lunedì 12 maggio 2025

L'eternauta - Bruno Stagnaro

l'origine dalla storia è l'immenso fumetto di Hèctor Oesterheld, lui e la sua famiglia hanno pagato cara, tutti ammazzati dai militari assassini, così amati da Milei.

la serie di Bruno Stagnaro, prodotta da Netflix, ambientata a Buenos Aires, parte da una nevicata che sorprende tutti, e quella neve è accompagnata da un dramma incomprensibile, quelli che sembrano alieni hanno conquistato il paese, forse la Terra intera, non si sa.

c'è un virus mortale nell'aria, le comunicazioni sono interrotte, e con difficoltà si riesce a trovare una strategia di sopravvivenza.

una serie che merita, anche se il fumetto è un'altra cosa.

buona (misteriosa e di sopravvivenza) visione - Ismaele



 

 

…para buscarle un costado positivo al asunto, por lo menos la serie sirve para volver a traer a la luz el calvario de la familia Oesterheld, símil repaso histórico a colación, y para demostrar que el dinero público deriva en un buen nivel técnico incluso en el cono sur, con fondos estatales de Argentina, Canadá, Uruguay y la India que niegan en un único movimiento por un lado el discurso neoliberal privatizador/ individualista de la mafia en el poder en la nación de origen, el excrementicio mileismo, y por el otro lado el negacionismo en materia de los crímenes -secuestros, torturas, asesinatos, desapariciones, robos de bebés, etc.- del Proceso de Reorganización Nacional, otra pata del ideario del fascista infradotado de nuestro presidente, sus secuaces y los imbéciles que lo votaron, esos mismos que hoy lloran por el éxito internacional de un producto que adhiere vagamente a la figura del héroe colectivo de Oesterheld e interpela a un público global muy acostumbrado a estas obras intercambiables, conformistas e insustanciales que forman parte de la estirpe de la N roja.

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…La adaptación de Stagnaro, uno de los pocos realizadores que entendió y se atrevió a enfrentarse a la descomposición social de la década del noventa, tiene una mirada que intenta indagar en los problemas socioeconómicos y socioculturales de la Argentina, trasladando la historia original de la década del cincuenta al presente. Esta decisión genera cambios significativos en el relato, que se materializan principalmente a partir del segundo capítulo de los seis que componen la primera temporada. Lo más importante del comienzo es la transformación del inicio de la historia, con la materialización del protagonista, Juan Salvo, en la casa del escritor, Oesterheld, por una escena de la hija de Salvo con unas amigas en una embarcación en los momentos previos al inicio de la invasión, lo cual anula gran parte de la trama, que es el relato de Juan Salvo de su historia como Eternauta. Para compensar esto, las visiones de Salvo en forma de reminiscencias o premoniciones se inician tempranamente en lugar de las alucinaciones colectivas de la historieta, con el objetivo de justificar el título de la serie y la figura del protagonista como viajero del éter…

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…Oltre alla sua valenza narrativa, L’Eternauta si distingue per la sua capacità di anticipare e riflettere sulle dinamiche politiche e sociali del tempo. La storia, infatti, non si limita a raccontare un’invasione aliena, ma diventa un’allegoria della minaccia reale che incombeva sulla società argentina e, più in generale, su quella occidentale. Le esperienze personali di Oesterheld – fino al tragico destino delle sue figlie durante la dittatura – alimentano una narrazione intrisa di senso politico e di denuncia contro le oppressioni autoritarie. Lungi dall’essere un semplice esercizio di fantascienza, il fumetto si configura come una testimonianza del potere del medium nel raggiungere e coinvolgere un vasto pubblico, dimostrando che la letteratura “disegnata” può essere un veicolo altrettanto potente di riflessione e critica sociale. A distanza di decenni dalla sua prima pubblicazione su Hora Cero, L’Eternauta rimane una delle opere più influenti e studiate del panorama fumettistico internazionale. La sua capacità di combinare un racconto di sopravvivenza con una profonda riflessione sulla condizione umana ha ispirato autori di generazioni successive, come Robert Kirkman con The Walking Dead, che, sebbene in contesti e modalità diverse, continua a esplorare il lato oscuro e vulnerabile della natura umana. Il fumetto, attraverso il suo equilibrio tra narrazione e immagine, ha saputo trasformare il tradizionale schema del genere avventuroso, ponendo al centro la dimensione emotiva e l’esplorazione interiore dei suoi personaggi. In questo senso, L’Eternauta si presenta non solo come un’opera di intrattenimento, ma come un documento storico e culturale che testimonia il potere del fumetto nel raccontare e interpretare la realtà

L’Eternauta è molto più di una semplice storia di invasione aliena: è una profonda meditazione sul senso della vita, sulla fragilità umana e sulla resilienza di fronte all’apocalisse. Attraverso la sapiente fusione di testo e immagine, Oesterheld e Solano López hanno creato un’opera che continua a risuonare con il lettore, invitandolo a riflettere non solo sulla distruzione, ma anche sulla capacità di ricostruire e resistere. Un capolavoro che, a distanza di decenni, si conferma un punto di riferimento imprescindibile per chiunque voglia comprendere il vero potenziale espressivo e narrativo del fumetto.

