domenica 16 luglio 2023

Non toccare la donna bianca – Marco Ferreri

la sceneggiatura di Rafael Azcona e Marco Ferreri è inappuntabile e fortemente politica.

descrive i meccanismi della sottomissione e dello sterminio, in questo caso di Custer contro gli indiani, ma dietro c'è l'interesse degli sfruttatori dell'accumulazione originaria, a qualsiasi costo.

e il discorso è attuale, non riguarda solo gli indiani, la Cia e Nixon sono macigni.

attori, come sempre, bravissimi, nelle mani di un maestro.

il film è inquietante, e le risate sono amare, con un retrogusto di sterminio in nome della civisìltà, naturalmente.

un capolavoro senza tempo, non perdetevelo, se vi volete bene.

buona (indimenticabile) visione - Ismaele

 

 

 

QUI il film completo, su Raiplay

 

 

Originale, grottesco, pomposo... Eccellente... Una pellicola sconosciuta, ma, davvero, un'ottima pellicola... Grandi attori...
Ferreri è sempre Ferreri...
Geniale!!!!

da qui

 

…La matrice politica per esempio c'è ancora tutta ed è potente e di forte presa evocativa pure qui. Ed è proprio questo che sorregge magistralmente tutta la pellicola rendendo accettabili anche quei pochi momenti più corrivi e tediosi a cui accennavo prima. Rimane invariato infatti lo spirito iconoclasta, corrosivo e provocatorio di Ferreri che sono le caratteristiche più evidenti e continuative che si ritrovano in tutte le opere del regista, ampiamente confermate dalle sue stesse parole che scrisse come prefazione della sceneggiatura pubblicata da Einaudi nella collana "Nuovi coralli" nel 1975:

Perché Custer  alle Halles, a Parigi nel 1973?

Dal punto di vista dello spettacolo, le Halles di Parigi, rappresentano un ambiente ideale per raccontare questa storia, la storia di un genocidio. Uno scenario fine secolo in via di distruzione. Un enorme buco al centro di tale scenario. Fa pensare a un'arena dove si uccidevano gli schiavi e intorno c'era un impero che si distruggeva e ricostruiva. Uno scenario mobile per una storia eterna.

Le case, gli edifici vengono abbattuti e sostituiti da grattacieli. Il paesaggio cambia, ma la lotta degli oppressori contro gli oppressi, rimane la stessa; è immutabile.

Ma perché fare una domanda del genere? Perché Custer a le Halles? Perchè un'immagine può stimolare un’idea, come è accaduto in questo caso. Semplificando, cerco di dare (e far comprendere) il perché di una scelta così radicale. L''immagine di questo buco in mezzo alla città, mi ricorda infatti l'immagine dei circhi con i gladiatori, i deserti del Dakota, le piazze dove i poliziotti lanciano le bombe lacrimogene.

Perchè un western mi chiederete allora? perchè secondo me noi viviamo in un clima da western e perchè il western è sempre stato l'enorme trappola in cui siamo caduti fin da bambini.

Il western esprime in maniera semplice ed elementare i concetti Dio, Patria, Famiglia che sono spesso una fregatura e io riprendo quindi proprio questi ridicoli concetti  (buoni per tutte le stagioni ) per farli annegare  dentro un mare di risate  tanto sono incongruenti e privi di effettivo signifjcato.

La Grand Bouffe era un film fisiologico. Questo invece è un film di sentimenti e di idee. Doveva quindi essere "necessariamente" comico e irriverente. Oggigiorno questo è l’unico modo con cui si può parlare di sentimenti e di idee che esprimono concetti così superati..

Le Halles dunque sono il "Western" (o per meglio dire ancora, sono uno scenario da western). La vecchia frontiera cos'era se non  quello che racconto adesso? Anche al tempo di Custer, un secolo fa, si demolivano già vecchi edifici come il Pavillon dui Baltad.

Non sembra anche a voi che non ci sia necessità di andare in Dakota per fare un western? Si trovano anche nelle città elementi e situazioni che appartengo nodi diritto al genere western... e ci si incontrano anche lì molto spesso i soldati del Settimo Cavalleria pronti all'assalto.

Quando io penso ai Pellirosse, penso al proletariato e al sottoproletariato che si lascia schiacciare e umiliare e non ci trovo molte differenze.

L'opera di distruzione contro i Pellirosse è stato un etnicidio, la distruzione di un popolo e di una nazione e questo film, esattamente come nella storia, parte da qui, solo che coloro che si credono forti invece di parlare di genocidio, parlano "di diritto alla conquista". E diventa veramente comico quando i conquistatori sono a loro volta schiacciati, perchè i conquistati hanno imparato a parlare di diritto alla resistenza  e alla vittoria. E' quello che è accaduto nella cruenta battaglia di Little Big Horn (dove per inciso ci rime la pelle anche Custer) e che potrà accadere di nuovo (almeno lo spero), domani o dopodomani dappertutto.

