Squid Game è il capitalismo - Caitlyn Clark
Come aveva già fatto «Parasite», la
serie coreana di Netflix mette in scena gli orrori di disuguaglianza e
sfruttamento in Corea del Sud e demolisce il mito secondo cui lavorare sodo è
garanzia di prosperità
L’industria dell’intrattenimento sudcoreana è conosciuta all’estero
soprattutto per la prolifica produzione di K-Pop allegro e fabbricato in serie,
e per una manciata di film e serie televisive che hanno attirato l’attenzione
internazionale negli ultimi anni. Le esportazioni cinematografiche del paese
sono molto più oscure, trattando in maniera esplicita e allegorica la triste
realtà della vita in Corea sotto il capitalismo.
L’ultimo esempio di questo genere è il dramma distopico di
sopravvivenza Squid Game, che si sta avviando a diventare la serie
Netflix più vista di tutti i tempi. Come il film premio Oscar 2019 di Bong
Joon-ho Parasite e il K-drama Extracurricular prodotto
da Netflix nel 2020, Squid Game riflette il crescente
malcontento per la disuguaglianza socioeconomica coreana.
Battezzata come una delle quattro «Tigri asiatiche», l’economia sudcoreana
negli ultimi sessant’anni ha vissuto enormi cambiamenti dopo aver conosciuto
una rapida industrializzazione all’indomani della guerra di Corea. Nel 1960, il
reddito procapite di 82 dollari collocava la Corea del Sud dietro una lunga
lista di paesi economicamente sfruttati e impoveriti, tra cui Ghana, Senegal,
Zambia e Honduras. Quando il dittatore Park Chung-hee è salito al potere, nel
1961, la Corea ha iniziato a sperimentare un’enorme crescita economica.
Conosciuta come il «Miracolo sul fiume Han», la Corea del Sud da paese a basso
reddito nell’arco di pochi decenni è cresciuta fino a diventare una delle
principali economie del mondo.
Sebbene la crescita economica in Corea abbia aumentato il tenore di vita
generale, molti sono rimasti indietro. Il tasso di suicidi in Corea del Sud è
uno dei più alti al mondo, un problema soprattutto tra gli anziani, quasi la
metà dei quali vive al di sotto della soglia di povertà. I giovani hanno i loro
problemi, tra cui la coscrizione militare, l’intensificarsi della pressione
accademica e l’incredibile disoccupazione (a partire dal 2020, il tasso di
disoccupazione giovanile era del 22%). I giovani coreani hanno coniato un
termine per questa società fatta di forte stress e opportunità limitate:
«L’inferno Joseon», in riferimento alla dinastia rigidamente gerarchica Joseon
che la Corea moderna avrebbe dovuto lasciarsi alle spalle.
Mentre milioni di coreani comuni lottano per sopravvivere, le élite del
paese mantengono il pugno di ferro sull’economia. L’economia coreana opera
sulla base dei chaebol, conglomerati aziendali in mano a poche
famiglie ricche e potenti. Un tempo elogiati per aver sollevato la nazione
dalla povertà, i chaebol ora agiscono come l’epitome del
capitalismo monopolistico in Corea del Sud, pieno di corruzione ma immune dalle
conseguenze. Il più grande chaebol del paese include Samsung,
il cui Ceo Lee Jae-yong è stato scarcerato nell’agosto 2021 dopo aver scontato
solo metà della sua condanna a due anni per corruzione e appropriazione
indebita. Per giustificarne la scarcerazione, il governo sudcoreano ha menzionato l’importanza di
Lee per l’economia del paese.
L’estrema disuguaglianza della Corea è il tema centrale di Squid
Game. Nella serie, un gruppo di concorrenti pieni di debiti compete in una
varietà di giochi per bambini, da Red Light, Green Light ai tradizionali ppopgi coreani,
per 38 miliardi di Krw (Korean Republic Won, circa 38 milioni di dollari). C’è
solo un problema: in ogni partita si gioca fino alla morte. I giocatori che
falliscono vengono uccisi sul posto, il rischio di eliminazione aumenta a ogni
round. Ogni volta che un giocatore viene ucciso, il montepremi cresce,
rappresentato graficamente in un gigantesco salvadanaio levitante dentro al
dormitorio dei giocatori.
Nel frattempo, un gruppo di élite globali ultraricche osserva e si diletta
dei miserabili tentativi dei giocatori di vincere il premio in denaro.