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La serie TV colpisce soprattutto per la sua messa in scena, ma anche per la regia, la fotografia e la rappresentazione dei “villain” in questione, così come per tutto il mondo narrato. L’Eternauta era un fumetto difficilissimo da adattare per il suo rilievo artistico e storico-politico. Netflix ha deciso di attualizzare la storia portandola ai giorni nostri, e la serie opta anche per un ritmo rapido creando molta suspense. Oltre ad essere capace di coinvolgere il pubblico, genera la curiosità verso i protagonisti. Sicuramente i soli sei episodi di questa prima stagione, che non brillano per originalità narrativa, mantengono un forte impatto visivo. Di questo spettacolo cupo e politico abbiamo apprezzato l’identità, il buon uso della suspense e come detto soprattutto l’estetica. La cosa più importante è che L’Eternauta supera questa grande prova e non tradisce l’ingegno e l’anima del fumetto.

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La grande forza della serie sta nel suo equilibrio tra rispetto e libertà. L’anima del fumetto – quella riflessione sulla resistenza collettiva, sulla fragilità dell’individuo di fronte all’ignoto, sul valore della solidarietà – permane intatta. Tuttavia, Stagnaro non ha paura di intervenire: cambia epoca, modifica relazioni familiari, aggiorna riferimenti politici e introduce un tema caro alla sua poetica, quello della stratificazione urbana e sociale.

Le nevicate tossiche, le barricate nei quartieri, le lotte tra condomini, gli episodi ambientati in farmacie, centri commerciali, stazioni e chiese: tutto evoca il crollo di un tessuto sociale già fragile. I richiami all’Argentina del 2001, alle sue crisi economiche e politiche, si mescolano con l’eco della pandemia e delle guerre contemporanee. È un racconto di fantascienza, certo, ma anche una parabola sul presente.

È difficile sottovalutare la portata tecnica del progetto: la neve è fatta con tonnellate di materiali ecologici, la città è stata scansionata durante la pandemia, le riprese sono durate quasi cinque mesi. Ma a stupire è il fatto che tutto questo non soffochi mai il racconto. Anzi, lo potenzia. Gli effetti non sono un fine, ma un mezzo per costruire un mondo credibile, sporco, reale.

Anche la colonna sonora, che alterna classici come No pibe e Porque hoy nací dei Manal a pezzi dei Soda Stereo e Mercedes Sosa, fino a El magnetismo degli El Mató a un Policía Motorizado, contribuisce a creare quella miscela temporale in cui convivono generazioni, esperienze e traumi.

Forse, il limite maggiore della serie è ravvisabile in alcune dilatazioni narrative: in particolare, nell’episodio 2 e 5 il ritmo rallenta e alcune sottotrame si aggrovigliano inutilmente. Si tratta comunque di inciampi secondari in un progetto che riesce a fare ciò che sembrava impossibile: rendere L’Eternauta qualcosa di vivo, necessario, non solo per i fan, ma per un pubblico ampio. E soprattutto, per l’Argentina.

Perché la domanda principale che si pone la graphic novel – “Sarà possibile?” – riceve qui finalmente una risposta. Sì, è stato possibile. E il risultato è una serie che guarda al futuro con gli occhi del passato. Una storia di resistenza che, oggi più che mai, parla di noi.

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…L’Eternauta rispetta il canovaccio dell’opera di Héctor Oesterheld, tristemente diventato un desaparecido qualche anno dopo la pubblicazione della sua pietra miliare. Lo fa optando per un taglio realistico e per un approccio orientato ai personaggi e alle loro connessioni in uno scenario misterioso, dando vita a un racconto suggestivo e intriso di fragile umanità. Una scelta che mette però in secondo piano sia gli aspetti più fantastici dell’opera originale, sia il suo già citato ed evidente sottotesto politico. Il risultato è una serie solida e di sicura presa sul pubblico, soprattutto in un periodo segnato da ripetute catastrofi climatiche ed energetiche (inevitabile ripensare durante la visione al collasso elettrico di pochi giorni fa in Spagna). Allo stesso tempo però il racconto è penalizzato da un eccessivo appiattimento dei suoi tanti livelli di lettura, che affiorano solo negli ultimi episodi, con la scoperta dell’origine e dei mandanti della neve letale.

Ricardo Darín regge buona parte de L’Eternauta sulle sue solide spalle, tratteggiando i dubbi e i timori di un uomo che diventa eroe per caso, in bilico fra i suoi affetti, la necessità di fare fronte alla minaccia e squarci onirici, di sicuro effetto per gli amanti dell’opera di Héctor Oesterheld. Nella doppia veste di sceneggiatore e regista, Bruno Stagnaro centra invece un accettabile compromesso fra le riflessioni portate avanti dal fumetto e la necessità di adattare la storia ai canoni della serialità, estendendo alcune sottotrame e i relativi personaggi. In quest’ottica, a sorprendere sono soprattutto gli effetti speciali, di ottima fattura sia nei momenti in cui è necessario rendere la desolazione di Buenos Aires, sia nei momenti più concitati, con protagonisti i misteriosi invasori.

L’Eternauta si rivela quindi un ideale ponte fra un fumetto che tutti gli appassionati dovrebbero leggere e il largo pubblico di Netflix, sempre alla ricerca di storie originali ed emozionanti. Una progetto dagli elevati livelli produttivi e gestito con intelligenza, al punto da lasciare una porta aperta a un’eventuale prosecuzione di una storia che, anche a decenni di distanza dalla sua pubblicazione, continua a porci profondi interrogativi su noi stessi e sul mondo che ci circonda.