E' BELLA LA VITTORIA - LA NOSTRA. (Marco Ferreri)


Non credo ci sia bisogno di aggiungere altro se non che quell’utopia purtroppo non si è avverata e siamo ancora al punto di partenza (anzi qualche passo indietro,

No non doveva finire così (meditate gente, meditate!!!!!!)

da qui

 

Tra i film che ho visto di Ferreri forse questo è quello che mi ha entusiasmato di meno ma sicuramente non è un film da sottovalutare,sicuramente diseguale ma a tratti illuminato da veri e propri lampi di genio. La ricostruzione scenografica come sempre accade in Ferreri è di grande raffinatezza. E'straniante vedere nel bel mezzo della metropoli parigina una sorta di cava di pietra polverosa in cui ambientare una riedizione sui generis  della battaglia di Little Big Horn funesta per il generale Custer e per gli americani. Attraverso personaggi delineati con il suo consueto stile al vetriolo viene messa in scena una paradossale lotta tra oppressi di tutte le nazionalità e oppressori americani. In filigrana (e viene nominato anche in un dialogo) si può leggere anche una ferma critica all'esportazione della democrazia con modi violenti come era accaduto al CiIe di qualche mese prima.E non è un caso che viene destrutturato alle fondamenta uno dei pochi miti derivanti dalla storia  che può vantare la giovane nazione americana:il mito del West.Non è un caso che tutti coloro che sono dalla parte americana(compreso un mito assai più genuino come quello di Buffalo Bill) siano degli idioti matricolati o al massimo dei servi sciocchi dei padroni. La simpatia di Ferreri va tutta alla schiera raccogliticcia di poveri e oppressi di tutto il mondo contro lo strapotere economico(e in questo caso anche militare).Il discorso è cristallino,forse troppo,la metafora è fin troppo leggibile ,c'è una contrapposizione manichea tra due schieramenti con una piccola folla di personaggi macchietta che contribuiscono a intorbidare le acque.Alcune caratterizzazioni sono estremamente divertenti e gustose altre un po'meno,anche se bisogna notare la ricchezza oserei dire quasi spopositata del cast che raccoglie il meglio del cinema italiano e di quello francese.L'invenzione migliore è comunque trapiantare un pezzo di storia del West nel bel mezzo della voragine scavata in un quartiere popolare e proletario di Parigi.Un invito neanche troppo velato ai proletari di tutto il mondo a unirsi contro i padroni.E comunque Ferreri si ritaglia la parte di un fotografo asservito totalmente ai padroni,forse in un impeto di autoflagellazione.

da qui

 

Un western nel pieno centro di Parigi, ai nostri giorni. La "ricostruzione" molto riveduta e molto corretta (o meglio, corrotta) della battaglia di Little Big Horn, dove il Colonnello della Cavalleria George Custer portò alla distruzione il suo reparto e dove lui stesso trovò la morte. Si tratta di uno dei pochi episodi in cui i nativi americani ebbero la meglio sugli invasori in giubba blu. Ciò poté avvenire perché le varie tribù indiane si unirono per sconfiggere gli uomini mandati dal Presidente (nel film Nixon, all'epoca già dimissionato). Questo della necessaria unione delle tribù native è il punto su cui insiste molto, all'inizio del film, l'indiano pazzo impersonato dall'impagabile Serge Reggiani, il migliore della comitiva.
Più che la trama o la ricostruzione storica, del resto improbabile (i soldati del Settimo Cavalleggeri accolgono Custer alla Gare de Lyon), conta la messinscena. Come è stato acutamente osservato, attraverso un genere emblematico come il western, Ferreri (un autore che merita di stare nell'Olimpo del cinema italiano e non solo) propone una mascherata in cui gli Indiani sono nello stesso tempo il proletariato oppresso, i Vietnamiti bombardati (oggi sarebbero gli Iracheni o i Palestinesi), i Cileni massacrati. Custer è invece MacArthur ed anche Pinochet (definizioni di Jacques Doniol-Valcroze).
Il film non è il capolavoro di Ferreri (qui anche in veste di sceneggiatore insieme al fido Rafael Azcona), ma non è neppure un "Ferreri minore" e vale la pena di essere visto.

da qui

  

Non toccare la donna bianca, di Marco Ferreri

Gioco mascherato e allucinatorio che racconta la storia di ogni popolo oppresso, partendo dalla demolizione del genere western. Il film più libero e incondizionatamente politico di Marco Ferreri

Federico Rizzo

 