Scommettono sulla vita dei giocatori proprio come il protagonista dello show,
Gi-hun, che coi debiti di gioco si è rovinato la vita, rappresentazione
plastica di come la società sotto il capitalismo operi secondo due categorie di
regole, una per i ricchi e l’altra per i poveri.
Ciò che distingue Squid Game da altri contenuti distopici
come Battle Royale e The Hunger Games è
l’esplicito focus della serie sulle disuguaglianze di classe nel contesto della
moderna Corea del Sud. Nel secondo episodio di Squid Game, i
personaggi tornano alla loro quotidianità dopo aver scelto di interrompere il
gioco nell’episodio pilota, ma le condizioni estenuanti della loro vita e i
debiti opprimenti li portano inevitabilmente indietro. Se hanno intenzione di
soffrire a prescindere dal capitalismo, possono anche cimentarsi con il premio
in denaro che cambia la vita promesso dal gioco. Evocando la natura inevitabile
dell’Inferno Joseon, l’episodio si intitola Inferno.
Squid Game si concentra su Gi-hun, lasciato al verde e indebitato dalla
disoccupazione e dalla ludopatia. Si butta nelle scommesse nella speranza di
vincere abbastanza soldi per pagare le spese mediche di sua madre malata e per
provvedere a sua figlia cercando di evitare che debba di trasferirsi negli
Stati uniti con sua madre.
Si scopre nelle puntate successive che i primi problemi finanziari di
Gi-hun risalgono alla perdita del lavoro di dieci anni prima. L’autore e
regista di Squid Game Hwang Dong-hyuk ha affermato di aver
modellato il personaggio di Gi-hun sugli organizzatori dello sciopero dello
stabilimento Ssangyong Motors del 2009, che si è concluso con una sconfitta a
seguito di continui attacchi da parte della polizia. Nei flashback, apprendiamo
che dopo che Gi-hun e un gruppo di suoi colleghi sono stati licenziati, lui e i
suoi compagni si sono barricati all’interno del magazzino della Dragon Motors.
I crumiri hanno abbattuto le porte, picchiando i lavoratori in sciopero con i
manganelli. I crumiri hanno bastonato a morte un collega di Gi-hun davanti ai
suoi occhi. Mentre si svolge questa scena di violenta repressione del lavoro,
Gi-hun perde la nascita di sua figlia.
La Corea del Sud ha una lunga e continua storia di pratiche anti-sindacali,
spesso estreme e talvolta violente. Proprio il mese scorso, il presidente della
più grande confederazione sindacale del paese, la Confederazione coreana dei
sindacati (Kctu), è stato arrestato e imprigionato con il pretesto di aver
violato le norme sulla sicurezza del Covid-19 durante una manifestazione
sindacale a Seoul. Con ogni probabilità, è stato preso di mira per aver esibito
un grado di militanza sindacale che ha sconcertato il governo. È il tredicesimo
leader consecutivo della Kctu a finire in carcere.
Nonostante Squid Game citi il recente sciopero della
Ssangyong Motors del 2009, una violenta lotta di classe ha attraversato la
storia della Corea per decenni. Nel 1976, ad esempio, le lavoratrici della
fabbrica tessile Dong-Il hanno iniziato una lotta per elezioni sindacali eque e
democratiche che è durata quasi due anni, durante la quale hanno dovuto
affrontare la brutalità della polizia e gli assalti dei crumiri. La lotta è
culminata in un attacco da parte degli oppositori del sindacato sostenuti dalla
Central Intelligence Agency coreana che hanno scaricato escrementi umani sulle
lavoratrici che tentavano di votare alle elezioni sindacali. Dong-Il
esemplifica contemporaneamente diversi temi della storia del lavoro coreano: la
politica del governo contro il lavoro, la guerra delle aziende contro i
lavoratori, la violenza contro le donne e il sindacalismo aziendale giallo della
Federazione dei sindacati coreani (Fktu). Gli ultimi cinquant’anni di storia
del lavoro coreano non sono stati meno brutali.
Nel quarto episodio di Squid Game, «A Fair World», un
concorrente viene sorpreso a barare. Lui e i suoi complici vengono rapidamente
giustiziati. Il master poi fa un discorso appassionato descrivendo il processo
come una forma di meritocrazia e se stesso come un benevolo fornitore di
opportunità. «Queste persone hanno sofferto la disuguaglianza e la
discriminazione nel mondo reale – dice – Stiamo dando loro un’ultima
possibilità di combattere lealmente e vincere».