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domenica 11 maggio 2025

Nottefonda - Giuseppe Miale Di Mauro

opera prima di Giuseppe Miale Di Mauro, che viaggia sulle gambe di una sceneggiatura e dell'interpretazione dei pochi, ma azzeccati, interpreti, sopratutto Ciro (Francesco Di Leva) e Luigino (Mario Di Leva).

Ciro non riesce ad accettare la morte, in un incidente stradale, della moglie e del figlio, Ciro non c'era.

(sopra)vive a casa della madre, fa lavoretti da niente, si droga, tutte le notti sta sveglio, girando in macchina, insieme al figlio morto, ma per lui ancora vivo, l'elaborazione del lutto sembra impossibile, ma alla fine il film si apre.

un piccolo film che merita.

buona (Di Leva) visione - Ismaele



 

La regia è compatta, fortemente empatica, e tira fuori il meglio da un cast di attori eccezionale: Francesco Di Leva è il cuore pulsante (lo stomaco, i visceri, la carne) di Ciro, e modula con grande sapienza e intensità ogni emozione del suo personaggio, e Mario Di Leva gli tiene testa con grazia e spontaneità. La loro interazione è reale non solo perché sono padre e figlio nella vita, ma perché condividono visibilmente la stessa devozione per il teatro e la stessa attenzione ad essere veri, non solo verosimili. Accanto a loro spiccano soprattutto Adriano Pantaleo (anche lui cofondatore del NEST), che incarna la rabbia esplosiva di Carmine senza mai "stroppiare", e la monumentale Dora Romano nel ruolo della madre di Ciro, paralizzata dallo sconcerto e ammutolita dal dispiacere.

Nottefonda è un piccolo congegno ad orologeria, una storia che si vorrà rivedere una volta arrivati alla fine, un viaggio nell'elaborazione del lutto e nel senso di colpa di chi sopravvive. A prima vista può sembrare l'ennesimo noir in salsa partenopea, o un melodramma alla Merola (con tutto il rispetto per quel genere), e invece è altro, e oltre, ed è uno studio del comportamento umano che va dritto alla giugulare. Tutto è a fuoco e allo stesso tempo fuori fuoco, tutto è ricordo e allo stesso tempo presente crudele, e il peregrinare notturno di Ciro è un viaggio a vuoto in un girone dantesco che la presenza di Luigi rende allo stesso tempo più sopportabile e meno gestibile. Il mondo intorno a loro sembra sul punto di crollare: ma gli esseri umani sono fatti per sopravvivere, e per sopportare anche l'insopportabile.

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Tecnicamente, dal punto di vista fotografico, l’opera è di pregio; spicca una sequenza dove la principale fonte di illuminazione è costituita da candele. In generale la luce, quasi mai naturale, sembra rappresentare metaforicamente lo stato d’animo del protagonista, diviso tra sconforto e speranza. Nella sceneggiatura appare, invece, un po’ enigmatica la frase tratta da testi sacri: non viene mai rivelato, infatti, in maniera del tutto esaustiva il significato che si intende attribuirle. Complessivamente “Nottefonda” è un’opera ben riuscita, con interpretazioni credibili, la sua più grande qualità è riuscire a trattare in maniera sentita e non banale un tema affrontato più volte e in numerose modalità nel panorama cinematografico italiano.

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…la presenza di Luigi, il ragazzino dallo sguardo acuto e luminoso e la voce roca da scugnizzo (al quale, in un ulteriore gioco di rimandi e specchi, presta il volto Mario, somigliantissimo figlio nella realtà dello stesso Di Leva), diventa la spinta propositiva, calda, giocosa che delimita lo sfasamento realtà/ illusione di Ciro, e il suo conseguente, possibile sfracellarsi in picchiata contro l’ “abbascio” di un dolore sospeso sul cornicione di un terrazzo. Ciro rimane attaccato a quello che resta di se stesso e della sua emanazione nel mondo grazie al suo aggrapparsi  a Luigi, e la regia di Di Mauro  cerca di sciogliere questo nodo, cruciale per la risoluzione del mistero intorno al trauma scatenante, utilizzando la luce in una chiave chiaroscurale che mostra e nasconde, rende silhouette i corpi di una precisa appartenenza antropologica e culturale, e innerva di sangue ed emozioni i segni del disagio. A proposito di contesto e ambientazione, è apprezzabile poi che non ci soffermi su un immaginario da periferia complicata e problematica, con l’irruzione di un’ attualità relegata a facili proposte paratelevisive  di decifrazione sociologica e morbose esposizioni di fatti di cronaca nera. L’oscurità non è un fatto riconducibile al fenomeno criminoso che permea e corrompe la comunità partenopea. La facilità con la quale circolano armi da fuoco o si organizzano incontri clandestini di cani da combattimento non viene spiegata nella prospettiva di un’indagine sulla camorra. Il territorio non viene affrontato con il tarlo logorante di un’ occupazione da parte di una struttura organizzata illegale che lo prosciuga e lo abusa…

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sabato 10 maggio 2025

Black Bag - Doppio gioco - Steven Soderbergh

un film di spie abbastanza inaffidabile, come forse lo sono nella realtà.

un film con una sceneggiatura geometrica, dove tutto torna (forse).

un film elegante, glamour, perfettino, con interpreti bravissimi, ma allo stesso tempo un film gelido, a volta fa sorridere, i dialoghi sono perfetti, ma sembra più un film per chi lo fa, che per chi lo vede.

