…Enigmatico, intenso, severo e austero, il film non
concede facili interpretazioni, ma compie una riflessione non banale sulla
natura umana, sulla sua propensione verso l'eterno e sulla sua intrinseca
contraddittorietà nel guardare verso l'alto e nel comportarsi in modo da
sprofondare sempre più in basso.
I personaggi principali sono ben caratterizzati, lontani dall'essere dei puri
simboli funzionali. Erik ha vissuto in pieno la guerra, l'ha combattuta
vivendone gli orrori e adeguandosi perfettamente, modellando la sua coscienza
in modo da non sentire rimorso per le innumerevoli crudeltà commesse. è ormai
così abituato a combattere che non riesce a trovare un senso alla propria vita
in tempo di pace. Non trova un proprio posto e teme il momento in cui l'assenza
di fragore e di conflitto lo costringerà a pensare a quanto ha fatto. Knut
invece, più giovane, ha studiato, è rimasto ai margini del conflitto diventando
cartografo. La missione li ha riuniti, ma non potrebbero essere più diversi,
pur nutrendo un forte sentimento di solidarietà. Knut sente il rimorso, ma non
riesce a trarne le conseguenze giuste.
Richiami
In quel non luogo, Erik e Knut, assieme agli altrettanto stupefatti emissari
russi, devono confrontarsi con qualcosa estremamente lontano da tutto quanto
hanno conosciuto. Il redde rationem è di quelli definitivi e fa risaltare
l'inutilità della sovrastruttura così burocratica della società umana.
L'irrilevanza del compito che sono chiamati lì a svolgere è perfettamente
rispecchiata nello scambio che Knut ha con l'unica ragazza del villaggio che
gli chiede cosa sia una mappa e perché servano i confini: “Per sapere se siamo
russi o svedesi” gli risponde Knut. Come se importasse, in quel luogo e in quel
momento. Il desiderio di redenzione da una colpa sempre più insostenibile
diventa il motore di una disillusa speranza che sa di non potersi disgiungere
dal sacrificio, anche estremo…
…«È
stato un bellissimo film!» «Sì, ma che voleva dire?» «E che te ne frega? È
stato bello uguale». Ecco dovrei, con questo scampolo di banalissima
conversazione fra due anonimi spettatori di un anonimo film, aver spiegato bene
la sensazione che si prova dopo aver visto Sauna. La bellezza del
film è indubbia, colpisce al petto e fa languire anche i più incalliti
cinefili: fotografia livida e dettagliata, inquadrature di commovente bellezza,
caratterizzazioni di personaggi brillanti e originali, regia elegante fino allo
spasimo, recitazioni di prima qualità. Purtroppo il senso del film rimarrà
tragicamente precluso. Colpa dello script? Sicuramente, ma le ossa che
sorreggono la soda carne del film paiono troppo ad arte intrecciate per essere
inconcludenti. Non è lo sceneggiatore ad aver finito le idee, è l’idea dello
sceneggiatore troppo oscura. C’è qualcosa che la pellicola nasconde. C’è un
qualche senso lontano, remoto, forse anche equivoco, che giace da qualche parte
in mezzo alla sospirata bellezza dello script. La trama non si sfilaccia, non
crolla sotto il peso di forzature ma si fa solo inspiegabilmente misteriosa,
non si comprende il perché e il percome di questa o quella azione e il film
sprofonda nel buio…
…Il regista, Antti-Jussi Annila, vuole
suggestionare, stimolare ogni senso, tormentarci mentre tentiamo di comprendere
il corso degli eventi, creando un cortocircuito tra razionalità e
irrazionalità, acuendo minuto dopo minuto un senso profondo di angoscia e
riuscendo persino ad evitare, se non in rare occasioni, facili trucchi da
prestigiatore hollywoodiano.
Cristallizzato in una fotografia livida che
trasuda morte a ogni inquadratura, volutamente surreale nell’inserimento di
elementi anacronistici, a iniziare dall’architettura fuori dal tempo e minimale
della sauna purificatrice, il film è prima di tutto un’esperienza
maledettamente compatta (dura solo 85 minuti) e fisica che fino all’ultimo fa
sperare nella catarsi, mentre si accumulano indizi che a freddo rivelerebbero
subito la disperazione sconfinata che ci attende, ma durante la visione siamo
soverchiati dall’atmosfera ed esattamente come per i protagonisti la ragione va
persa.
L’impatto estetico di alcune immagini è
fortissimo, fino ad arrivare all’acme della sequenza conclusiva, minuti
interminabili di epifania mostruosa, terrore panico e di una rivelazione che in
cuor nostro avevamo compreso, ma che rifiutavamo.
Annila sa come muovere la camera, sa come farsi
supportare dal montaggio per incastrare flashback, giocare con il plot o
sbatterci in faccia dopo un momento di ipnotica calma una sequenza shock che
faccia sussultare, il cui significato è rivelato solo successivamente,
confondendo le acque per non rivelarci la soluzione e concedendoci il piacere
masochistico di farci ingannare.
Il pregio principale della sua operazione è
quello di usare tutti i mezzi cinematografici per disorientare lo spettatore
senza scadere in facili effetti splatter, rappresentando la violenza in modo
crudo e realistico, ma obliquo (la scena dell’autoscarnificazione ripresa
frontalmente), abituandoci ad una dimensione inconscia della paura che esalta
la ferocia della scena finale, in cui la splendida fotografia raggiunge il suo
punto più alto nello sfruttamento del buio e dei contrasti dei mezzitoni…
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