Sebbene sia ormai forse universale nelle società capitaliste, l’ideale
della meritocrazia ha particolari risonanze nella cultura coreana, risalenti al
confucianesimo. L’idea che il duro lavoro ripagherà rimane uno slogan comune in
Corea, sebbene siano sempre di più giovani coreani che hanno seguito la via
retta e stretta del sistema educativo coreano altamente competitivo e che
incontrano disoccupazione, dominio dei chaebol e
disuguaglianza.
Per molti, il Miracolo sul fiume Han è diventato l’inferno dei Joseon. E
come aveva fatto Parasite, Squid Game dimostra che
si stanno formando crepe nel mito capitalista del paese.
*Caitlyn Clark studia scienze politiche a Yale e fa parte degli Young
Democratic Socialists of America. Lavora alla redazione di Broad Recognition,
magazine femminista di Yale. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
La serie sudcoreana Squid game
racconta molto della nostra epoca - Pierre Haski
Le serie televisive sono ormai diventate “oggetti” geopolitici, perché ci
raccontano il mondo ma anche perché sono una componente del soft power, la capacità degli stati di persuadere e di
esercitare influenza culturale senza usare la forza.
Squid game ha tutto ciò che serve per trovare
spazio in una rubrica geopolitica. Per chi non lo sapesse, la serie sudcoreana
ha battuto il record per il miglior esordio sulla piattaforma Netflix, con
oltre cento milioni di case raggiunte in tutto il mondo in meno di un mese.
Meglio di La casa di carta o Lupin, altri due successi non statunitensi prodotti da
Netflix.
Il fenomeno è interessante prima di tutto per ciò che Squid game racconta della nostra epoca, ma anche
perché la Corea del Sud e i suoi 50 milioni di abitanti hanno sviluppato
industrie culturali dall’impatto planetario, dal K-pop al marketing aggressivo
e al cinema d’autore, premiato con la palma d’oro a Cannes nel 2019 per il film Parasite.
Questo “gioco del calamaro” è crudele e violento. La serie mette in scena
personaggi indebitati che partecipano a un gioco il cui esito è semplice: si
vince o si muore. Alcuni vi hanno visto una critica del capitalismo selvaggio o
una denuncia delle disuguaglianze molto forti in Corea del Sud, paese un tempo
povero che ha vissuto un formidabile sviluppo economico.
La Corea del Sud ha un impatto smisurato rispetto alle sue dimensioni
Squid game è anche un invito a superarsi.
Certo, i concorrenti gareggiano gli uni contro gli altri, ma soprattutto contro
se stessi e i propri limiti. Visto il successo della serie, saranno sicuramente
pubblicati numerosi studi per analizzarne il senso, la percezione che ne hanno
i giovani (che sarà inevitabilmente diversa da quella degli adulti) e
l’estetica.
Ma quello di Squid game è anche un successo
non scontato, perché il creatore della serie, Hwang Dong-hyuk, non era riuscito
a trovare finanziamenti locali prima di convincere Netflix, e ha conquistato il
grande pubblico grazie a un passaparola virale. Siamo davanti a un incontro tra
la capacità sudcoreana di raccontare storie dalla portata universale e la forza
di Netflix. Un doppio soft power, insomma.
La Corea del Sud ha vissuto la dittatura prima della democratizzazione e
del boom economico che l’ha portata a diventare l’undicesima potenza mondiale.
Nel 1997, all’epoca della crisi finanziaria asiatica, il governo decise di
investire in massa nelle industrie culturali, una scelta che si è rivelata
vincente. Oggi la Corea del Sud è il paese più connesso al mondo, e questo le
concede un vantaggio nell’epoca digitale, come ha spiegato il 13 ottobre
Angeliki Katsarou nel numero speciale della rivista Asia Trends dedicato alla Corea del Sud.
Il paese ha un impatto smisurato rispetto alle sue dimensioni, cosa che lo
rende un gigante del soft power rispetto
alla vicina Cina, potenza economica che tuttavia è incapace, a causa della sua
rigidità politica, di rivaleggiare in termini di impatto delle industrie
culturali. Un aspetto particolarmente evidente in questo momento segnato
dall’azione aggressiva del regime cinese, che per esempio vieta la comparsa in
tv degli uomini giudicati troppo “effeminati”.
La Corea del Sud, al centro di un’area geopoliticamente delicata, ha saputo
trovare la ricetta di una cultura nazionale che sa parlare al resto del mondo.