in un film di solito c'è qualche personaggio a cui si vuol bene e qualcuno che non si sopporta, in Black bag tutti i personaggi sono lontani, poco coinvolgenti per chi guarda.

a molti è piaciuto, magari anche a voi, provare per credere.

buona (a vostro rischio e pericolo) visione - Ismaele


 

…Con la precisione infinita propria di chi progetta mentre fa e rapidamente decide, Soderbergh pensa i suoi set (e anche Black Bag offre indicazioni in tal senso) come angoli di mondo sottratti al caos. Il doppio gioco è la minaccia di un mondo privo di senso (movimento) al quale il cinema con il suo complotto (e in tal senso si percepisce quasi un’eco rivettiana) restituisce razionalità - ossia possibilità di essere interpretato, letto e, in ultima analisi, visto. Così, mentre la percezione dell’immagine audiovisiva cambia radicalmente, Soderbergh compie il gesto più politico possibile: immagina un cinema dalle apparenze omologhe all’ambiente visivo contemporaneo, firmando in realtà un atto di resistenza.

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Breve-metraggio (93 minuti) elegante e glamour, con cui Soderbergh, che ci racconta una spy-story iper tecnologica ambientata a Londra. Bravi Fassbender (ipnotico e glaciale) e Cate Blanchett (affascinante e velenosa), ma il film scorre via veloce senza emozioni e senza lasciare tracce.

Breve-metraggio (93 minuti) diretto con eleganza e grande attenzione alla fotografia da parte di Steven Soderbergh, che ci racconta una spy-story iper tecnologica ma anche molto glamour ambientata a Londra ai giorni nostri.

Fassbender è ipnotico e glaciale, Cate Blanchett affascinate e gelida, meno efficace la sceneggiatura che non va oltre un intreccio di doppi giochi messo in scena senza troppa originalità.

Filmetto frizzante e gradevole, ma scorre via troppo veloce senza lasciare tracce.

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Black Bag è un esempio cristallino di come Steven Soderbergh sappia piegare i codici del genere alla sua visione autoriale. La sceneggiatura di David Koepp è solida, elegante, un gioco sottile tra silenzi e rivelazioni. Soderbergh, da maestro della regia, usa la verità e la fiducia come veri motori narrativi, con una costruzione che non ha bisogno di effetti esplosivi per mantenere alta la tensione. Le scene a tavola, con i sospettati raccolti insieme, sono tra le più riuscite, piene di menzogne non dette, sguardi sottili e ambiguità palpabili. Cate Blanchett e Michael Fassbender, nei panni di George e Kathryn, portano in scena due personaggi mossi dall’ossimorico e controverso rapporto tra dovere e sentimento, con una chimica che rende ogni scena più densa e affascinante. La loro capacità di trasmettere l’incertezza, la fragilità, e il conflitto interiore è ciò che dà profondità al film. Black Bag è un film che non cerca di stupire con l’azione, ma che affascina per la sua capacità di giocare con il dubbio e la menzogna. Una lezione di spy thriller in 93 minuti, diretta da un maestro e interpretata dai primi della classe.

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Ma basta la ricercata aurea anglosassone bondiana (tra l'altro nel cast figura anche l'ex apprezzato Bond Pierce Brosnan) per rendere il film un'opera appassionante ed efficace a tener salda l'attenzione su un intrigo che si rivela complesso e quasi inestricabile?

Il mestiere consolidato di Soderberg è circostanza fuori discussione.

Ma anche la collaudata freddezza del cineasta nel trattare è sviscerare i rapporti tra i personaggi coinvolti si rivela una caratteristica costante anche in questo contesto, che rende lo snodo piuttosto meccanico e poco decifrabile. Gli attori coinvolti, tutti belli, ben vestiti ed azzimati, si adoperano a rendere più fitto il mistero in un contesto di caccia alla spia sin troppo verboso e poco decifrabile.

Più un impeccabile film-vetrina, che un'opera in grado di catturare sprigionando appeal e sentimenti di sincera empatia.

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…Qui siamo più dalla parte del blockbuster autoriale, elegante e irreprensibile, logico, liscio e raffinato. Ce lo dice innanzitutto la scelta del cast e come il regista lo impiega. Soprattutto nel caso di un Michael Fassbender di fincheriana memoria, sempre posato, gelido e instancabile, ma che aggancia il pubblico per la sua tendenza a cedere e a fallire. Soderbergh lo riprende con una perizia incredibile, cercando, con insistiti close up e ripetizioni in montaggio, delle inclinazione espressive del suo viso per creare i riferimenti geografici di una narrazione che sottopelle lavora con una tensione incessante.

Cosa accadrebbe se la logicità che tiene in vita il lavoro dei protagonisti e quindi anche il loro matrimonio dovesse venire meno? Se questa equazione che tiene collegati i due aspetti sacri delle loro esistenze non funzionasse più? Se la comunicazione tra i due mondi venisse interrotta da delle “Dark Windows”, così da non permettere più la trasparenza che tiene tutti i fattori insieme? Per dirla in modo banale: se la nostra coppia non riuscisse più a vederci chiaro tanto nel loro lavoro quanto nel loro matrimonio?  Che accadrebbe?