Un ristretto gruppo di intellettuali aristocratici discute della posizione elitaria della loro razza rispetto a quella infima e bastarda del popolino, dei poveracci. Serve una presa di posizione decisa e risoluta in favore del progresso, “lo sterminio di uomini donne e bambini” poiché “più ne ammazziamo quest’anno e meno dovremo ammazzarne l’anno venturo”. Bisognerà muoversi con grande discrezione, basta ricordarsi del Watergate dopotutto, per questo motivo l’unico modo è affidare il compito al generale Custer, un esperto in materia di genocidi. L’incipit assurdo di Non toccare la donna bianca è già di per sé il manifesto del film di Marco Ferreri, la sua opera più libera e incondizionatamente politica, senza contare l’inchiesta televisiva Perché pagare per essere felici?. Tutto nasce quando il comune di Parigi decide di abbattere lo storico mercato di Les Halles nel primo arrondissement con lo scopo di costruire un centro commerciale sotterraneo, in nome del progresso economico e a discapito della storia del quartiere. Nel ristretto margine di tempo tra la distruzione e la ricostruzione, Ferreri decide di sfruttare quel colossale buco nel centro di Parigi per mettere in scena la storia universale di un genocidio in chiave western. Soldati americani contro pellerossa. Il generale Custer contro Toro Seduto. Uno scontro ideale che ha contribuito a creare l’immaginario cinematografico con cui sono cresciute intere generazioni. “Non è l’Arizona che fa il western, ma le idee”, scriverà l’autore nella prefazione della sceneggiatura pubblicata per Einaudi. L’idea di Ferreri è raccontare la storia di ogni sopruso, di ogni popolo schiacciato e di ogni proletario oppresso. Quel buco nel centro di Parigi diventa così la fossa dei leoni nel Colosseo, il Grand Canyon, lo stadio di Santiago del Cile e ogni luogo di esecuzione di massa. Secondo Ferreri, il western si trova dappertutto, è un’illusione di forza, un generatore continuo di idee e situazioni di dominio violento e distruttivo. Uno spazio in cui il dominatore bianco, borghese e militare vincerà sempre sul popolo oppresso, finché non ci sarà un rovesciamento del potere. Il western viene così prima ridicolizzato e poi ribaltato, smontato dall’interno e rinchiuso in un nonluogo in demolizione.

 

Rispetto ai film precedenti ed in parte anche ai successivi, al centro di Non toccare la donna bianca non c’è il corpo ma lo spazio, la città. Anche in questo caso però il regista pone grande attenzione all’immagine dei suoi personaggi/attori, stilizzati all’inverosimile fino a scomparire in maschere codificate del genere western. La banda di La grande abbuffata, antecedente di un solo anno, torna al gran completo in un divertente gioco mascherato e familiare. Se Marcello Mastroianni e l’allora compagna Catherine Deneuve sono rispettivamente Custer e la sua amata Marie-Hélène, Philippe Noiret interpreta il generale Terry, mentre Tognazzi con moglie e figlio (Gianmarco) sono una famiglia di pellerossa vicina ai soldati americani. Fin dal primo momento agli attori è richiesta la ripetizione ossessiva di pose e atteggiamenti grotteschi, come la lunga chioma posticcia di Mastroianni/Custer e il ridicolo pigiama rosso con cui Noiret/Terry accoglie i quattro “teorici del massacro”. La parodia esilarante del Buffalo Bill di Michel Piccoli aggiunge un elemento da teatro di varietà in una vicenda già ridicola di per sé, ma soprattutto centra un altro tema cardine della filmografia ferreriana: la crisi della mascolinità. Il maschio del mito western è morto. La crisi isterica di Custer per il pettine perduto e il piccolo beagle sul letto di Terry lo confermano. Tutto è messo in scena in maniera grottesca e demenziale, ai livelli dei Monty Python in Gran Bretagna e degli ZAZ (Zucker-Abrahams-Zucker) negli Stati Uniti. Non c’è alcun riguardo verso la ricostruzione storica, la vicenda viene completamente svincolata dalle mere questioni cronologiche. Un manifesto con l’immagine di Nixon compare nella stanza di Terry mentre il viso di Kennedy è disegnato sui pantaloni di un pellerossa. Sul set la troupe si è limitata a bloccare il traffico, in questo modo l’arrivo di Custer a cavallo per le vie del centro viene osservata da una serie di curiosi parigini che la cinepresa non esita a mostrarci. Paolo Villaggio, nella sua unica collaborazione con Marco Ferreri, è il professore di antropologia Pinkerton, un omino in felpa e jeans con le mani costantemente infilate in un sacchetto di patatine. Si scoprirà essere un agente infiltrato dalla CIA con il compito di seminare zizzania tra soldati e pellerossa. Le sue prossime destinazioni? Italia e Cile. Uno straniamento totale, una vertigine allo stesso tempo spaziale, antropologica e temporale. Così, nella mitica battaglia finale tra Custer e Toro Seduto si consuma un doppio sacrificio, quello del western e quello dello spazio parigino. Distruzione e trasformazione, come da prassi nel cinema di Marco Ferreri. L’invasore è annientato e il popolo ha avuto la sua vendetta, ma il progresso non può essere arrestato e mentre la cinepresa si alza allargando l’inquadratura, i pellerossa si dirigono verso la città pronti per la prossima battaglia.

da qui

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