, dove anche la donna ha un suo ruolo importante e decisivo, cosa abbastanza insolita nel genere. Intrigo ben distribuito con dialoghi essenziali ed attori ben distribuiti nei rispettivi ruoli, compresi quelli scelti per motivi di coproduzione. La sinfonia menzionata del film è la colonna sonora scelta in maniera singolare che quindi non c'entra niente con il titolo del film.

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