Bo Hu ha girato solo questo film, poi basta, per sempre.
il film è molto lungo, ma necessario, ci sono alcune storie che sono legate in qualche punto, di sicuro non c'è niente da ridere, in un clima depresso e violento.
strano che non sia stato censurato su richiesta dell'Ente del Turismo Cinese.
sappiate che è un capolavoro, lo capirete guardandolo (e riguardandolo).
buona, imperdibile, visione - Ismaele
è stato allievo di Bela Tarr, che ha scritto (qui):
Dear Friends,
I'm deeply sorry I couldn't be at this screening with you and my
"student", my friend, my nearest and dearest.
I'm writing this message from the same hotel where I met him...
Hundreds of Chinese filmmakers applied to work with me, but when I met him, I
knew this was it.
Without any doubt!
He was full of dignity and amazing to work with.
His eyes showed an uncommonly strong personality.
Anyway, I don't want to talk about my feelings.
I just wanted to tell you that I met a person with a broad vision of the world.
During our last meeting in Wuhan he showed me his cast and locations and gave
me his book.
He wrote a dedication: "to my godfather".
Shit!
I feel guilty I couldn't protect him properly. It's a shame.
But how can one protect a person constantly surrounded by a storm?
He wrote books, scripts, plays…
Horrible…
Without end...
While working, however, he was very sensible and kind.
He listened to everybody and paid attention to detail.
He was constantly in a rush.
Maybe he knew he didn't have much time.
He burned his candle at both ends.
He wanted to have everything right now.
He couldn't accept the world and the world couldn't accept him.
Though we lost him, his movies will be with us forever.
Please welcome Hu Bo's film and love him like I do,
Béla Tarr
Xining, China
QUI il film completo, in italiano, su Raiplay
Compito non facile
parlarvi di questo film, ci troviamo dinnanzi ad un’opera magistrale, unica e
purtroppo destinata a rimanere tale, data la prematura dipartita del regista,
morto suicida poco dopo aver finito il montaggio. La durata del film suggerisce
che l’intento non sia quello di accontentare ogni palato, premessa che si può
applicare per tutto il cinema d’autore, ma accontentare esclusivamente,
appunto, l’autore stesso. Quattro ore in cui ci viene mostrata una Cina, o più
in generale un’esistenza umana, priva di direzione o punti di riferimento,
completamente smarrita. L’unica speranza che sembrano avere i personaggi è
l’andare a trovare un leggendario elefante, che pare trovarsi a Manzhouli, in
Manciuria, sul quale si dice che se ne stia tutto il giorno seduto, immobile,
ignorando tutto ciò che lo circonda…
E’ un privilegio poter assistere a An elephant sitting still (disponibile in
questi giorni su RaiPlay): un film dalla bellezza lacerata quanto vera, opera
prima e ultima del giovane Hu Bo, morto suicida a soli 29 anni. Ogni istante
dei suoi 230 minuti possiede un’autenticità bruciante: il film è la
rappresentazione della “condizione del dolore” universale. E deve essere stato
estremamente duro per il regista trasformare il nucleo della propria sofferenza
in immagine, fare della personale (ed estrema) sensibilità un oggetto
artistico. Con An elephant sitting still non
solo ci è riuscito, ma ha anche mantenuto intatta l’intensità del sentire: è un
film che pulsa, brucia, investe lo spettatore di un’emozione immediata. Hu Bo
compie questo delicato miracolo servendosi di una regia che lavora per
decantazione, mantenendo un margine di distanza dai personaggi che vengono
seguiti, pedinati, osservati in primi piani d’una verità assoluta. Quattro
protagonisti, ciascuno col peso di un presente disperato all’interno della
città industriale di Shijiazhuang: un luogo di perenne grigiore, un cielo
metallico quasi metafisico, una luce brutale che ferisce entrando dalle
finestre o nella crudeltà degli esterni, vere e proprie messe a nudo della
vulnerabilità umana…
…La grandiosità stupefacente di questa
opera prima che possiamo tranquillamente definire come una delle più
sorprendenti della storia del cinema degli ultimi anni, sta nel suo lento
insinuarsi, nella costruzione di un mondo immaginario dal quale però sprizza
tutto il dolore dei personaggi, un lento ma inesorabile fluire della tragedia
umana che parte da una squallida città cinese per elevarsi a simbolo
universale.
