la sceneggiatura di Rafael Azcona e Marco Ferreri è inappuntabile e fortemente politica.
descrive i meccanismi della sottomissione e dello sterminio, in questo caso di Custer contro gli indiani, ma dietro c'è l'interesse degli sfruttatori dell'accumulazione originaria, a qualsiasi costo.
e il discorso è attuale, non riguarda solo gli indiani, la Cia e Nixon sono macigni.
attori, come sempre, bravissimi, nelle mani di un maestro.
il film è inquietante, e le risate sono amare, con un retrogusto di sterminio in nome della civisìltà, naturalmente.
un capolavoro senza tempo, non perdetevelo, se vi volete bene.
buona (indimenticabile) visione - Ismaele
QUI il film completo, su Raiplay
Originale, grottesco, pomposo... Eccellente...
Una pellicola sconosciuta, ma, davvero, un'ottima pellicola... Grandi attori...
Ferreri è sempre Ferreri...
Geniale!!!!
…La matrice politica per esempio c'è ancora tutta ed è potente e di
forte presa evocativa pure qui. Ed è proprio questo che sorregge magistralmente
tutta la pellicola rendendo accettabili anche quei pochi momenti più corrivi e
tediosi a cui accennavo prima. Rimane invariato infatti lo spirito iconoclasta,
corrosivo e provocatorio di Ferreri che
sono le caratteristiche più evidenti e continuative che si ritrovano in tutte
le opere del regista, ampiamente confermate dalle sue stesse parole che scrisse
come prefazione della sceneggiatura pubblicata da Einaudi nella collana
"Nuovi coralli" nel 1975:
Perché Custer alle Halles, a Parigi nel 1973?
Dal punto di vista dello spettacolo, le Halles di
Parigi, rappresentano un ambiente ideale per raccontare questa storia, la
storia di un genocidio. Uno scenario fine secolo in via di distruzione. Un enorme
buco al centro di tale scenario. Fa pensare a un'arena dove si
uccidevano gli schiavi e intorno c'era un impero che si distruggeva e
ricostruiva. Uno scenario mobile per una storia eterna.
Le case, gli edifici vengono abbattuti e sostituiti da
grattacieli. Il paesaggio cambia, ma la lotta degli oppressori contro gli
oppressi, rimane la stessa; è immutabile.
Ma perché fare una domanda del genere? Perché Custer a
le Halles? Perchè un'immagine può stimolare un’idea, come è accaduto in questo
caso. Semplificando, cerco di dare (e far comprendere) il perché di una scelta
così radicale. L''immagine di questo buco in mezzo alla città, mi ricorda
infatti l'immagine dei circhi con i gladiatori, i deserti del Dakota, le piazze
dove i poliziotti lanciano le bombe lacrimogene.
Perchè un western mi chiederete allora? perchè secondo
me noi viviamo in un clima da western e perchè il western è sempre stato
l'enorme trappola in cui siamo caduti fin da bambini.
Il western esprime in maniera semplice ed elementare i
concetti Dio, Patria, Famiglia che sono spesso una fregatura e io riprendo
quindi proprio questi ridicoli concetti (buoni per tutte le stagioni )
per farli annegare dentro un mare di risate tanto sono incongruenti
e privi di effettivo signifjcato.
La Grand Bouffe era un film fisiologico. Questo
invece è un film di sentimenti e di idee. Doveva quindi essere
"necessariamente" comico e irriverente. Oggigiorno questo è l’unico
modo con cui si può parlare di sentimenti e di idee che esprimono concetti così
superati..
Le Halles dunque sono il "Western" (o per
meglio dire ancora, sono uno scenario da western). La vecchia frontiera cos'era
se non quello che racconto adesso? Anche al tempo di Custer, un secolo
fa, si demolivano già vecchi edifici come il Pavillon dui Baltad.
Non sembra anche a voi che non ci sia necessità di
andare in Dakota per fare un western? Si trovano anche nelle città elementi e
situazioni che appartengo nodi diritto al genere western... e ci si incontrano
anche lì molto spesso i soldati del Settimo Cavalleria pronti all'assalto.
Quando io penso ai Pellirosse, penso al proletariato e
al sottoproletariato che si lascia schiacciare e umiliare e non ci trovo molte
differenze.
L'opera di distruzione contro i Pellirosse è stato un
etnicidio, la distruzione di un popolo e di una nazione e questo film,
esattamente come nella storia, parte da qui, solo che coloro che si credono
forti invece di parlare di genocidio, parlano "di diritto alla
conquista". E diventa veramente comico quando i conquistatori sono a loro
volta schiacciati, perchè i conquistati hanno imparato a parlare di diritto
alla resistenza e alla vittoria. E' quello che è accaduto nella cruenta
battaglia di Little Big Horn (dove per inciso ci rime la pelle anche
Custer) e che potrà accadere di nuovo (almeno lo spero), domani o dopodomani
dappertutto.
