lunedì 11 ottobre 2021

Il buco - Michelangelo Frammartino

lasciate ogni speranza di vedere lotte, inseguimenti, amplessi.

in questo film, ambientato nel 1961, ci sono tanti silenzi (se qualcuno non riesce a sopportarli stia a casa) e le spiegazioni, o meglio, le intuizioni dei problemi della nostra civiltà ed economia.

l'aspetto economico e antropologico è evidente, ci sono quelli che nei grattacieli rincorrono la crescita, senza porsi limiti (il dramma dei nostri tempi), quelli che con la natura, gli speleologi, hanno un rapporto di rispetto, conservazione, senso del limite, e i pastori calabresi che sono gli stessi del tempo della Magna Grecia, senza troppe e inutili parole, in un rapporto di convivenza con la natura.

si nasce e si muore in modo naturale, oggi quel pastore l'avrebbero attaccato alle macchine per anni, in un'interminabile premorte.

il paese è lontano dalle grotte e dai pascoli, e gli abitanti, tutti insieme, al bar, iniziano a vedere la tv, un rito obbligato di modernità, che coincide con la morte di molti di quei paesi. 

è uno di quei film che resteranno fra 100 anni, adesso è al cinema solo in 10 sale in tutta Italia, non perdetevelo.

buona (imperdibile) visione - Ismaele  

 

 

 

 

 

 

Ma dov’è la trama? Protesta ingenuo qualche spettatore pigro o miope. La trama questa volta – ed è una delle cose che rendono questo film unico e imperdibile – non è nel racconto ma nella “tessitura” di contrasti che coinvolge tanto il visivo quanto il sonoro: silenzi e bisbigli, campi lunghissimi e (pochi) primissimi piani, vedute dall’alto e sbirciate dal basso. E poi quei fogli di giornali d’epoca incendiati e lasciati cadere nell’abisso per illuminare quel fuoricampo assoluto che sta giù giù dove nessuno prima è mai arrivato. Quel volto omerico dell’anziano contadino calabro che dialoga con gli animali mimando i loro versi. Quelle riunioni davanti al televisore acceso di sera come davanti al fuoco di un bivacco.

Il buco non è un film come gli altri. Chi cerca un film come gli altri è bene si astenga, troverebbe la visione sfiancante. Nella sua ambizione di mettere in forma l’informe, Il buco – meritatamente onorato alla Mostra del cinema di Venezia con il Premio speciale della Giuria – non è solo un film da vedere: è un’esperienza percettiva da fare. Un sentimento del tempo da sperimentare. Una polifonia di suoni – il vento, l’acqua, i sassi, le bestie – da ascoltare.

La speleologia – è bene ricordarlo – nasce più o meno negli stessi anni della psicanalisi e del cinema (1895, l’anno della prima proiezione pubblica dei fratelli Lumière). Cos’hanno in comune cineasti, psicanalisti e speleologi? Il desiderio di rendere visibile ciò che prima non lo era (il movimento, l’inconscio, il buio). Di sondare il fuoricampo assoluto. Poco importa se in una grotta, su uno schermo o nell’anima.

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Il film dura 93 minuti e presenta pochissimi dialoghi. Per più del 90% regnano il silenzio e i rumori della natura spezzati solo dalle voci fuori campo della vita di un piccolo borgo. Vengono quindi presentate anche scene di vita quotidiana come il lavoro nei campi, il controllo medico di alcuni bambini.

In questo contesto naturale che vede protagonista la natura e il vivere della popolazione si innesta arrivando con furgoni militari la vicenda degli speleologi che devono perlustrare il famoso buco fin nella profondità.

“Il buco” si esprime per immagini e non presenta nessuna spiegazione da parte degli attori che vediamo in scena. Quasi nessuno parla e si ha sempre l’impressione di essere spettatori che non vengono calcolati nella scena. Lo spettatore non ha nessuna informazione scritta o parlata di quanto sta accadendo. Il tutto viene ricostruito dall’azione sullo schermo…

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Frammartino restituisce tridimensionalità allo schermo scavandolo con la luce, lascia che sia la natura stessa a rivelarsi secondo i suoi ritmi, e che siano i suoi suoni e non i dialoghi a parlare. La "civiltà" ha il volto di un giornalista che si inerpica lungo il Pirellone, o di Kennedy e la Loren che sorridono dalle pagine dei rotocalchi, destinate a bruciare per rendere visibile l'invisibile, o evidenziare il rimosso: che è ciò che fa il cinema, nella sua accezione migliore. Infine Frammartino ci lascia con un quadro bianco, e il mondo termina inghiottito dalla nebbia, prima che dalle luci della sala.

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…E nell’abisso è tutto un gioco di luce e oscurità, di acqua che scava e risale dal fondo. Anche la visione collettiva della TV assomiglia a un rito, una riunione intorno al fuoco, al punto focale di un dispositivo destinato a diventare il nuovo centro mitopoietico. Sì, la questione è in questa doppia traiettoria della verticalità e dell’estensione, la modernità e le origini, la razionalità della costruzione e la contemplazione estatica. Per Herzog, magari, la discesa nella grotta sarebbe stata l’ennesima straordinaria avventura che testimonia del lato meraviglioso e terribile della natura. Per Frammartino, il dramma non c’è. Il tempo si è fermato. Persino la morte non è una tragedia. Fa parte delle cose.

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Il quadro che dipinge Frammartino è ancora avvolto dal dominio del creato, che abbraccia e ingloba tutte le scene, quasi come se fosse un’entità che impera dall’alto, e gestisce governando ciò che è concesso da ciò che non lo è. È dell’incontaminazione che vuole parlare, di com’era un tempo, lasciando una testimonianza che fa da monito su come sarebbe davvero il luogo che abitiamo, dentro al quale siamo solo ospiti, e che possiede una potenza che sa essere anche distruttiva.

Attraverso delle immagini che spesso sono statiche, inamovibili come montagne, a volte estenuanti per la lentezza, e che fanno sobbalzare dai rumori tuonanti e inaspettati, Il Buco fa esattamente ciò che promette: trascina in un terreno ostile, a cui è l’uomo a doversi adattare, senza possibilità di contrattazione di sorta, pena: la morte, oppure – e probabilmente, forse, è peggio – l’estraniazione in grandi città che fanno dimenticare le radici alle quali apparteniamo.

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…Non gioca sui simboli, Frammartino, ma lo stesso si finisce per chiedersi il perché di questa impresa filmica così rigorosa, il perché di questa rievocazione oggi e proprio oggi, di fronte a una nuova coscienza ecologica e a una nuova attenzione, che in parte ne consegue, per il mistero della natura e della vita; e per il loro destino. L’impressione è che egli sia stato affascinato da questa impresa senza saper molto bene dove indirizzarla, e abbia preferito, scelto, di “semplicemente” e rigorosamente ricostruirla e raccontarla e mostrarcela nella convinzione che il suo racconto potesse essere di per sé eloquente, e che ciascuno potesse trovarvi del suo, affascinato e stimolato da quel che si mostra e non da quel che si dice (in un film che è tra i più laconici che si conoscano…).

Ci si interroga sui suoi perché, su perché ha voluto farlo e l’ha fatto, e ognuno è libero di rispondere in modo diverso, personale. Ma pur sempre stupito e ammirato da un’impresa invero unica, a nostra conoscenza, nella storia del cinema, e in particolare del nostro.

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