una storia di vendetta, Horacia fa, innocente, trent'anni di prigione, dove faceva la maestra per le sue colleghe.
una volta uscita di galera cerca la figlia, che non vedeva da quando era bambina, scopre che il figlio non si trova, e parte per la sua vendetta, riuscendo a trovare una pistola da un venditore ambulante di cibo che diventa suo amico.
riesce a trovare il suo aguzzino, ma conosce anche altre persone, e piano piano diventa un'altra persona, sopratutto a causa di Hollanda, il trans odiato da tutti, che lei accudisce come un figlio, senza niente in cambio.
e dopo che succede tutto, Horacia riparte alla ricerca del figlio.
la protagonista è di una bravura enorme, ma tutti sono bravi, nelle mani di Lav Diaz.
un film di vendetta, amore, rimpianti, amicizia, da non perdere.
buona visione - Ismaele
…Questa potente opera, evidentemente adatta solo a
spettatori particolarmente preparati e motivati, rilegge il racconto di
Tolstoj Dio vede la verità ma non la rivela subito e lo
attualizza nella corrotta realtà delle Filippine degli anni ’90, facendone un
film d’autore meditativo e intimo ma anche un inesorabile ‘revenge movie’ sui
generis dai ritmi dilatati ma in continuo climax crescente. Un’opera
difficilmente incasellabile per lo spettatore occidentale, nella quale
l’esotismo di una cinematografia periferica riesce a dar vita a un lavoro che
colpisce per la sua originalità, affrontando turbamenti psicologici, denuncia
sociale e una complessa macchina narrativa.
Il nome di Lav Diaz non è certo di
quelli che godono di preclara fama, ma i cinefili sanno bene quanto il
filippino sia amato dai festival di tutto il mondo – tanto da aver concorso a
Cannes e da aver vinto a Venezia, Berlino e Locarno – e quanto sia a suo modo
una garanzia. Considerato che The Woman Who Left – La Donna Che Se
Ne È Andata rappresenta senza alcun dubbio uno dei suoi film più
importanti, non vi rimane che andare che acquistare un DVD che non può mancare
nella vostra collezione…
…Ispirandosi a un racconto di Tolstoj (Dio vede quasi tutto, ma aspetta) declinato a partire da vicende di cronaca della sua
terra, Diaz scrive un potente saggio sulla natura umana,
scandagliando sentimenti viscerali e assoluti, toccando argomenti dolorosi tra
cui la perdita, il perdono e l’espiazione. Come spesso accade nella produzione
dell’autore, il dipanarsi degli avvenimenti è subordinato all’esigenza di dover
dar forma e concretezza alle emozioni, superando il concetto stesso di durata
nell’ottica di fornire allo spettatore un punto di vista quasi in presa diretta
sulla vita dei personaggi. Ecco perché sembra diventi possibile seguire
l’evoluzione dei protagonisti, accompagnandoli nel loro percorso con un
coinvolgimento a tratti totale.
The Woman Who Left (Ang
babaeng humayo) è anche un film
sulla ricerca e l’accettazione, sul bisogno di dare un senso agli eventi
tragici dell’esistenza, attraversando difficoltà e cambiamenti sia fisici che
psicologici. Emblematica è in tal senso la continua trasformazione di Horacia,
i cui effetti (anche esteriori) sono addirittura spiazzanti per il
pubblico. Diaz aumenta poi il senso di indeterminazione sfumando
alcuni passaggi e sfruttando l’ambiente in maniera impeccabile, dilatando i
tempi fino a sospendere l’idea stessa di finzione.
Tecnicamente la pellicola rinuncia ad alcuni stilemi tipici (come i lunghi
piani sequenza), rielaborando il gusto per i lunghi stacchi di
inquadratura. Diaz (curatore anche della fotografia e del montaggio)
alterna sequenze frammentate a veri e propri tableaux vivants in
cui l’elemento umano è quasi sovrastato dal contesto circostante. I personaggi
non appaiono praticamente mai in primo piano (quasi a rispettarne la
fragilità), spesso nascosti fra le ombre plastiche che sembrano inghiottirli.
Ed è proprio la componente visiva a esibire una grande potenza espressiva,
attraverso un sontuoso bianco e nero incredibilmente dettagliato in cui le
immagini sono studiate con maniacale rigore. Eppure nella regia impeccabile non
emerge mai un senso di artificiosità o costruzione estetica fine a se stessa,
come se lo spettatore spiasse con discrezione i luoghi della vicenda osservando
in disparte.