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Se vi aspettate una spy story convenzionale rischiate di perdervi già al primo checkpoint: Black Bag è un'opera glaciale e raffinatissima, dove l'intrigo sentimentale si intreccia a un vocabolario tecnico degno di un manuale per analisti della CIA (glitch, poli, black bag e tanti altri). Gli acronimi scorrono come champagne, ma l'effetto sul pubblico è decisamente meno effervescente. Sicché Il film finisce col chiedere molto allo spettatore: attenzione, pazienza (a dispetto della breve durata, appena 90 minuti: una rarità di questi tempi), dimestichezza con la logica dei servizi segreti… e una certa tolleranza per il tono cerebrale e rarefatto che lo attraversa dall'inizio alla fine. Soderbergh continua ad attraversare i generi con assoluta disinvoltura, costruendo stavolta un labirinto formale che affascina e respinge, un noir levigato come un'arma da collezione. L'universo visivo, dominato da ombre nette e geometrie precise, sembra quasi voler richiamare l'immaginario di Diabolik (a cominciare dalla simmetria con la coppia protagonista), ma privo di qualsiasi gusto per l'eccesso: qui tutto è sotto controllo, ogni movimento calibrato, ogni battuta cesellata fino all'astrazione. Il conflitto tra dovere e sentimento si gioca su piani così alti da sembrare scritti in codice. Anche l'amore, qui, ha bisogno di decrittazione. Il risultato è un film intellettuale, sofisticato, forse fin troppo. Un esercizio di stile che incuriosisce, ammalia, ma lascia anche un certo gelo addosso. Più che un thriller, un test di ammissione ai servizi segreti, o almeno a un cineclub molto selettivo.

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venerdì 9 maggio 2025

Il poliziotto della brigata criminale (Peur sur la ville) - Henri Verneuil

Jean-Paul Belmondo è un poliziotto capace, con metodi a volte non condivisi dai superiori.

nel film si seguono due indagini, la ricerca di un rapinatore di banche e la ricerca di un seral killer di donne.

come succede spesso Jean-Paul Belmondo è stuntman di se stesso, pazzo e coraggioso.

il film, quando rallenta, è solo per riprendere più veloce.

un film che non delude, promesso.

buona (Belmondo) visione - Ismaele

 

 

 

Non c'è che dire, in Francia i polizieschi li sanno fare e pure bene .Questo è forse uno dei film piu' belli interpretati da Belmondo, all'apice della forma fisica, come sempre ostentatamente senza controfigura ,col giusto grado d'ironia che gli appartiene e che imperversa in quasi tutte le sequenze del film. Qui la vicenda si dipana su due binari paralleli: la vicenda di un serial killer che prima terrorizza telefonicamente le vittime(almeno la prima, una splendida Lea Massari che pero' fa una brutta fine in pochissimi minuti, la sequenza è condotta magistralmente)e la vicenda di un bandito scappato al commissario anni prima cagionandogli accuse ingiuste che ora si ripresenta a Parigi. Naturalmente come peso è prevalente la prima vicenda con un serial killer interpretato magistralmente da un Adalberto Maria Merli in versione occhio di vetro. Il film è costellato di inseguimenti, acrobazie, incidenti automobilistici e rappresenta una buona occasione se si vuol dare uno sguardo alla Parigi degli anni 70.La regia dopo un 'ottima prima parte perde un po'di polso nella seconda parte(quando il serial killer si svela) e il finale appare un po'semplicistico (si chiudono velocemente tutte e due le indagini) ma è comunque un film da vedere e riscoprire. Nei ruoli secondari c'è fior di caratteristi....

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Il mattatore è chiaramente Jean-Paul Belmondo. Non avremmo ragione di essere qui, altrimenti. Il suo Commissario Letellier è un figlio di puttana, nel senso migliore del termine. Picchia come un fabbro, si definisce molti muscoli e poco cervello. Ardito, audace, generoso, insolente. E con due palle quadrate. Insomma, un profilo che sembra mescolarsi con i tratti reali del suo interprete. La performance di Belmondo è già convincente di suo dal punto di vista recitativo, l’attore francese decide di impreziosirla con il fiore all’occhiello del suo vivere intensamente la professione ovvero attraverso un repertorio assurdo di stunt pazzeschi realizzati in prima persona, senza l’ausilio della controfigura. Da amante dell’action è una cosa a cui personalmente tendo a dare molto peso, un attore d’azione guadagna punti nella stessa misura in cui realizza quanti più acrobazie da solo…

…So di averlo già detto, ma lo ripeto ancora una volta: tutto da solo, senza controfigura e, come se non bastasse, apparentemente senza grosse precauzioni. Coraggio, follia, preparazione fisica, incoscienza…

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Verneuil réussit avec Peur sur la Ville de faire un film à l'action musclée mais aussi d'une noirceur et avec une ambiance pesante du début à la fin de son film qui le rendent tout simplement extraordinaire. Dès le début où l'on voit l'invité dans l'œil de chat et qui s'est trompé de porte et qui sans le vouloir a effrayé Nora Elmer, ça rappelle les meilleurs films de frissons. Il suffit de voir par exemple lorsque Letellier poursuit Minos la première fois juste après que ce dernier ai tué Germaine Doizon, la course à travers les toits parisiens, se termine aux Galerie Lafayettes. Et là, Letellier arrive dans un entrepôt rempli de mannequins de cire : il faut bien observer les mannequins, et pendant ce temps la musique pesante se met en marche. La scène est tout simplement géniale tant elle est oppressante!...