E' BELLA LA VITTORIA - LA NOSTRA. (Marco Ferreri)
Non credo ci sia bisogno di aggiungere altro se non
che quell’utopia purtroppo non si è avverata e siamo ancora al punto di
partenza (anzi qualche passo indietro,
No non doveva finire così (meditate gente, meditate!!!!!!)
Tra i film che ho visto di Ferreri forse questo è quello
che mi ha entusiasmato di meno ma sicuramente non è un film da
sottovalutare,sicuramente diseguale ma a tratti illuminato da veri e propri
lampi di genio. La ricostruzione scenografica come sempre accade in Ferreri è di
grande raffinatezza. E'straniante vedere nel bel mezzo della metropoli parigina
una sorta di cava di pietra polverosa in cui ambientare una riedizione sui
generis della battaglia di Little Big Horn funesta per il generale Custer
e per gli americani. Attraverso personaggi delineati con il suo consueto stile
al vetriolo viene messa in scena una paradossale lotta tra oppressi di tutte le
nazionalità e oppressori americani. In filigrana (e viene nominato anche in un
dialogo) si può leggere anche una ferma critica all'esportazione della
democrazia con modi violenti come era accaduto al CiIe di qualche mese prima.E
non è un caso che viene destrutturato alle fondamenta uno dei pochi miti
derivanti dalla storia che può vantare la giovane nazione americana:il
mito del West.Non è un caso che tutti coloro che sono dalla parte
americana(compreso un mito assai più genuino come quello di Buffalo Bill) siano
degli idioti matricolati o al massimo dei servi sciocchi dei padroni. La
simpatia di Ferreri va tutta alla schiera raccogliticcia di poveri e oppressi
di tutto il mondo contro lo strapotere economico(e in questo caso anche
militare).Il discorso è cristallino,forse troppo,la metafora è fin troppo
leggibile ,c'è una contrapposizione manichea tra due schieramenti con una
piccola folla di personaggi macchietta che contribuiscono a intorbidare le
acque.Alcune caratterizzazioni sono estremamente divertenti e gustose altre un
po'meno,anche se bisogna notare la ricchezza oserei dire quasi spopositata del
cast che raccoglie il meglio del cinema italiano e di quello
francese.L'invenzione migliore è comunque trapiantare un pezzo di storia del
West nel bel mezzo della voragine scavata in un quartiere popolare e proletario
di Parigi.Un invito neanche troppo velato ai proletari di tutto il mondo a
unirsi contro i padroni.E comunque Ferreri si ritaglia la parte di un fotografo
asservito totalmente ai padroni,forse in un impeto di autoflagellazione.
Un western nel pieno centro di Parigi, ai nostri giorni. La
"ricostruzione" molto riveduta e molto corretta (o meglio, corrotta)
della battaglia di Little Big Horn, dove il Colonnello della Cavalleria George
Custer portò alla distruzione il suo reparto e dove lui stesso trovò la morte.
Si tratta di uno dei pochi episodi in cui i nativi americani ebbero la meglio
sugli invasori in giubba blu. Ciò poté avvenire perché le varie tribù indiane
si unirono per sconfiggere gli uomini mandati dal Presidente (nel film Nixon,
all'epoca già dimissionato). Questo della necessaria unione delle tribù native
è il punto su cui insiste molto, all'inizio del film, l'indiano pazzo
impersonato dall'impagabile Serge Reggiani, il migliore della comitiva.
Più che la trama o la ricostruzione storica, del
resto improbabile (i soldati del Settimo Cavalleggeri accolgono Custer alla
Gare de Lyon), conta la messinscena. Come è stato acutamente osservato,
attraverso un genere emblematico come il western, Ferreri (un autore che merita
di stare nell'Olimpo del cinema italiano e non solo) propone una mascherata in
cui gli Indiani sono nello stesso tempo il proletariato oppresso, i Vietnamiti
bombardati (oggi sarebbero gli Iracheni o i Palestinesi), i Cileni massacrati.
Custer è invece MacArthur ed anche Pinochet (definizioni di Jacques
Doniol-Valcroze).
Il film non è il capolavoro di Ferreri (qui
anche in veste di sceneggiatore insieme al fido Rafael Azcona), ma non è
neppure un "Ferreri minore" e vale la pena di essere visto.
