sabato 22 luglio 2023

R.M.N. (Animali selvatici) - Cristian Mungiu

pochi autori entrano nel corpo vivo politico della nostra disgraziata Europa, Cristian Mungiu è uno di quelli (come pure Rodrigo Sorogoyen, in As bestas)

i due film hanno molto da condividere, ci sono comunità in crisi (da cui i giovani partono verso il giardino Europa, a fare spesso i quasi schiavi), piccole città bastardi posti, che odiano gli stranieri, francesi o cingalesi sono lo stesso, vengono a turbare equilibri (che non esistono più).

non ci sono più leggi, se non la legge del branco, o quella della giungla (senza offendere la giungla, naturalmente), all'ombra delle leggi implacabili dell'economia capitalistica, e quelle dei fondi comuni europei e dei regolamenti sulla dimensione dei cetrioli.

in un paesetto romeno l'odio per i diversi, per quanto ottimi lavoratori e anche gentili, è il sentimento che tiene uniti, anche nel santo Natale.

e c'è un bambino, Rudi, che vede i morti, e gli orsi ci sono ancora, gli uomini credono di essere i padroni delle loro donne, e hanno con sè il fucile, che fa tanto macho.

e poi c'è il piano sequenza dell'assemblea, dove tutti sono contro tutti, mentre nel film di Rodrigo Sorogoyen quell'assemblea è "solo" il piano sequenza al bar.

un film da non perdere.

buona (politica) visione - Ismaele





 

"Animali Selvatici" è l'ennesimo grande film di Mungiu, regista in grado di creare questi film al tempo stesso così realistici e secchi, ma anche capaci di avere venature da thriller e, in qualche caso, anche di "mistero", come se ci fosse qualcosa che lo spettatore deve capire o "trovare" (un pò quello che accade coi film di Fahradi, film che molto spesso vengono presi per lineari ed espliciti quando invece, quasi sempre, c'è sempre qualcosa di nascosto e misterioso).

Anzi, quest'ultimo è, se possibile, il film più sfaccettato di Mungiu, quello dove lo spettatore deve "lavorare" di più.

Il significante (quello che ci viene mostrato) è preciso, secco, realistico, ma il significato è tutt'altro che cristallino…

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…Lo sguardo del regista, in questo senso, si rivela lucido e amarissimo, ampliandosi gradualmente dal particolare (la complessa vita privata e familiare del protagonista) al generale (il clima del villaggio e la destabilizzazione portata dai nuovi arrivati), analizzando con puntualità il paradosso di una zona popolata da un crogiolo di etnie, fedi, lingue diverse, che tuttavia, nei secoli, hanno finito per segregarsi ed escludersi a vicenda. Non è un caso che gli ostili abitanti del villaggio ricordino a più riprese che “ci siamo appena liberati degli zingari”, esibendo un’azione di pulizia etnica come una sorta di vanto. La guerra tra poveri, che nel caso specifico significa trionfo dell’homo homini lupus e sistematica, progressiva esclusione degli anelli più deboli, arriva a coinvolgere la perversione (un po’ beffarda) di quella che un tempo era la coscienza di classe; una perversione tradotta in ex operai del panificio che, mentre rinfacciano al datore di lavoro i turni massacranti e gli straordinari non pagati, chiedono a gran voce l’allontanamento di persone che stanno sperimentando con ogni probabilità lo stesso trattamento. Una dinamica che emerge tutta nella magistrale sequenza della riunione in municipio, un lungo piano sequenza fisso in cui la macchina da presa mette a fuoco, di volta in volta, il personaggio che interviene, con dialoghi capaci di dare dinamicità a una sequenza tecnicamente statica…

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…Ambientato in una piccola comunità della Transilvania circondata da montagne e boschi, la storia si impernia su Matthias un giovane che lavora in un mattatoio tedesco e che in seguito una azione violenta contro un collega di lavoro è costretto scappare in fretta in furia e tornare al suo villaggio tra le montagne dove vive la moglie con la quale ormai il rapporto è deteriorato ed il figlio, oppresso da una forma di mutismo scatenata dalla paura  di aver visto qualcosa nei boschi; il padre incolpa la madre di essere troppo protettiva con lui e decide di prendere in mano l'educazione e la gestione del figlio basandosi su sue teorie personali basate su un senso di machismo e anche di violenza…

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Cristian Mungiu ha sempre esaminato, quasi fosse un medico incaricato di scovare le radici di un male, il decadimento interiore del suo paese, dagli aborti clandestini negli anni finali della dittatura comunista al fanatismo religioso passando per la corruzione a livello costituzionale, il tutto con un rigore formale abbinato a performance forti, scrittura solida e un gusto per il genere con connotazioni thriller. Il quinto film del regista non si discosta da queste convenzioni, anzi, si fa ancora più ambizioso del solito, a partire da quel titolo originale che rimanda direttamente a una cosa ma ne sottintende un’altra, procedendo per simbolismi e allegorie nel raccontare una storia intima su sfondo universale.

E se rispetto ai film precedenti la densità tematica può risultare un po’ impegnativa (a Cannes, dove le proiezioni per addetti ai lavori sono in contemporanea con quelle ufficiali, c’è chi si è lamentato della scelta di proiettare una pellicola così stratificata e non sempre “facile” alle 22), il virtuosismo formale rimane da capogiro (soprattutto considerando che Mungiu ha lavorato con un cast corale in tempi di pandemia, con tutte le complicazioni tecniche del caso), con uno dei consueti piani-sequenza dalla durata estesa che qui si fa summa vertiginosa e ipnotica dell’intera poetica del regista e racchiude in sé tutta la vitalità e la rabbia del progetto, urlo di dolore nei confronti di una mentalità retrograda facile da individuare ma impossibile da estirpare.

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El momento más interesante de la cinta es esa media hora de diálogo, debate o enfrentamiento entre los habitantes de esa pequeña localidad rumana, en donde se pone de manifiesto con las diferentes posturas lo fragmentada que está la Unión Europea en temas importantes en el día a día de sus ciudadanos.

Con un final desconcertante y extraño, que da para muchas explicaciones posibles, pero que analizándolo bien tiene bastante sentido. Ese epílogo puede servir como resumen del miedo de la gente a lo desconocido que viene de fuera, como si fueran monstruos o bestias, que pueden destruir su convivencia…

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Bellissima e di forte impatto la sequenza dell’assemblea pubblica: diciassette minuti di grande cinema, in cui la camera passa da un volto all’altro con un abile gioco di messe a fuoco, per assistere allo sversamento di tutto l’odio insito nell’uomo. Al contrario, allegoriche sono le numerose scene in cui gli orsi – gli animali selvatici del titolo - diventano nell’immaginario collettivo i nemici da cacciare e dai quali difendersi, esattamente come lo sono i pacifici e operosi lavoratori srilankesi.

Il regista è impietoso nel descrivere un microcosmo che diventa, di fatto, specchio di un’intera società.

Lo fa confrontando e mettendoli in discussione, vari dilemmi attuali, quali solidarietà e individualismo, tolleranza ed egoismo, incapacità nell’accettare chiunque possa essere considerato un diverso identificandosi in un determinato gruppo etnico, con il senso di inclusione. E lo fa senza risparmiare nessuno; Mungiu ha uno sguardo durissimo sia nei confronti della popolazione locale intollerante e violenta, che si vanta di aver allontanato gli zingari dal proprio territorio e ora vuole cacciare gli uomini dello Sri Lanka, sia nei confronti della chiesa e dei suoi rappresentati che rinnegano, di fatto, i principi del cristianesimo…

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