venerdì 22 ottobre 2021

I giganti – Bonifacio Angius

in una casa isolata, quella di Stefano, s'incontrano, dopo molti mesi, degli amici, una rimpatriata di sesso, droga e rock and roll (con poco rock and roll, niente sesso, molta droga).

gli amici si raccontano, si parlano, a volte parlano da soli.

i giganti, se mai lo sono stati, sono un gruppo di vinti, di sconfitti, di perdenti, di disperati, di morti che camminano.

tutto quello che poteva andare male è andato male, e il futuro non li aspetta col sorriso.

hanno un male dentro, demoni li posseggono, è una resa dei conti del maschio, dei maschi, con se stessi, con i loro sogni e più spesso con i loro incubi.

le donne escono fuori di scena in fretta, non è un film per donne presenti, è un film per donne assenti, una bambina sopratutto, che occupa la mente di Bonifacio Angius, la figlia, non un'amica online.

c'è anche dell'umorismo (nero) e una scena che è un omaggio all'amato (da Bonifacio Angius, e non solo) Federico Fellini.

buona (disperata, così va il mondo) visione - Ismaele


 

 

qui un'intervista a Bonifacio Angius

 

Ho visto questo film al Festival di Locarno. Conosco e apprezzo il cinema di Angius ormai da anni ma credo che questo sia il suo miglior film. "Respirare è importante" dice uno dei personaggi ma questo racconto a volte ti lascia senza respiro. Però si ride anche, amaro ma si ride. Momenti di commozione e tanto dolore. Angius riesce a far vivere sullo schermo degli esseri umani perduti e io ho sentito tutta l'amarezza e il disagio del periodo che stiamo vivendo oggi. Bellissimo.

da qui

 

L’umorismo è caustico, le risate enfisemiche, sguaiate o pervase da un’ironia quasi autoderisoria, e come tale liberatoria. Una cometa di autolesionisti in pausa, personaggi presi a pugni dalla vita, fra errori, remissioni, scelte sbagliate o subite. Eppure sono ancora lì, insieme. I giganti, evasi dalle pagine di Bukowski e dall'immaginario di Cassavetes, si insinuano nella nostra memoria, rigorosi militanti di una vita esposta in prima linea, senza “andare a letto presto”. Compagni di viaggio che suscitano interrogativi e ci fanno incazzare, ma di certo non ci lasciano indifferenti.

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Angius costringe i suoi personaggi nella casa, permettendo loro di evadere solo nello spazio illusorio del flashback, e lavorando al contrario sulla costrizione: costrizione fisica, verbale, psicotropa, perfino sessuale (la splendida sequenza in cui sono presenti due donne, lì invitate da Piero ma ben presto fatte fuggire, è il paradigma perfetto delle volontà di Angius tanto come narratore quanto come costruttore di immagini, e di suspense). Non esiste possibilità di uscire da questa gabbia, se non attraverso un lungo e disossante gioco al massacro che non guardi in faccia a nessuno. Come già accaduto in passato il regista sardo utilizza il cinema per mostrare il disequilibrio, l’incapacità di ergersi contro il tempo e di farlo proprio: I giganti è un film di fantasmi, di spettri del passato che continuano a maledire il presente perché gli sfugge tra le dita, di sconfitti che preferiscono il sonno della mente all’atto riparatore, del quale non sarebbero in grado di reggere le conseguenze. In fin dei conti, come sottolinea il finale, I giganti è un film sul sogno, il sogno di una vita mai vissuta così come di un tempo scomparso, ma anche il sogno di un cinema d’altri tempi che cerca di resistere alla disperata dissoluzione dell’interazione umana. Involucri chiusi in loro stessi, i personaggi del film sono spettatori che non si sanno rapportare tra loro, e neanche con lo schermo su cui passa inesorabile la loro esistenza. Non è più l’epoca dei guerrieri shardana, però. L’ultimo colpo, come suggerisce Riccardo il logorroico, “sarà per te stesso”.

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…Angius non manca di coerenza, della capacità di tenere alta l’attenzione dello spettatore, di non dare soprattutto punti di riferimento, possibilità di fuga o di scampo ai suoi protagonisti, che appaiono intrappolati dentro un tunnel che essi stessi hanno creato.
Più si va avanti più appare il ritratto universale di una generazione perduta, quella distrutta da un paese che non offre riscatto o prospettive, che non dona possibilità e svolte.
Indipendentemente dal mestiere, indipendentemente dal motivo che li ha portati li, tutti e cinque sono condannati a rimanere vittime dei propri fantasmi, del proprio crogiolarsi in una sofferenza, che al di là del singolo caso particolare, diventa eredità universale, sconfina sovente nella autocompiacimento masochista.