Non toccare la donna
bianca, di Marco Ferreri
Gioco mascherato e allucinatorio che
racconta la storia di ogni popolo oppresso, partendo dalla demolizione del
genere western. Il film più libero e incondizionatamente politico di Marco
Ferreri
Un ristretto gruppo di
intellettuali aristocratici discute della posizione elitaria della loro razza
rispetto a quella infima e bastarda del popolino, dei poveracci. Serve una
presa di posizione decisa e risoluta in favore del progresso, “lo sterminio di uomini donne e bambini” poiché “più ne ammazziamo quest’anno e meno dovremo ammazzarne
l’anno venturo”. Bisognerà muoversi con grande discrezione, basta
ricordarsi del Watergate dopotutto, per questo motivo l’unico modo è affidare
il compito al generale Custer, un esperto in materia di genocidi. L’incipit
assurdo di Non toccare la donna bianca è
già di per sé il manifesto del film di Marco Ferreri, la sua opera più libera e
incondizionatamente politica, senza contare l’inchiesta televisiva Perché pagare per essere felici?. Tutto nasce quando il comune di Parigi decide di
abbattere lo storico mercato di Les Halles nel
primo arrondissement con lo scopo di costruire un centro commerciale
sotterraneo, in nome del progresso economico e a discapito della storia del
quartiere. Nel ristretto margine di tempo tra la distruzione e la
ricostruzione, Ferreri decide di sfruttare quel colossale buco nel centro di
Parigi per mettere in scena la storia universale di un genocidio in chiave
western. Soldati americani contro pellerossa. Il generale Custer contro Toro Seduto.
Uno scontro ideale che ha contribuito a creare l’immaginario cinematografico
con cui sono cresciute intere generazioni. “Non è l’Arizona che fa il
western, ma le idee”, scriverà l’autore nella prefazione della
sceneggiatura pubblicata per Einaudi. L’idea di Ferreri è raccontare la storia
di ogni sopruso, di ogni popolo schiacciato e di ogni proletario oppresso. Quel
buco nel centro di Parigi diventa così la fossa dei leoni nel Colosseo, il
Grand Canyon, lo stadio di Santiago del Cile e ogni luogo di esecuzione di
massa. Secondo Ferreri, il western si trova dappertutto, è un’illusione di
forza, un generatore continuo di idee e situazioni di dominio violento e
distruttivo. Uno spazio in cui il dominatore bianco, borghese e militare
vincerà sempre sul popolo oppresso, finché non ci sarà un rovesciamento del
potere. Il western viene così prima ridicolizzato e poi ribaltato, smontato
dall’interno e rinchiuso in un nonluogo in
demolizione.
Rispetto ai film
precedenti ed in parte anche ai successivi, al centro di Non toccare la donna bianca non c’è il corpo ma
lo spazio, la città. Anche in questo caso però il regista pone grande
attenzione all’immagine dei suoi personaggi/attori, stilizzati all’inverosimile
fino a scomparire in maschere codificate del genere western. La banda di La grande abbuffata, antecedente di un solo anno, torna al gran completo in
un divertente gioco mascherato e familiare. Se Marcello Mastroianni e l’allora
compagna Catherine Deneuve sono rispettivamente Custer e la sua amata
Marie-Hélène, Philippe Noiret interpreta il generale Terry, mentre Tognazzi con
moglie e figlio (Gianmarco) sono una famiglia di pellerossa vicina ai soldati
americani. Fin dal primo momento agli attori è richiesta la ripetizione
ossessiva di pose e atteggiamenti grotteschi, come la lunga chioma posticcia di
Mastroianni/Custer e il ridicolo pigiama rosso con cui Noiret/Terry accoglie i
quattro “teorici del massacro”. La parodia esilarante del Buffalo Bill di
Michel Piccoli aggiunge un elemento da teatro di varietà in una vicenda già
ridicola di per sé, ma soprattutto centra un altro tema cardine della
filmografia ferreriana: la crisi della mascolinità. Il maschio del mito western
è morto. La crisi isterica di Custer per il pettine perduto e il piccolo beagle
sul letto di Terry lo confermano. Tutto è messo in scena in maniera grottesca e
demenziale, ai livelli dei Monty Python in Gran Bretagna e degli ZAZ (Zucker-Abrahams-Zucker)
negli Stati Uniti. Non c’è alcun riguardo verso la ricostruzione storica, la
vicenda viene completamente svincolata dalle mere questioni cronologiche. Un
manifesto con l’immagine di Nixon compare nella stanza di Terry mentre il viso
di Kennedy è disegnato sui pantaloni di un pellerossa. Sul set la troupe si è
limitata a bloccare il traffico, in questo modo l’arrivo di Custer a cavallo
per le vie del centro viene osservata da una serie di curiosi parigini che la
cinepresa non esita a mostrarci. Paolo Villaggio, nella sua unica
collaborazione con Marco Ferreri, è il professore di antropologia Pinkerton, un
omino in felpa e jeans con le mani costantemente infilate in un sacchetto di
patatine. Si scoprirà essere un agente infiltrato dalla CIA con il compito di
seminare zizzania tra soldati e pellerossa. Le sue prossime destinazioni?
Italia e Cile. Uno straniamento totale, una vertigine allo stesso tempo
spaziale, antropologica e temporale. Così, nella mitica battaglia finale tra
Custer e Toro Seduto si consuma un doppio
sacrificio, quello del western e quello dello spazio parigino. Distruzione e
trasformazione, come da prassi nel cinema di Marco Ferreri. L’invasore è
annientato e il popolo ha avuto la sua vendetta, ma il progresso non può essere
arrestato e mentre la cinepresa si alza allargando l’inquadratura, i pellerossa
si dirigono verso la città pronti per la prossima battaglia.
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