sabato 30 luglio 2022

Kaili blues – Bi Gan

la prima volta che lo vedi, questo film non ti dice molto, se non nella seconda parte del film.

e allora subito dopo ti viene voglia di rivederlo.

e quel piano sequenza nella seconda parte, che ti fa entrare dentro quella storia, è bellissimo.

mi ha ricordato quel capolavoro di Bo Hu, siamo dalle stesse parti.

un piccolo grande film da scoprire e riscoprire.

buona (immersiva) visione - Ismaele


 

In realtà Kaili Blues è un film apparentemente facilissimo.

E' un film che dipende TOTALMENTE dallo spettatore. Se volete limitarvi alla superficie non troverete praticamente niente, se non un'opera fortemente realista (anche se con un paio di inserti strani e surreali) e dalla trama monotona e banale.

Se invece avrete voglia di andare oltre, se avrete voglia di concentrarvi in ogni nome che viene detto, in ogni gesto compiuto, in ogni oggetto che ricompare e in ogni tragitto fatto dai personaggi, beh, allora vi troverete davanti un gioiello…

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Apparentemente semplice, si rivela in realtà molto complesso se si hanno occhio e pazienza (magari rivedendolo una seconda volta) nell'interpretare anche i più piccoli particolari che si riveleranno fondamentali nel prosieguo della visione. Si pensi ad elementi ricorrenti che sembrano di poco conto: orologi, sfere stroboscopiche, treni, racconti sugli uomini delle caverne. E poi c'è il tema del tempo e i personaggi che forse non sono sempre quello che sono. Criptico, onirico, enigmatico, affascinante, spiazzante, lynchiano, tarkovskiano. Ma anche lentissimo. Per spettatori pazienti.

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Si inizia da un luogo avvolto dalla nebbia: è Kaili, cittadina immobile, in cui due medici svolgono il proprio lavoro all’interno di una fantasmatica clinica. Servono pochi tratti appena abbozzati per descrivere i protagonisti, che sembrano sbucati da un film di Jia Zhang-ke, precisamente da quel Still Life che per primo ha stabilito in modo incontrovertibile i canoni di un nuovo cinema rurale e metaforico, verosimile e filosofico, capace di sabotare dall’interno le regole di controllo con cui il regime decide cosa è bene e cosa è male. Perché l’Arte in Cina non può disturbare né “scuotere” il popolo, perdendo completamente la sua funzione primaria. Il giovane regista Gan Bi (giustamente premiato a Locarno 2016 come Miglior Regista Emergente) sceglie la via della poesia: il protagonista Chen Sheng, per chiudere i conti col proprio passato e confrontarsi con le incognite del presente, intraprende un viaggio verso Zhenyuan. Ma non è quell’approdo ad interessarci, quanto la sosta “da sogno” – o da incubo, come dicevamo prima – a Dang Mai, un luogo semi-distrutto attraversato da un fiume. Se la precedente Kaili (luogo di nascita del giovane filmmaker) è uno dei simboli del baratro, Dang Mai – con le sue case diroccate, con il suo scenario sconnesso e post-apocalittico – è il baratro. Eppure a Dang Mai (ed è questo il colpo di teatro più interessante dell’intera pellicola) il tempo si ferma. Anzi, qualcosa di più: in questo paese fluttuante che genera spavento e insieme attrazione (in cui ancora vive l’antica cultura hmong, primo popolo ad essersi stabilito nel territorio dell’attuale Cina) il tempo non è lineare e le vite delle persone si completano a vicenda. Lo capiamo grazie al sontuoso piano sequenza di 41 minuti con cui Kaili Blues ci accompagna per i vicoletti, i negozietti abbarbicati sul nulla, i corsi e ricorsi sonori (il suono del treno in lontananza) e fisici (i personaggi che escono e rientrano in scena da angolazioni inaspettate). L’opera di Gan Bi non ha confini e non ha identità, blocca il tempo e lo lascia fluire. E, nonostante si rischi di apprezzare di più il virtuosismo rispetto alla sua reale efficacia narrativa, sembra spiegarci in modo univoco cosa sia la Repubblica Popolare Cinese oggi: un enorme Paese senza confini e senza identità, in perenne “falso movimento” verso il futuro.

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Kaili Blues, qui est également un hommage passionné à la région de Kaili, est un film d’une rare beauté, car la poésie dont il est chargé ne plane pas au-dessus, mais jaillit de l’intérieur d’une réalité racontée à partir de l’intime du quotidien. C’est aussi l’occasion de pénétrer dans la chair de la province chinoise sans la distance du jugement, à travers un trip sincère, car poétique. Chan, médecin qu’on découvre malade déjà au début du film, trouve finalement sa cure en abandonnant ses remèdes. Les montres sont toujours à régler, on n’y arrivera pas. Il n’y a pas des médicaments pour le temps. Au temps, on ne peut que s’abandonner. C’est seulement là qu’on entendra la musique : Kaili Blues.

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