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Strepitoso mix tra poliziesco e giallo/thriller che nulla ha da invidiare ai più blasonati esempi Usa dei 70s; il livello è molto alto, ricordando il cinema di Don Siegel (su tutti il primo Callaghan, anche nel tratteggio delle figure del pazzo assassino e del duro poliziotto). Straordinarie le molte sequenze d'azione, girate benissimo e con un Belmondo veramente atletico; contro ogni previsione funziona anche l'idea di unire due storie parallele (quella del bandito e del serial-killer) e l'intero cast offre belle prove, con un buon doppiaggio italiano. Assolutamente da recuperare!

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giovedì 8 maggio 2025

Bird – Andrea Arnold

una storia di emarginati, che vivono ai limiti della legalità e della sussistenza.

in tutta la cittadina non si vede mai un poliziotto, e anche gli assistenti sociali latitano, sembra un posto abbandonato da tutti.

noi seguiamo la storia con gli occhi di Bailey (Nykiya Adams), una bambina di 12 anni, conosciamo i fratelli e le sorelline, gli amici, il babbo (Barry Keoghan), un po' bambino, e un specie di folletto, Bird (Franz Rogowski), e tanti altri, anche un rospo.

Bailey ama guardare gli uccelli che volano liberi nel cielo, forse anche lei vorrebbe poter volare,e lasciare, almeno un po', il brutto mondo nel quale è costretta a vivere.

Bailey e Bird s'incontrano e diventano amici, si proteggono a vicenda, Bailey cerca di aiutarlo a ricostruire la sua storia, lei s'immedesima nel dolore di Bird, abbandonato da bambino, lui vuole riuscire a ritrovare la famiglia, ma le ricerche sono una delusione.

è uno dei film più belli dell'anno, sicuramente, è in un centinaio di sale, è un film da non perdere, abbiate fiducia.

buona (grandissima) visione - Ismaele

ps1: anche Billy, il protagonista di Kes, di Ken Loach, si affeziona a un falco, forse anche Billy alza gli occhi al cielo per staccarsi dal mondo grigio e triste dove si trova a vivere.

ps2: mi viene in mente Birdy, un film di Alan Parker, nel quale Birdy, reduce del Vietnam, vorrebbe diventare un uccello.


 

 

c'è poco altro da fare quando si ha la fortuna di potersi imbattere in un'opera del calibro di Bird. Un film che stupisce per la naturalezza con cui mette in dialogo il mondo dei sottoproletari britannici con un'ipotesi fiabesca di puro ingegno post-punk che è cinema limpido e libero dalla gittata universale. Un racconto che nell'esplorare le sfide dell'adolescenza di quella Bailey giovane ma già matura, che ha già conosciuto il dolore nella vita, che ha fretta di crescere e che ha già le idee molto chiare su chi è e su chi vuole diventare, va oltre la propria dimensione da comune coming-of-age sul valore delle radici e sulla ricerca identitaria del proprio posto nel mondo, fino a diventare qualcos'altro. Qualcosa di più bello…

Un film corposo, Bird, denso, straordinario, che fa immergere lo spettatore in un microcosmo di vita in cui ritrovarsi e rispecchiarsi, e percorso di dolcezza, purezza e di una spontaneità tale da rendergli difficile il ritorno alla vita di tutti i giorni. Quella in cui le luci della sala si accendono e la sospensione d'incredulità smette con la sua magia. E qui il merito è soprattutto del comparto attoriale. Perché la giovanissima Adams sembra già una veterana nel modo in cui dialoga con due autentici mostri sacri del cinema contemporaneo. Quei Keoghan e Rogowski dalla componente caratteriale gemellare ma opposta: Entrambi fragili e con il fuoco dentro, ma caotici ed eroici, a caccia di sogni come di albe e farfalle, e dagli occhi vividi da cui trapelano i segni di un vissuto difficile…

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un adolescente appena sbocciato ha dalla sua un’arma formidabile: la fantasia. Che cosa rimane, del resto, a Bailey, oppressa oltre ogni dire dalla cretineria violenta di suo padre, che la vuole tra le damigelle d’onore, vestita di una tutina ridicola, per un suo improbabile matrimonio con un’altra sbandata senza fissa dimora, che ha già un’altra figlia piccolissima da un altro uomo? La risorsa vitale la ragazzina la trova nella sua inesauribile immaginazione, che la fa parlare con gli uccelli e, quindi, con il suo alfiere devoto Bird, l’Uomo-uccello per antonomasia. Lui che se ne sta tutto il santo giorno appollaiato sulle terrazze degli edifici del quartiere, a scrutare in basso la vita brulicante e disordinata sottostante, con il sogno segreto di ritrovare un giorno i suoi genitori, dai quali si è definitivamente separato da bambino, smarrendosi nei dintorni della città. E sarà proprio questa la missione di Bailey: aiutare l’amico alato a ritrovare la sua famiglia di origine, anche qui con mille difficoltà e affrontando il disconoscimento di paternità da parte di chi lo credeva morto. Film difficile, che ha in sé una bellezza tutta particolare, da assaporare in segreto metabolizzando lentamente il suo retrogusto perfettamente amaro.