Hu Bo dà sfoggio di una maestria alla regia che colpisce e
commuove pensando alla sua dipartita, una regia che lascia filtrare,
probabilmente, la profondità del suo disagio personale. Raramente abbiamo
assistito ad un giovane regista in grado di mettere sul piatto della bilancia
tanta personalità e tanta cifra stilistica, muovendosi con grande disinvoltura
ed efficacia tra piani fissi e piani sequenze lunghissimi, immagini
asimmetriche che giocano con la messa a fuoco e con i piani sfalsati. Uno
sfoggio di lucida maestria non fine a sé stesso, ma coerente con la messa in
scena della storia dei suoi personaggi, spesso figure spettrali e senza volto
che si muovono nell’aria fuligginosa e mefitica.
Il finale, apice di lirismo purissimo, è forse
il momento più emozionante del film, un approdo che può aprire la strada per la
salvezza o un ennesimo rifugio dove poter riflettere impotenti sulla condizione
umana: nella notte, con i fari ad illuminare il gelido Nord della Cina, il
lontano barrito di elefante può commuovere in maniera lacerante, come raramente
il cinema è riuscito a fare, regalando al giovane e compianto Hu Bo l’immortalità del capolavoro.
…El valor más
grande del filme está en lo personal del discurso. El entorno que rodea a los
protagonistas genera un mundo en el que la vida no tiene sentido alguno y el
director los hace pronunciarse con más dudas que certezas. Todo el metraje está
plagado de un existencialismo intenso, de una confrontación directa entre el
nihilismo y la esperanza. Es este planteo el que lo distingue y lo transforma
en una obra emotiva, cruda, que abraza los excesos y se regodea en ellos.
Porque es una ópera prima, en ciertos puntos se deja llevar de más en su lucha
interna. Los interludios musicales –con mucho Post-Rock- pueden interrumpir la
fluidez de los acontecimientos. Pero es esa inmadurez la que lleva al director
a dejarlo todo, a plantear un discurso complejo sin ningún tipo de atenuantes
que refleja su propio estado espiritual. La percepción de los protagonistas es
la suya propia, repartida entre cuatro caracteres que la transforman en algo
más global. En eso se diferencia radicalmente de otras radiografías sociales de
su tiempo. No hay distancia alguna entre la ficción y su realizador, sino una
simbiosis entre ambas que define su posición y agudiza tanto la crítica hacia
la realidad actual como el costado emocional del audiovisual. Pocas veces el
realizador se refleja con tanta claridad en su propia obra.
Y por esa razón es
que duele enterarse de que Hu Bo se quitó la vida tiempo después de terminar la
película. Es como si su lucha, de la cuál fuimos testigos gracias a una
película de cuatro horas, hubiese sido en vano. Los ecos del dolor quedan
impregnados en cada fotograma que ahora pesa más que antes por su carácter póstumo,
pero verdadero. Lo que lamento es que él no haya podido encontrar a ese
elefante que lo haga avanzar a pesar de todo, porque estaba claro que dentro
del cine tenía un gran futuro. O quizás este filme fue su elefante, y al oír
ese bramido poderoso y casi mágico que corta el silencio sobre el final de la
película ya no quedó más nada por contar. Quedó vacío tras traer su testamento
al mundo. Una obra valiosa que tiene argumentos suficientes para destacarse más
allá del triste final de su creador –razón por la que traigo a colación el tema
recién ahora-, porque denuncia, critica y emociona. Porque reflexiona
intempestivamente sobre la vida. Porque todo lo hace con alma y corazón,
intangibles difíciles de encontrar en este mundo de cínicos.
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