lasciate ogni speranza di vedere lotte, inseguimenti, amplessi.
in questo film, ambientato nel 1961, ci sono tanti silenzi (se qualcuno non riesce a sopportarli stia a casa) e le spiegazioni, o meglio, le intuizioni dei problemi della nostra civiltà ed economia.
l'aspetto economico e antropologico è evidente, ci sono quelli che nei grattacieli rincorrono la crescita, senza porsi limiti (il dramma dei nostri tempi), quelli che con la natura, gli speleologi, hanno un rapporto di rispetto, conservazione, senso del limite, e i pastori calabresi che sono gli stessi del tempo della Magna Grecia, senza troppe e inutili parole, in un rapporto di convivenza con la natura.
si nasce e si muore in modo naturale, oggi quel pastore l'avrebbero attaccato alle macchine per anni, in un'interminabile premorte.
il paese è lontano dalle grotte e dai pascoli, e gli abitanti, tutti insieme, al bar, iniziano a vedere la tv, un rito obbligato di modernità, che coincide con la morte di molti di quei paesi.
è uno di quei film che resteranno fra 100 anni, adesso è al cinema solo in 10 sale in tutta Italia, non perdetevelo.
buona (imperdibile) visione - Ismaele
…Ma dov’è la trama? Protesta ingenuo
qualche spettatore pigro o miope. La trama questa volta – ed è una delle cose
che rendono questo film unico e imperdibile – non è nel racconto ma nella
“tessitura” di contrasti che coinvolge tanto il visivo quanto il sonoro: silenzi e bisbigli, campi lunghissimi e (pochi)
primissimi piani, vedute dall’alto e sbirciate dal basso. E poi
quei fogli di giornali d’epoca incendiati e lasciati cadere nell’abisso per
illuminare quel fuoricampo assoluto che sta giù giù dove nessuno prima è mai
arrivato. Quel volto omerico dell’anziano contadino calabro che dialoga con gli
animali mimando i loro versi. Quelle riunioni davanti al televisore acceso di
sera come davanti al fuoco di un bivacco.
Il buco non è un film come gli altri. Chi cerca un film come gli altri è
bene si astenga, troverebbe
la visione sfiancante. Nella sua ambizione di mettere in forma l’informe, Il buco – meritatamente onorato alla
Mostra del cinema di Venezia con il Premio speciale della Giuria – non è solo
un film da vedere: è un’esperienza percettiva da fare. Un sentimento del tempo
da sperimentare. Una polifonia di suoni – il vento, l’acqua, i sassi, le bestie
– da ascoltare.
La speleologia – è bene ricordarlo – nasce più o meno
negli stessi anni della psicanalisi e del cinema (1895, l’anno della prima
proiezione pubblica dei fratelli Lumière). Cos’hanno
in comune cineasti, psicanalisti e speleologi? Il desiderio di rendere visibile
ciò che prima non lo era (il movimento, l’inconscio, il buio). Di
sondare il fuoricampo assoluto. Poco importa se in una grotta, su uno schermo o
nell’anima.
… Il film dura 93 minuti e presenta pochissimi dialoghi. Per
più del 90% regnano il silenzio e i rumori della natura spezzati solo dalle
voci fuori campo della vita di un piccolo borgo. Vengono quindi presentate
anche scene di vita quotidiana come il lavoro nei campi, il controllo medico di
alcuni bambini.
In questo contesto naturale che vede
protagonista la natura e il vivere della popolazione si innesta arrivando con
furgoni militari la vicenda degli speleologi che devono perlustrare il famoso
buco fin nella profondità.
“Il buco” si esprime per immagini e non presenta nessuna
spiegazione da parte degli attori che vediamo in scena. Quasi nessuno parla e
si ha sempre l’impressione di essere spettatori che non vengono calcolati nella
scena. Lo spettatore non ha nessuna informazione scritta o parlata di quanto
sta accadendo. Il tutto viene ricostruito dall’azione sullo schermo…
…Frammartino
restituisce tridimensionalità allo schermo scavandolo con la luce, lascia che
sia la natura stessa a rivelarsi secondo i suoi ritmi, e che siano i suoi suoni
e non i dialoghi a parlare. La "civiltà" ha il volto di un
giornalista che si inerpica lungo il Pirellone, o di Kennedy e la Loren che sorridono dalle pagine dei rotocalchi, destinate a
bruciare per rendere visibile l'invisibile, o evidenziare il rimosso: che è ciò
che fa il cinema, nella sua accezione migliore. Infine Frammartino ci lascia
con un quadro bianco, e il mondo termina inghiottito dalla nebbia, prima che
dalle luci della sala.
…E nell’abisso è tutto un gioco di luce e
oscurità, di acqua che scava e risale dal fondo. Anche la visione collettiva
della TV assomiglia a un rito, una riunione intorno al fuoco, al punto focale
di un dispositivo destinato a diventare il nuovo centro mitopoietico. Sì, la
questione è in questa doppia traiettoria della verticalità e dell’estensione,
la modernità e le origini, la razionalità della costruzione e la contemplazione
estatica. Per Herzog, magari, la discesa nella grotta sarebbe stata l’ennesima
straordinaria avventura che testimonia del lato meraviglioso e terribile della
natura. Per Frammartino, il dramma non c’è. Il tempo si è fermato. Persino la morte non è una tragedia. Fa parte delle cose.
…Il quadro che dipinge Frammartino è ancora avvolto dal
dominio del creato, che abbraccia e ingloba tutte le scene, quasi come se fosse
un’entità che impera dall’alto, e gestisce governando ciò che è concesso da ciò
che non lo è. È dell’incontaminazione che vuole parlare, di com’era un tempo,
lasciando una testimonianza che fa da monito su come sarebbe davvero il luogo
che abitiamo, dentro al quale siamo solo ospiti, e che possiede una potenza che
sa essere anche distruttiva.
Attraverso delle immagini che
spesso sono statiche, inamovibili come montagne, a volte estenuanti per la
lentezza, e che fanno sobbalzare dai rumori tuonanti e inaspettati, Il Buco fa esattamente ciò che
promette: trascina in un terreno ostile, a cui è l’uomo a doversi adattare,
senza possibilità di contrattazione di sorta, pena: la morte, oppure – e
probabilmente, forse, è peggio – l’estraniazione in grandi città che fanno
dimenticare le radici alle quali apparteniamo.
…Non gioca sui simboli, Frammartino, ma lo
stesso si finisce per chiedersi il perché di questa impresa filmica così
rigorosa, il perché di questa rievocazione oggi e proprio oggi, di fronte a una
nuova coscienza ecologica e a una nuova attenzione, che in parte ne consegue,
per il mistero della natura e della vita; e per il loro destino. L’impressione
è che egli sia stato affascinato da questa impresa senza saper molto bene dove
indirizzarla, e abbia preferito, scelto, di “semplicemente” e rigorosamente ricostruirla
e raccontarla e mostrarcela nella convinzione che il suo racconto potesse
essere di per sé eloquente, e che ciascuno potesse trovarvi del suo,
affascinato e stimolato da quel che si mostra e non da quel che si dice (in un
film che è tra i più laconici che si conoscano…).
Ci si interroga sui suoi perché, su
perché ha voluto farlo e l’ha fatto, e ognuno è libero di rispondere in modo
diverso, personale. Ma pur sempre stupito e ammirato da un’impresa invero
unica, a nostra conoscenza, nella storia del cinema, e in particolare del
nostro.
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