I Giganti è un titolo sicuramente interessante, per un film complesso nel suo portarci pensare ad un incredibile universo di ambizioni perdute, ad un’epifania tragica e macabra, che in più di un’occasione strappa risate non da nulla, se non altro nel momento in cui Angius smette di prendersi sul serio, di nobilitare i propri personaggi più di quanto l’iter narrativo suggerisca o permetta…

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Il cinema di Bonifacio Angius è come una bestia ferita, che combatte con ferocia, orgoglio e dignità, per la sopravvivenza, per la libertà… Il Direttore artistico di Locarno, Giona A. Nazzaro, lo ha definito il “Cassavetes sardo; è uno dei pochi che riescono a raccontare l’autoreferenzialità testosteronica del maschio italiano e la sua follia autodistruttrice”. Se ce ne fosse ulteriormente bisogno, attraverso un digitale che sembra magicamente 35mm, e volendo continuare con il “gioco” dei paragoni, Angius non segue Zavattini, come qualcuno ha scritto, la sua voglia di tenerezza in fondo al cuore e ai suoi occhi, ma neanche troppo in fondo, lo rende l’indipendente tra i più cocciutamente ispirati autori in gabbia, che vive in gabbia con le sue storie, i suoi interpreti, non cerca serrature da cui spiare, non cerca sentieri su cui pedinare. Poi ci sarebbe anche il gioco dei generi: western, horror, noir, solo per sentirsi maggiormente a casa. Perché è semplicemente già lì, dentro la gabbia, con loro, che sono tanti, troppi, la maggioranza silenziosa che nessuno ascolta, che nella realtà dei fatti è tutt’altro che marginale, anzi, è il vero centro del mondo. Dunque i suoi sentimenti, le sue esperienze, la sua rabbia e le sue paure più profonde, estremizzate e portate sullo schermo. Quasi un modo per allontanarle, trasformarle da negative a positive, da veleno ad antidoto. Vuole mostrarle attraverso il cinema col tentativo di renderle più cristalline e comprensibili possibile, come fossero messe in scena in un manga giapponese. Attraverso l’utilizzo di un meccanismo narrativo diretto, emotivamente chiaro, che non ha paura di mostrarsi nella sua autentica natura, e con un linguaggio figlio di un cinema, un tempo popolare, ora quasi dimenticato. Un cinema fatto di personaggi, in cui tutti gli elementi espressivi che lo hanno fatto innamorare dello schermo, sono vivi in un unico corpo. Le solitudini, il sentimento di rivalsa, i perdenti, l’amore, la follia, il melodramma, l’utilizzo della colonna sonora come elemento protagonista. Tutti fattori preposti ad un’intensità narrativa ariosa, rapida, avvincente, amara, ironica, avventurosa e dolorosa al tempo stesso…

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…la Sardegna è ricca delle cosiddette 'tombe dei giganti' così denominate per le loro dimensioni e intorno alle quali si sono costruite le più diverse teorie. I protagonisti che agiscono sullo schermo di gigantesco hanno ormai solo una profonda disperazione che cerca rifugio nella perdita di lucidità garantita dall'assunzione ripetuta di stupefacenti.

Non siamo però né in una città degli Usa né in una villa nei dintorni di Parigi. Siamo nella campagna sarda ben lontana dai possibili rimandi a Le iene o a La grande abbuffata (in questo caso di droghe). Se si dovesse fare un'associazione la si potrebbe riferire al Sartre di "A porte chiuse" con quella porta da cui si finisce con il non uscire e con la conquistata consapevolezza che, ancora una volta e forse ancora di più, "l'inferno sono gli altri".
Perché qui, se si esclude il forse superfluo e un po' troppo esplicativo finale, ognuno è chiuso nel proprio mondo e nelle proprie desolate convinzioni. Qualcuno le esprime in modo quasi piatto, qualcun altro prova a filosofeggiare ma in definitiva nessuno può sperare in un cambiamento positivo. Il percorso si presenta come ineluttabile e quasi atteso. Angius comunica questo clima interiore senza alcuna concessione se non al proprio modo di concepire un cinema che non ha intenzione di narrare e non sta narrando, come afferma uno dei personaggi, una storia ma un racconto non facile e, soprattutto, non convenzionale.

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2 commenti:

  1. Ho letto grandi cose di questo film, distribuito in venti copie in tutta Italia... poi ci si lamenta della pirateria :( spero di ruscire a vederlo prima o poi, in qualsiasi formato

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    1. sei un ottimista, leggo su mymovies che oggi ci sono 7 copie
      Bonifacio Angius piace ai festival, ma in sala non riesce a uscire come si deve.
      se il titolo fosse "i giganti Bond", ma lui è uno che non imbroglia...

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