Pregevole l’interpretazione della protagonista femminile, supportata da una
serie di attori di contorno che conferiscono autenticità e spessore ai
rispettivi ruoli.
The Woman Who Left è un esempio prezioso di cinema fortemente
evocativo, mai consolatorio e privo di retorica. Un cinema che, a dispetto di
chi ne critica la difficile fruizione, si schiera paradossalmente dalla parte
del pubblico, stupendo ogni volta senza scendere a compromessi, perché come
scriveva Goethe: “Il più grande riguardo che un autore può avere per
il suo pubblico è di non dare mai ciò che esso si aspetta, ma ciò che lui
stesso, ogni volta secondo il grado di maturità propria e altrui, ritiene
giusto e utile.”
…Ricerca e transfert sono i movimenti che alimentano il
cammino della donna attraverso una narrazione apparentemente semplificata
rispetto al tempo ipnotico e rituale che spezza ogni cronologia tradizionale
nel cinema del regista filippino, apparentemente perché è come se la complessa
polifonia di opere come From What is Before, capaci di sovrapporre simbolo,
rito, Storia e vita quotidiana, venisse assorbita dalla caratterizzazione di
alcuni personaggi, assimilati per trasmissione da quello di Horacia; sospesa
tra grazia e violenza, aderenza e distacco, partecipazione e trasformazione, la
donna è insediata da numerose possibilità Diaz continua ad esplorare con
un’intensità rarissima la relazione tra uomo e natura in quello spazio di
transito che mantiene le cicatrici del tempo, quelle del passaggio coatto verso
l’urbanizzazione, mentre la natura lascia ancora tracce e scandisce
l’inesorabilità del tempo. La dimensione rituale prende vita attraverso i corpi
del venditore di balot e di Hollanda, ma anche nell’incontro di Horacia con una
comunità che emerge dalla strada e dall’ombra. Nel costante e rigoroso lavoro
sul suono, volutamente e vitalmente impreciso, Diaz è forse l’unico cineasta al
mondo capace di realizzare un cinema aptico, tangibile e che stabilisce un rapporto
tridimensionale tra suono e immagine, con una modalità del tutto dimenticata
anche dal cinema indipendente, sopratutto quando tende alla perfezione del
contenitore, sbarazzandosi di tutte le slabbrature. Diaz le conserva tutte e
sopratutto in questo ultimo lavoro, punta molto sulla voce dei personaggi e
sulla prossimità della stessa alla posizione empirica dello spettatore.
…L'illuminazione delle scene è, ancora
una volta, pura filosofia della luce, la composizione delle inquadrature mette
al centro (o ai margini, se serve alla narrazione) i corpi (o i loro frammenti)
che si incarnano lungo il cammino di Horacia e che diventano figure
archetipali, all'interno di scene che non diventano mai scenografie. In un
bianco e nero fortemente contrastato Diaz segue le stazioni della sua
misericordiosa (e mariana) protagonista attraverso le sue consuete riprese
interminabili per restituire allo spettatore il privilegio di un tempo
sconfinato e l'ebbrezza di una libertà assoluta (anche) dalle convenzioni
cinematografiche.
Quella di Horacia, e di tutti coloro che la circondano, è una storia di
redenzione e trascendenza che ha al suo centro una figura femminile generosa e
paziente, conscia del fatto che non esistono risposte assolute alla mancanza di
spiegazioni che la vita ci offre. La prigionia reale alla quale è
miracolosamente sfuggita non è peggiore di quella delle figure che incontra e
la sua epopea minima (ma gigantesca per portato morale) si snoda all'interno di
una struttura a metà fra il melodramma e la commedia umana.
Il cinema di Lav Diaz è materia organica vivente e pulsante, visivamente
incantevole, tentacolare nel suo snodarsi attraverso lo spaziotempo espanso che
il regista le concede, abbandonandosi al flusso interiore della narrazione e
confidando nel potere magico dell'attesa. Un cinema che si dilata sullo schermo
alla velocità del nostro sguardo più profondo (non un attimo prima) e non
subisce imposizioni ma risponde solo alle sue leggi, etiche ed estetiche.
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