È una risorsa considerevole in questo ventunesimo secolo. Squid game lascia presagire altri successi.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
UNA CONSOLAZIONE AVVELENATA. SU SQUID GAME E LA SUA
RICEZIONE - Daniele Manusia
Contiene spoiler, se non avete visto tutta la serie NON LEGGETE QUESTO PEZZO
Cominciamo da un punto che va a favore di Squid Game: il fatto che si stiano verificando
così tanti tentativi di emulazione, al punto che si tratta forse della prima
serie ad aver portato la cultura cosplayer al livello mainstream – i ristoranti
dove si può provare a staccare la figura dell’ombrello dalla glassa di
zucchero, come nel secondo gioco; le riproduzioni della bambola con sensore di
movimento di un-due-tre-stella; le tute rosa; i simboli geometrici apparsi un
po’ ovunque – mostra che la serie ha toccato corde profonde. Al punto che non è
così inverosimile immaginare che da qualche parte qualcuno possa organizzare un
vero e proprio Squid Game. Cioè, andando all’osso, una competizione in cui si
mette in gioco la propria vita per arrivare a un premio in denaro. Qualcuno,
anzi, guardando Squid Game avrà pensato: Perché non esiste davvero? In fondo
nessuno era costretto…
Certo la serie tv non è così esplicitamente cinica: i personaggi abbandonano una
prima volta il gioco, poi tornano costretti dai propri problemi personali, poi
hanno problemi di coscienza e, anche quando tutto finisce, il nostro
protagonista, il vincitore numero 456, continua ad essere tormentato dai sensi
di colpa. Ed è comprensibile: direttamente o indirettamente ha partecipato –
scelto di partecipare, oltretutto, tornandoci dopo esserne uscito, tornandoci
con la consapevolezza di cosa sarebbe successo – e sfruttato un meccanismo che
ha ucciso 450 persone (14 hanno effettivamente abbandonato il gioco e 1 era
l’organizzatore anziano). Anche gli altri personaggi, quasi tutti, sono
ambigui, sfumati, cinismo e compassione si mescolano e la serie salta da un
polo all’altro, fino alle ultime scene.
Anche questo è un punto di forza di Squid Game: non giudica i suoi personaggi e,
così, nessuno spettatore si sente giudicato. Non ci sono risposte, così tutte
le risposte sono buone. Prendiamo il doppio finale.
Hai fiducia nell’essere umano?
Prima vediamo l’anziano organizzatore che, sul proprio letto di morte, decide di fare
un ultimo “gioco” con il protagonista: mostrando una persona in difficoltà sul
marciapiede in una notte d’inverno gli chiede se pensa che qualcuno lo aiuterà
o se morirà, davanti ai loro occhi, di freddo, sepolto vivo dalla neve. «Hai
ancora fiducia nell’essere umano?», gli chiede più o meno, e il sottinteso non
è, secondo me, dopo tutto quello
che hai passato, ma più
realisticamente va inteso come dopo
tutto quello che hai fatto.
Non è chiaro se la persona sul marciapiede sia un senza tetto, una persona colpita
da una malanno, o magari solo ubriaca: è uguale, il messaggio è che qualsiasi
deviazione dalla “norma” (implicitamente rappresentata in tutta la serie da
persone economicamente stabili, funzionali al sistema economico, adattate, lavoratori)
potrebbe portare alla morte. E l’altra cosa scontata è che loro due che stanno
“giocando” non possono intervenire: il protagonista, dopo essere sopravvissuto
ai sei giochi di Squid Game, accetta le regole anche di quel settimo gioco. Non
gli viene in mente che, invece, sarebbe potuto uscire e aiutare la
persona in difficoltà: la sua condizione, la nostra, è quella di spettatore, è
una scelta volontaria ma non lo sembra.
La persona in strada alla fine viene soccorsa, grazie alla solidarietà di un
passante che chiama un’ambulanza (un gesto tutto sommato normale) ma l’anziano
l’organizzatore nel frattempo è morto, la mente diabolica dietro lo Squid Game
non ha visto la scena dei soccorsi. How convenient.
E se l’avesse visto?, viene da chiedersi. Cosa sarebbe cambiato, avrebbe rivisto
la sua geniale idea di uccidere poveri e disperati durante giochi per bambini
(di questo aspetto perverso della serie parlerò tra poco)? Tutta questa storia
(che a un certo punto della serie scopriamo durare da diversi anni) serviva da
esperimento sociale per capire la vera natura dell’essere uomano?
Qual è la vera natura dell’essere umano?
