venerdì 3 dicembre 2021

È stata la mano di Dio - Paolo Sorrentino

Sorrentino torna a casa, con questo ritratto dal regista da cucciolo.

nella prima parte si ride molto, è un film classico, nella seconda parte, dopo la morte dei genitori, il film si intristisce, così è la vita, con Fabietto che cerca la sua strada, e lascia Napoli.

all'inizio e alla fine appare iMonaciello di Napoli (ne aveva scritto in un racconto Anna Maria Ortese), mica possono vederlo tutti, solo zia Patrizia e Fabietto riescono a vederlo.

alla grande bellezza di Roma si aggiunge adesso la grande bellezza di Napoli.

e poi c'è Maradona, la mano di Dio, un sogno, una consolazione, una speranza, una sicurezza, una stella polare.

un film da non perdere, nelle classifiche dei film non appare, anche se è il primo, Netflix può decidere che i suoi film siano hors categorie, come fantasmi, come il monaciello, e ci riesce.

buona visione (unita o disunita che sia) - Ismaele


 

 

"Non ti disunire!!"

E cosa è stato il cinema del secondo Sorrentino, quello più famoso, se non un cinema disunito?

Ed ecco allora che, invece, per raccontare sè stesso, Sorrentino ascolta quel vecchio consiglio, "non ti disunire". E lui allora non si disunisce, racconta un anno della sua vita in modo "intero", senza parzialmente scremarsi, senza orpelli, senza rapsodie, senza parentesi che si aprono e chiudono, senza divagazioni, senza perdersi.

Un gesto di umiltà, un (apparente) passo indietro artistico che Sorrentino fa per non camuffare la realtà, per non rendere manipolata la verità, per non rendere sorrentiniana la sua vera vita.

Perchè è questo il paradosso de sto film, ovvero di come questo autore spesso odiato come uomo e artista quando poi fa un film in cui fonde le due cose tra loro, quando oltre a Sorrentino riesce a raccontare tanto anche del Paolo, si ritrova davanti l'amore sconfinato di tutti…

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Si ride, tanto, in questa storia di discendenti del Regno di Napoli, insieme a questa galleria di personaggi a volte grotteschi ma mai meno che umani. E Maradona è il nume tutelare ricorrente che manda segni da lontano, che fa ballare sui balconi un'intera città, che salva la vita e l'onore, che riesce a non essere mai deludente, almeno in quegli anni lontani. È stata la mano di Dio non è "consolatorio" ma prova a ricomporre le parti "disunite" di un regista che voleva fare il filosofo e invece si è trovato a raccontare, ancora e ancora, il rimpianto.

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Il Sorrentino che parla da Napoli è il Sorrentino più convincente, sempre. Sin da L'uomo in più - esordio maiuscolo - il regista ha rivelato una sintonia sovrannaturale fra il suo sguardo e Napoli. È stata la mano di Dio conferma che quando Sorrentino asseconda il suo afflato popolare e lascia correre la sua affabulazione si offre come la versione più alta e convincente di un cinema popolare d'autore che ha sempre fatto la forza della nostra produzione nazionale. Non c'è nulla fuori posto in questo film autobiografico. Non un fotogramma di troppo. E la commozione è gestita con straordinaria sapienza antiretorica. Non sempre abbiamo seguito l'autore nelle sue esplorazioni formali. Ma qui il risultato è magistrale. Forse l'apice di una produzione che inevitabilmente sarà letta tutta alla luce di questo film incredibile

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Fabio, infatti, che ha visto sì e no tre o quattro film, capisce che la sua aspirazione è quella di diventare un regista, di raccontare storie che rappresentano la realtà ma al tempo stesso la rendono meno amara. I detrattori di Sorrentino avranno da ridire sul manierismo furbo del regista che s’ispira anche questa volta a Fellini e strizza l’occhio alla commedia italiana. Personalmente, mi viene da dire: magari ce ne fossero altri che sanno ispirarsi tanto bene al grande maestro Fellini. Aggiungo che in questo film si sente che il regista si lascia  travolgere da un flusso continuo di emozioni e travolge anche noi spettatori. E mette da parte ogni lezione di stile. Stile, peraltro, apprezzato in tutto il mondo. È stata la mano di Dio ha ottenuto l’applauso più lungo del pubblico del Lido di Venezia. Molti sono usciti pensando “Peccato che sia finito”.

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Sorrentino è superbamente insincero. Lo è come lo erano Fellini o Hitchcock. Trasforma le tranches de vie in tranches de gateau. Fette di torta visive, niente fette scadenti di vita. Bisogna reinventarlo, il mondo. E Sorrentino lo fa, trasformando in invenzioni visive la rievocazione del suo romanzo di formazione: dalle mirabilia dell’inizio (con un sedicente San Gennaro che porta la sensuale zia Patrizia in un palazzo diroccato, dove accanto a un gigantesco lampadario di cristallo appoggiato al pavimento fa la sua apparizione il fantasma del monaciello) via via alla figura fantasmatica della sorella che non si vede mai perché sta sempre chiusa in bagno fino all’iniziazione sessuale di Fabietto da parte della straordinaria baronessa Focale.

E poi Napoli: la Napoli dai mille colori cantata da Pino Daniele nei titoli di coda che Sorrentino rende anche nei suoi mille afrori e rumori, Napoli sguaiata, Napoli sfacciata, Napoli pezzente e sublime, Napoli sfuggente, Napoli acquosa e Napoli pietrosa, Napoli come la Roma di La grande bellezza, orrenda e bellissima, sfasciata e vitale, morente e sublime. È lì che nasce il cinema: Napoli è l’altro grande vero idolo del film, assieme a Maradona e a zia Patrizia…

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