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Come fosse tornata ai tempi di Fish Tank, ma con continue deviazioni fiabesche, Andrea Arnold tratteggia un romanzo di formazione di una dolcezza straripante, innamorata com’è di (quasi) tutti i suoi personaggi, a partire da lo scombiccherato Bug che ama i suoi figli – che ha avuto poco più che bimbo – di un affetto magari non sempre facile da dimostrare ma densissimo. Bailey, questa dodicenne riottosa che non vuole vestirsi da ragazza-tipo per il matrimonio del padre e va in giro con Bird per aiutare questo bizzarro uomo che passa le sue giornate appollaiato sui tetti dei palazzi a ritrovare il padre perduto, è raccontata con uno sguardo altrettanto amorevole, come se la macchina da presa dovesse di volta in volta carezzarla nell’accompagnarla in giro per un mondo che sarà pure devastato – lo squat non è certo edulcorato nella sua rappresentazione – ma sa ancora commuoversi sulle note di The Universal dei Blur. Ed eccolo l’ultimo trait d’union tra vitalismo realistico e svolazzo lirico, la colonna sonora brit-pop in cui si piazzano gli uni accanto agli altri i succitati Blur e i Verve di Lucky Man, i Coldplay di Yellow e soprattutto i dirompenti Fountain D.C. di Too Real, che spinge l’udito in direzioni post-punk. Tra Ken Loach e Little Feet di Alexandre Rockwell Bird è un’opera fiammeggiante, liberissima, che mescola senza alcuna paura gli elementi più eterogenei senza preoccuparsi della giusta inquadratura, della giusta luce, e di tutti quei perfezionismi anodini di cui è invaso l’arthouse contemporaneo.

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mercoledì 7 maggio 2025

Espion, lève-toi (Alzati spia) – Yves Boisset

gli inganni e i cambi di strategie dei governi e dei servizi segreti si  riflettono sulla vita delle spie, che cercano di sopravvivere ai cambiamenti.

come sempre Yves Boisset gira un film politico, che un gruppo di terroristi manipolati (cosa inverosimile?) e una donna ammazzata e trovata in una macchina (come Moro, ci ricordiamo?).

tutti bravi, ma Lino Ventura e Michel Piccoli straordinari.

musica di Ennio Morricone, perfetta per il film.

un film che non delude.

buona (sorprendente) visione - Ismaele

 

 

 

 

 

Lo ammetto ho un debole per il grande Lino Ventura.Pur con la presenza di Piccoli probabilmente questo thriller spionistico non l'avrei guardato perche'non sono molto appassionato di spy story o film che sfruttano il tema della guerra fredda.E invece avrei fatto male perche'questo film non è assolutamente male.Cita i temi classici delle spy stories ma ha un ambientazione inconsueta,Zurigo,di cui ne esce un ritratto a forti tinte,una specie di nido di vipere e covo di fermenti terroristici.Si parla di spie "risvegliate" e richiamate alle loro funzioni un po'come in Telefon di Siegel anche se la'era una cosa ipnotica non consapevole.C'è un gran confronto di stili di recitazione tra Piccoli e Ventura,il primo di un ambiguita'viscida sempre col sorriso sulle labbra,Ventura piu'pragmatico,concreto a fare sempre domande che purtroppo non avranna mai risposta.Lo stile imposto è quasi asettico con una rigida scansione temporale,ma quello che rende diverso questo film è proprio l'insieme delle locations della Mittleeuropa scelte,perche'per il resto si replica la trama di film spionistici con protagonisti agenti americani russi e inglesi anche se qui siamo lontanissimi dal glamour bondiano.Una nota sull'inquietante finale,amaro,senza risposte che rivela la presenza di oscuri poteri forti ,misteriosi ingranaggi che neanche un valido agente riesce a inceppare....

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Bien belle affiche pour cet Espion, lève-toi (1982) avec la présence aux commandes d’Yves Boisset, réalisateur qui a toujours su être efficace. Il est assisté ici de Michel Audiard aux dialogues, d’Ennio Morricone à la musique et d’un casting trois étoiles. D’ailleurs, l’origine du projet remonte à Michel Audiard, grand amateur de polars, qui a repéré le livre Espion lève-toi de George Markstein dans la fameuse collection Série noire. Inspiré d’une histoire vraie, le livre était selon Michel Audiard un véhicule parfait pour Lino Ventura.

Yves Boisset raconte ainsi dans son autobiographie La vie est un choix (Plon, 2017) :

Lorsqu’il [Audiard] m’a fait lire le sujet, l’idée m’est venue de confronter Lino, et son côté brut de fonderie, avec Michel Piccoli, dont l’ambiguïté et la perversité étaient aux antipodes. La perspective de ce duel entre les deux monstres sacrés emballa Audiard qui leur écrivit dans la subtilité et la mélancolie un de ses dialogues les plus brillants et les plus intelligents…

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Ex-agente segreto viene riagganciato dai superiori a causa del suo legame sentimentale con una professoressa universitaria di estrema sinistra. Negli anni del riflusso e della dottrina Mitterand esce questo insolito thriller spionistico che coniuga il pessimismo politico della New Hollywood (I tre giorni del Condor è il cugino più prossimo) con il nichilismo del polar (le didascalie che segnano date e orari come in Le samouraï). Ventura gran signore, Piccoli diabolico, Boisset dotato di un ritmo più spigliato della media dei colleghi.