Poi c’è l’altro finale, quello che non è piaciuto a Lebron James. Il protagonista, ormai
ricco e ripulito, sta per partire per gli Stati Uniti, dove è
emigrata la sua ex-moglie con la figlia. Capisce però che qualcuno sta
organizzando un nuovo Squid Game e decide di restare e fare qualcosa. Cosa,
boh, lo vedremo forse nella seconda stagione. Lebron ha detto una cosa tipo:
“Ma sali su quell’aereo e vai da tua figlia!”, ed è interessante che, secondo
Lebron, il messaggio finale della serie non sia abbastanza egoista. Ed è
un’osservazione che ci saremmo potuti aspettare da un personaggio della serie,
come se un buon utilizzo dei soldi del premio potesse in qualche modo
rivalutare la morte degli altri partecipanti.
Ma questo è il punto centrale della serie, la sua più grande ambiguità, che
rappresenta la solidarietà non come un’alternativa alla violenza e
all’ingiustizia, ma come gesto autolesionista, sconveniente, un sacrificio
inutile o comunque invisibile, rimosso dallo sguardo dei potenti che –
immagino, con una deduzione che mi pare logica – “non hanno fiducia nell’essere
umano”, che quindi oltre che inutile è anche innocuo.
Quello su cui gioca la serie, trasformandolo in oggetto di trattativa, è l’idea di
cosa ci sia nel fondo del cuore umano, ma la risposta implicita che dà (senza
forse rendersene conto) è che l’uomo sia intrinsecamente “cattivo”, egoista,
cinico, persino crudele. Come se l’istinto di sopravvivenza fosse tutt’uno con
una latente capacità di uccidere. Possiamo ragionare di etica finché vogliamo
ma alla fine la materialità dell’esistenza umana prevarrà comunque, provate a
togliere a un uomo comune i suoi privilegi, le sue sicurezze, e verrà fuori una
bestia: non è così che pensano molte persone?
Il fatto che i giochi mortali a cui partecipano i concorrenti di Squid Game siano
giochi per bambini forse si spiega (al di là delle questioni pratiche di
sceneggiatura di cui ha parlato il creatore della serie): con l’idea che non
esista nessuna innocenza, che dietro la competitività dei bambini si cela
questo istinto assassino comune a tutti. Ancora: non è proprio questo che
pensano in molti, quando sottolineano che i bambini sanno essere crudeli tra di
loro (senza chiedersi se magari non dipenda dagli adulti con cui crescono), che
i bambini vanno contenuti, controllati, disciplinati?
Quanto sono estese le tenebre?
Ma sono discorsi astratti, proprio come Squid Game in fondo è solo una serie di
fantasia. Abbiamo però la Storia a cui guardare e, anche se questa mia
riflessione rischia di essere altrettanto superficiale rispetto alla possibile
estensione dell’argomento, voglio provare a fare un collegamento con un “fatto
storico”, chiamiamolo così.
Nel libro In quelle tenebre (Adelphi) la scrittrice Gitta Sereny indaga
attorno a Franz Stangl, comandante del campo di sterminio di Treblinka. In
molte interviste a Stangl, in prigione, e alla moglie, a casa sua, molti anni
dopo gli orrori descritti nel libro, Gitta Sereny cerca di confrontarli con le
loro responsabilità individuali. Tutte le sue domande sono volte, oltre che
alla ricostruzione dettagliata dei fatti, alla determinazione delle loro
responsabilità, che non derivano esclusivamente dalle azioni eseguite
direttamente (pur facendo funzionare e dirigendo un campo in cui sono stati assassinate
tra le 750 e le 900mila persone, Franz Stangl non ha ammazzato nessuno con le
proprie mani; né era un convinto nazista, o antisemita; lui, per quanto può
sembrare assurdo ora, voleva solo fare il proprio lavoro in modo efficiente) ma
dalla consapevolezza dell’orrore stesso, a cui non è stata negata una qualche
forma di partecipazione.
Franz Stangl arriva da solo a una risposta parziale, alla fine dell’ultima
intervista, quando parlando di “dio” e di “verità” arriva a dire: «La mia colpa
è di essere ancora qui». Al che Sereny dice: «Intende dire che avrebbe dovuto
morire, o che avrebbe dovuto avere il coraggio di morire?». «Può anche metterla
così», risponde Stangl. Diciannove ore dopo quell’ultima conversazione, Franz
Stangl è morto in seguito a un attacco di cuore. Sarebbe morto presto lo stesso
molto presto, ma per Sereny che lo abbia fatto proprio dopo quella specie di
confessione significa che gli è stato fatale essersi «messo di fronte a se
stesso», trovarsi per la prima volta di fronte «all’uomo che avrebbe dovuto
essere».
