giovedì 23 dicembre 2021

Diabolik – Manetti Bros

è la riproduzione del fumetto che abbiamo letto in gioventù, la coppia diabolica vince sempre, contro la polizia che viene bruciata sul tempo tutte le volte.

qui si racconta la nascita del sodalizio Diabolik - Eva Kant, il fascino del proibito è troppo invitante per Eva, e l'ispettore Ginko rincorre i due, ma non arriva mai, come Achille con la tartaruga.

gli interpreti sono tutti bravissimi e "ingessati" nei ritmi e nelle espressioni del fumetto.

quello che colpisce è la staticità, la freddezza, il rispetto delle tavole del fumetto, non ci sono supereroi a velocità folli, in Diabolik la velocità è quella degli anni sessanta.

da lodare il lavoro sui costumi, sugli interni, è proprio un film degli anni sessanta.

sempre attuale il ruolo del politico corrotto fino al midollo.

tutti bravi gli attori, nelle mani dei fratelli Manetti sono tutti perfetti.

buona (diabolica) visione, al cinema, naturalmente - Ismaele

 

 

 

 

Come sostiene il guappo interpretato da Toni Servillo in 5 è il numero perfetto di Igort (di nuovo un film tratto da una graphic novel): “I fumetti americani – dice al figlio – stanno tutti dalla parte sbagliata. Stanno con i supereroi. Nei fumetti italiani invece, da Diabolik a Kriminal, gli eroi sono tutti delinquenti”. Diabolik è la quintessenza di questo paradosso. Ed è bene non scordarlo.

Diabolik non è – per dirla con Umberto Eco – un superuomo di massa. Non è un uomo qualunque che si traveste da supereroe per proteggere i deboli dalle vessazioni dei forti. E non è neppure un ladro gentiluomo alla Arsenio Lupin. Ma allora: come rendere affascinante un simile personaggio senza tradirne la natura “criminale” ma anche senza inseguire un epos tribale alla The Godfather? Questa è l’ulteriore sfida che i Manetti Bros si sono trovati davanti. E l’hanno vinta costruendo un film che – a differenza dei suoi personaggi – non mette maschere per fingere di essere quello che non è: il Diabolik dei Manetti mostra – senza ostentazioni ma anche senza reticenze – la sua natura di oggetto filmico al tempo stesso ludico (i Manetti giocano con i loro idola) e rituale (c’è quasi una liturgia celebrativa di tutto un immaginario nazional-popolare), acrobatico (per le acrobazie e le capriole del montaggio, se non altro) e carnevalesco (tutti si mettono in maschera), iconico (la visività prevale sulla narrazione) e in ultima istanza metafilmico. Perché i Manetti portano la creatura delle sorelle Giussani a dialogare con il fantasma di Hitchcock (le magnetiche  entrate in scena della biondissima Eva sono squisitamente hitchcockiane, così come il diamante rosa a cui si dà la caccia risulta alla fine poco più che un macguffin…) e con quello del poliziottesco italiano, senza scordare l’impronta visuale di tutta la tradizione del cinema noir. Operazione raffinata. Molto più raffinata (e sospesa, ipnotica, rallentata) di quanto molti si aspettassero da un blockbuster da 10 milioni di euro. Ma tant’è: anche i Manetti ci regalano hitchcockianamente la loro tanche de gateau, la loro fetta di torta. Un po’ ipoglicemica e senza zuccheri aggiunti, forse. Ma per la nostra salute di spettatori golosi, e per il piacere dei nostri occhi, va davvero meglio così.

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…Il Diabolik 2.0 è un film fascinoso ed elitario, che punta tutto sul revival e su una confezione di incredibile eleganza formale: ogni cosa (gli esterni, il covo, l'auto, i vestiti di Diabolik) è stata pazientemente pensata e ricreata ad hoc, sfruttando appieno l'importante budget stanziato (circa 10 milioni di euro). Certo non è esente da difetti: Luca Marinelli non appare particolarmente a suo agio nel ruolo (e, mi sia permesso, sentire un Diabolik che parla con accento romanesco fa un po' sorridere...) e di sicuro i 133 minuti di durata un poco pesano (in particolar modo verso la fine, forse troppo "filosofica" anche per un pubblico consapevole), ma resta comunque la soddisfazione per aver assistito a un'opera di tutto rispetto e che non deluderà i fan (anche se forse solo loro, temo). Le buone notizie vengono dal cast di supporto: Miriam Leone incarna una Eva Kant semplicemente divina per fascino e presenza scenica, mentre Valerio Mastandrea è impacciato e "impostato" al punto giusto, perfetto per interpretare il ruolo, sempre dimesso e "ingrato", dell'integerrimo ispettore Ginko.

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Diabolik dei Manetti Bros è un film controverso. Vive una doppia anima: una fin troppo patinata, afflitta da una scrittura a tratti ingenua e da un protagonista talvolta persino fuori ruolo. Ma anche un’altra, quella di un prodotto visivamente unico nel panorama cinematografico italiano (e, forse, non solo), di un noir d’altri tempi, concentrato sulle origini di una Eva Kant sorprendentemente protagonista. Una pellicola molto efficace nella forma ma scricchiolante in parte nel suo contenuto: un’operazione che farà felici i fan più sfegatati del leggendario ladro di Clerville, ma che difficilmente saprà farsi apprezzare al di fuori della sua nicchia.

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…È una storia delle origini, in qualche modo. Ed è un buon soggetto con la sua particolarità stilistica: mette in scena la staticità del fumetto e l’iconicità dei personaggi di Diabolik. Che sono fatti di inquadrature fisse, di movimenti di camera moderna a spalla ma con pose molto marcate, quasi esagerate. Non sempre e non a tutti riesce, ma l’effetto è quello voluto dai Manetti Bros.: un leggero straniamento, la sensazione di vivere dentro un fumetto e dentro gli anni Sessanta, che sono un’epoca lontana (parliamo di quasi settant’anni fa) con movenze e gestualità molto differenti da quelle di oggi.