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Spia francese "dormiente" che da anni vive a Zurigo sotto copertura deve ritornare in pista dopo l'uccisione di un collega da parte di un gruppo terroristico d'estrema sinistra probabilmente manovrato dai servizi di una potenza straniera... Come l'ottimo Ventura, anche lo spettatore fino all'ultimo non sa se sia più pericoloso l'ambiguo Piccoli oppure l'opaco Cremer: un'incertezza che accresce la tensione e con essa il fascino di questo film dalla messa in scena funzionale (regia sobria, ambientazione ben resa, valida ost di Morricone) da segnalare tra i più pessimistici del genere.

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Se Lino Ventura è diventato un gigante della cinematografia francese (e non solo), lo deve anche a film come questo. Il personaggio è tagliato con l’accetta. Agente segreto francese “dormiente” di stanza a Zurigo, Sébastien Grenier viene richiamato in servizio dopo l’assassinio di un suo collega e si ritrova subito in un mare di guai. La trama spionistica è delle più classiche, ci sono pochi e persino scontati colpi di scena ma, come gli è spesso accaduto, Lino Ventura imprime al suo ruolo una gravità, un’intensità recitativa, una dura naturalezza che caratterizzano il cavallo di razza che conosciamo, quello che rende appassionante una storia anche se confusa. Spesso, nei film di spionaggio, la sceneggiatura può lasciare a desiderare, dando nondimeno vita ad opere di innegabile valore. Modello del genere fu “Il falcone maltese” (1941) di John Huston. In questa sua prova, Yves Boisset, regista essenzialmente di media levatura ma tutt’altro che trascurabile, non assurge ad alcun vertice cinematografico, ma gode di una magnifica distribuzione (la parola “cast” non mi piace), di buone ambientazioni (neppure “locations” mi piace), nonché di un’adeguata e molto riconoscibile colonna sonora (un Ennio Moricone forse poco innovativo, ma deliziosamente incalzante). Gli attori comprimari sono le facce giuste per i rispettivi ruoli, da Michel Piccoli, intrigante agente francese forse al soldo del KGB, al volto scolpito di Bruno Cremer, che spunta dal nulla a tre quarti del film ed è l’unico ad uscire vivo dall’intricata vicenda. Nel ruolo della compagna di Sébastien Grenier, Krystyna Janda, elegantemente intellettuale, devota e travolta dagli eventi, se la cava egregiamente. L’immagine della sua salma rinvenuta nel bagaliaio posteriore di un’auto non può non rimandare all’istantanea sul cadavere di Aldo Moro nella Renault 4 rossa del 1978. A rendere ovviamente il tutto ancor più gradevole sono, immancabilmente, i succosi e mai banali dialoghi firmati dal Maestro Michel Audiard. Un vero piacere!

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martedì 6 maggio 2025

Quien a hierro mata (Occhio per occhio) – Paco Plaza

un infermiere in un ospizio, con una moglie che sta per partorire, e un boss della droga, con i due eredi, in Galizia, le loro strade s'incontrano.

e piano piano si scoprono tanti dettagli, fino al tragico epilogo.

un gran bel film, con attori convincenti, cercatelo e soffritene tutti.

buona (gallega) visione - Ismaele

 

 

 

Un drammatico che poi si veste da thriller e da crime, davvero bello.

La storia è semplicissima ma molto molto originale (non mi sono informato se è presa da un libro o altro). E' molto intelligente portare lo spettatore a scoprire la verità piano piano, inserendo sempre qualche elemento in più.

L'incipit è davvero ottimo, con quella gabbia nel mare e la telefonata definitiva.

E subito facciamo conoscenza con la famiglia criminale del film, il boss (personaggio bellissimo e complesso) e i suoi due figli, due cazzoni arroganti che credono di essere stocazzo mentre sono due e veri e propri incompetenti….

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Film cupo e ansiogeno,dalle atmosfere torbide, costantemente attraversato da pulsioni di morte. Luis Tosar, interprete di Mario si dona all’obiettivo senza limiti di posa, pronto a farsi scrutare e studiare dallo spettatore, che cerca di districarsi, nel turbinio intimo che lo anima. Mario è da sempre particolarmente legato alla famiglia e al suo lavoro, ma l’opportunità di riscattarsi dei torti subiti direttamente sul corpo del proprio carnefice è un’occasione troppo ghiotta per lui, difficile conciliare tutte le sue aspirazioni, di tranquillità familiare, di etica professionale e di vendetta. La sceneggiatura di “Occhio per occhio” è puntuale e forse anche scontata, come se il destino di Mario e Antonio fosse già scritto e inevitabile, senza possibilità di redenzione o di fuoriuscita. Tuttavia gli ultimi minuti sorprendentemente micidiali e cattivi fanno la differenza e alzano il livello globale del film.

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…Paco Plaza ha raccontato di aver ricevuto la prima sceneggiatura e di aver deciso subito di dover raccontare questa storia: “ho pensato che il personaggio interpretato da Luis Tosar avesse un arco insolito, essendo affascinante e figlio di puttana allo stesso tempo”.

Xan Cejudo, morto poco dopo le riprese del film, è un boss terribile e spietato, ma che scivola, giorno dopo giorno, nella malattia e nell’afasia.

Attorno a loro si muovono personaggi mal scritti, di puro servizio: tuttavia il film si riscatta nell’epilogo, che ha la forza di chiudere con una nota non riconciliata, mettendo in scacco il senso dell’operato di Mario e lasciando lo spettatore a riflettere sulle conseguenze delle sue scelte.

Insolito e disturbante.

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