La discussione su cosa ci sia nel cuore dell’uomo è ovviamente destinata a restare
senza una risposta certa, scientifica, e dal punto di vista letterario è
semplicemente irrilevante. Da quello culturale, però, le molte risposte che ci
diamo sono significative. Squid Game vuole essere una metafora della nostra
società, ma essendo a sua volta un prodotto di quella stessa società ci dice
qualcosa a un livello più profondo di quello intenzionale, ha un significato al
di là del significato stesso della sua metafora.
In sintesi, in Squid Game non esiste alternativa, il protagonista – come da
tradizione – vince, e lo fa, in teoria, senza sporcarsi le mani, proprio come
pensava di aver fatto Stangl. Anche se, a pensarci bene, la squadra avversaria
nel tiro alla corda l’ha spinta anche
lui giù dal ponte, così come
tutte le altre morti sono legate anche alla sua presenza-partecipazione al “gioco”. Il
cuore umano, cioè, non è del tutto marcio, ma è impossibile sfuggire al
compromesso, l’oscurità di una società cinica e disumana, le tenebre del
capitalismo – più estese persino di quelle del nazismo si direbbe – corrompono
anche i migliori. Come Stangl, anche il nostro protagonista, il numero 456, il
più umano tra quelli in gara, non ha avuto «il coraggio di morire».
Una consolazione avvelenata
La mia impressione è che questo sia un tipo di messaggio molto presente nella
nostra cultura, un’idea di essere umano condivisa anche da persone non ciniche,
in ambienti molto diversi tra loro. Un’idea trasversale, indipendente
dall’estrazione sociale o dal livello di studi, che però depoliticizza l’essere
umano stesso e, in definitiva, lo deresponsabilizza di qualsiasi orrore non
commetta in prima persona (negando oltretutto qualsiasi conseguenza sul piano
psichico). Eppure non è la sola idea possibile e, anzi, c’è anche chi, dopo
essersi confrontato con l’orrore, è arrivato anche ad altre conclusioni.
Gitta Sereny scrive nel suo epilogo (il libro è stato pubblicato nel 1974),
interrogandosi proprio su cosa ci sia nel profondo di tutti gli esseri umani e
come siano possibili accecamenti tali come quello che ha permesso a persone
“normalissime”, come diremmo oggi, di partecipare all’Olocausto: «Io credo che
un mostro morale non sia tale dalla nascita, ma sia prodotto da interferenze
nel suo sviluppo. Io non so cosa sia questo nucleo. Mente, spirito, o forse una
forza morale finora innominata. (…) La moralità sociale dipende dalla capacità
dell’individuo di prendere decisioni responsabili, di fare la scelta
fondamentale tra il giusto e l’ingiusto; questa capacità deriva da questo
misterioso nucleo – che è l’essenza stessa della persona».
Ed è interessante il fatto che per dieci anni l’idea di Squid Game, la serie, sia
stata rifiutata dai produttori, mentre oggi è diventata un successo planetario.
Forse la risposta sta in tutte quelle cose che, nel frattempo, abbiamo
accettato passivamente. Per quanto riguarda l’Italia, ad esempio, il successo
di Squid Game (inaspettato, tanto che Netflix non aveva neanche preparato il
doppiaggio) si spiega con la domanda che molti si sono fatti guardandolo:
sicuri che sia più sbagliato chiedere a delle persone disperate di
uccidersi in cambio di un premio in denaro rispetto a pagare delle milizie
armate per torturare degli immigrati? Più sbagliato di chi muore di cancro per
andare a lavorare? Più sbagliato di chi muore a causa di un macchinario
manomesso per fare più profitto?
Il successo di Squid Game si spiega con la sua ambiguità, il continuo oscillare
tra indignazione morale nei confronti della violenza sociale e fisica
rappresentata, e accettazione passiva dei suoi protagonisti senza alternativa.
Che poi è il modo in cui interpretiamo gli orrori di cui quotidianamente
veniamo a sapere. Squid Game, in fin dei conti, ci consola rispetto alla nostra
mancanza di iniziativa, ma è una consolazione avvelenata perché ognuno di
questi orrori – ogni nuovo “gioco” omicida – a cui facciamo da spettatori, da
complici, la nostra capacità di distinguere il giusto dall’ingiusto ne esce
danneggiata.
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