Ci sono insomma questi tempi dilatati, queste gestualità differenti, queste pose esasperate da fumetto che per qualche strano miracolo vengono veramente bene solo a Miriam Leone, in parte a Claudia Gerini e stranamente anche a Valerio Mastrandrea (che interpreta sempre se stesso ma senza accento romano, un po’ come fa George Clooney tra un film e l’altro). Tutto questo serve ai Manetti Bros., che producono un film decisamente lento. E lo sottolineo: lento.

Come è stato detto, non aspettatevi supereroi, superpoteri e supercattivi mostruosi con poteri mutanti e ultraterreni. Questo è un film che ha un passo molto diverso dalla maggior parte delle cose che si trovano al cinema oggi. È un film italiano, ma non l’ha fatto Netflix. Richiede uno sforzo da parte dello spettatore: accettare una diversità. È un film dal passo lento, ambizioso, a tratti lungo, sicuramente perfetto per la storia e il tempo in cui si colloca. Fumettistico ma al tempo stesso realistico, anche se in un suo modo molto particolare.

In conclusione, perché non voglio fare spoiler e raccontare la storia, è un bel film. Molto ben diretto, con una colonna sonora fantastica (le musiche sono di Pivio e Aldo De Scalzi con due canzoni interpretate da Manuel Agnelli) e attori che fanno il loro mestiere più che bene, con l’eccezione di Miriam Leone che è oggettivamente fantastica (e non mi riferisco all’aspetto fisico), portando avanti il film per la maggior parte del tempo, aiutata anche da Mastrandrea e da Roja. Mi è piaciuta molto la fotografia di Francesca Amitrano, che collabora spesso con i Manetti Bros., e il lavoro epico su scenografia e costumi guidato rispettivamente da Noemi Marchica e Ginevra De Carolis.

Per due ore e dieci sono andato in vacanza in un immaginario italiano che è genuinamente una nostra fantasia, non un adattamento storico o una qualche narrazione contemporanea più o meno realistica. No, i Manetti Bros. hanno fatto la cosa più simile alla creazione di un universo cinematico e, se andranno avanti le cose, l’inizio di un’esperienza molto godibile destinata a durare nel tempo ancora per un po’. Ma attenzione, ve lo ripeto: se lo andrete a vedere preparatevi, perché è un film con un suo passo, decisamente non frenetico, anzi lento, che può prendere in contropiede. Ma è un gran bel film e vale la pena.

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Iperrealista ma carnale, cartoonesco ma feroce, il Diabolik dei Manetti si è fatto molto attendere, ma si rivela oggi come un esperimento di cinema prezioso.

Un’opera anomala, soprattutto rispetto all’industria cinematografica italiana, ma soprattutto un film fuori dallo spazio e dal tempo, distinto da una eleganza micidiale.

Com’era forse prevedibile, una parte della stampa condanna fatalmente la mancanza di ritmo, una tensione certo intesa secondo i canoni dei cinecomic a stelle e strisce. Cerchiamo allora di capire come si differenzia il cinefumetto Diabolik, un’opera complessa, forse a tratti imperfetta, eppure capace di negarsi agli standard del mercato, per uscirne comunque vincitrice

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Senza voler svolgere il ruolo dei menagrami, o fungere da latori di profezie nefaste, non sono pochi i dubbi che accompagnano la visione di Diabolik. Non dubbi, sia ben chiaro, legati alle qualità del film, su cui si tornerà tra poco, ma all’accoglienza tutt’altro che benevola cui rischia di andare incontro. Già le prime reazioni che hanno fatto seguito all’anteprima stampa hanno mostrato una certa freddezza, una mal disposizione d’animo sia verso l’apparato cinematografico in quanto tale sia verso la storia che i Manetti hanno scelto di raccontare; il primo indizio, forse, di ciò che accadrà quando il film sarà effettivamente nelle sale, e parteciperà all’agone del botteghino natalizio, il periodo dell’anno al quale viene chiesto il miracolo di salvare un’annata condizionata da un rapporto difficoltoso tra il pubblico e il grande schermo. La domanda, che a qualcuno forse potrà apparire superflua ma è necessario in ogni caso porsi di fronte a un film dalla natura così popolare e dalle esigenze commerciali (i due elementi non sarebbero da confondere mai) è dunque la seguente: il pubblico si farà convincere – o conquistare, se si preferisce – dalle avventure di Diabolik? È su tale quesito che si concentrano i dubbi cui si faceva riferimento in precedenza. Se ci si immagina Diabolik come una gallina dalle uova d’oro in grado di risollevare le sorti del mercato si rischia – almeno questa è l’impressione, sarebbe bello fosse negata dai fatti – di andare a sbattere contro un muro a velocità folle, come quelle che raggiunge la splendida Jaguar E-Type guidata dal ladro più astuto del mondo. Il perché è presto detto: in modo del tutto cosciente Antonio e Marco Manetti hanno costruito un film d’altri tempi, del tutto distante dal ritmo del contemporaneo, dallo scandire del montaggio d’oggi, dalle pratiche del cinema mainstream attuale. Il loro tornare indietro fino alla fine degli anni Sessanta, prima volta all’interno del loro cinema di uno spaesamento temporale simile, non è solo narrativo, ma diventa un elemento di senso, di lettura dell’industria. Una dichiarazione di appartenenza a un mondo che non esiste più, e che si può ricreare solo aderendo a un immaginario dichiaratamente falso, bidimensionale, fumettistico…

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